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31 dicembre 1861: gli insorti Del Sambro e Caruso attaccano i Lancieri di Montebello

Posted by on Feb 14, 2018

31 dicembre 1861: gli insorti Del Sambro e Caruso attaccano i Lancieri di Montebello

Il 6 novembre del 1860 il Governatore di Capitanata, Gaetano Del Giudice, annunciava alla popolazione dauna che Vittorio Emanuele II sarebbe entrato in Napoli.

Il 7 novembre, appena entrato in Napoli, il re nominava un Luogotenente per la gestione delle Province Napoletane, in attesa che venisse unificata la legislazione dell’ex regno borbonico con quella piemontese. L’istituto della Luogotenenza sarebbe durato ben oltre la costituzione del nuovo Parlamento italiano. Infatti, l’ultimo dei quattro luogotenenti, il generale Enrico Cialdini, rimase in carica dal 14 luglio al 31 ottobre del 1861, accentrando nelle proprie mani anche i poteri militari del Mezzogiorno.

Evidenti erano le difficoltà di unificazione amministrativa e legislativa, in un contesto nel quale, dopo il crollo del governo borbonico e l’arrivo dei piemontesi, il Mezzogiorno d’Italia aveva subito un tracollo economico che non aveva risparmiato nessun segmento vitale e nessun ceto sociale. Gli scambi commerciali con i paesi esteri erano stati quasi del tutto annullati, considerato che oltretutto le vie di comunicazione erano controllate da soldati borbonici sbandati, da giovani renitenti alla leva e da braccianti e contadini costretti a derubare i possidenti per sopravvivere alla fame e alla miseria, non avendo ottenuto la promessa censuazione delle terre demaniali.

In queste condizioni, il bilancio dell’ex regno borbonico, una volta florido, dovendo sostenere il pesante fardello dell’occupazione militare garibaldina e il peso della violenza guerra civile in atto, entrò in deficit, mentre i risparmi privati crollavano, interi settori industriali e commerciali registravano il fallimento e una fuga impressionante di capitali prendeva la via del non ritorno. Inoltre, la magra annata agraria aveva gravemente colpito le fasce deboli della popolazione provocando malcontento e nuova linfa per la ribellione.

Soppresse le luogotenenze napoletane, il generale Alfonso La Marmora fu messo a capo delle forze militari del Sud e nominato prefetto a Napoli. Per prima cosa si sbarazzò dell’esercito meridionale di volontari democratici e repubblicani, assicurando alla monarchia sabauda, oltre al primato politico, anche quello militare dei territori conquistati militarmente. Non a caso l’ultimo luogotenente Cialdini aveva scritto, in francese, qualche mese prima al conte di Cavour, che non gli sarebbe dispiaciuto eliminare i due nemici (democratici garibaldini e “briganti” ribelli) mettendoli gli uni contro gli altri. Ed è esattamente quanto era realmente accaduto: in attesa di spostare l’ Esercito italiano dal fronte austriaco, venne utilizzato l’esercito meridionale di volontari per combattere la guerra civile. Volontari utilizzati strumentalmente, per poi essere mandati a casa perché non ritenuti idonei al servizio regolare nell’Esercito (in realtà erano vissuti come un reale pericolo per la monarchia).

A questo punto, con una forza militare che arriverà presto a 120.000 unità, era possibile dare il colpo finale ai partigiani ribelli. La Marmora utilizzò un sistema spionistico e repressivo spropositato e spregiudicato, facendo affidamento su ampi poteri e godendo di totale impunità, grazie alla mancata applicazione delle garanzie democratiche dello Statuto Albertino, in attesa della famigerata Legge Pica.

Le bande di rivoltosi del Gargano si riunivano spesso nei pressi del fiume Candelaro, lungo l’asse che va da Manfredonia a S. Severo, per cui il generale comandante le truppe della provincia, Luigi Seismit Doda, vi aveva stanziato un plotone di Lancieri di Montebello. Già il 16 dicembre 1861, secondo la ricostruzione dello storico Giuseppe Clemente, 22 lancieri avevano sorpreso lungo le falde di Rignano circa 200 guerriglieri, uccidendone 7 e ferendone 22, accusando una perdita di soli 6 uomini. Il 31 dicembre non ci fu altro che la vendetta ordita dal capo Angelo Maria Del Sambro, che aveva riunito per l’occasione le bande di Caruso, Villani e Polignone, circa 200 uomini, la maggior parte dei quali ex soldati dell’esercito borbonico e giovani renitenti alla leva che si rifiutavano di combattere contro i propri familiari al servizio di un esercito che ritenevano straniero e invasore. Sicuramente c’erano anche malviventi, pochi secondo la ricerca del celebre letterato garganico Pasquale Soccio. I poveri contadini garganici alla fame, che il nuovo governatore Cesare Bardesono avrebbe trovato in condizioni peggiori degli «schiavi d’America», spesso lo diventavano per necessità conseguenti allo sfruttamento a cui erano costretti dai proprietari terrieri, ormai supportati dal nuovo governo.

Sapendo che i lancieri, per tornare alla fattoria Mercaldi, sarebbero passati dal Ponte della Salzola (affluente del Candelaro), in località Ciccallento, Del Sambro e i suoi uomini si appostarono nei dintorni del ponte, nella depressione tra i due fiumi.

Del Sambro poteva contare sulla figura dell’insorgente e rivoluzionario Michele Caruso, un “brigante” che lo storico del brigantaggio Giuseppe Osvaldo Lucera ha pienamente riabilitato come uomo e come patriota. Caruso, sognatore dall’animo semplice, spinto alla ribellione per difendere la rivalsa dalla povertà di “poveri cristi” provenienti da un’antica civiltà contadina, fu un guerrigliero che seppe meritare il rispetto di blasonati e altolocati generali piemontesi, che ebbe il coraggio e l’audacia di sfidare e opporsi ai circa 60.000 uomini presenti in Capitanata nell’estate del 1863 per debellare le rivolte contadine e per porre fine col sangue alla cruenta guerra civile; fu un insorgente che non riconobbe la nuova dinastia venuta dal Nord e i vecchi e nuovi camaleontici usurpatori di terre demaniali loro alleati, sfrenati sfruttatori di un genere umano ridotto in schiavitù.

Il sottotenente Carlo Alberto Fossati, partito la mattina del 31 dicembre dalla masseria Mercaldi per perlustrare la riva sinistra del Candelaro nei pressi di località Paglicci nel territorio di Rignano, fu astutamente attratto in località Ciccallento e, avvistato uomini armati sul ponte della Salsola, mosse i lancieri all’attacco, cadendo nella trappola dei 200 guerriglieri. Per la sua avventata azione il sottotenente Fossati fu sottoposto alla misura degli arresti in attesa di accertamenti e il comandante Doda fu criticato da La Marmora.

Alla memoria dei 22 lancieri caduti del 25° Reggimento Montebello, l’Amministrazione Provinciale di Foggia, il 31 dicembre 2002, ha posto un cippo dove possiamo leggere: « … attratti con inganno furono trucidati da una banda di 60 briganti capitanata da Angelo Maria Del Sambro» e «morirono per la causa dell’Unità nazionale».

Serve inevitabilmente una seria revisione storica del nostro processo unitario, che tolga il velo posto sui massacri perpetrati, sulle violenze subite anche da donne e bambini, sui paesi rasi al suolo, sugli incarcerati senza accusa, sui fucilati senza processo, sui deportati senza colpa, sulla legge Pica, sulle infauste leggi fiscali e doganali, sui milioni di emigrati condannati al destino infame di chi lascia incolpevole la propria terra.

Gianfranco Nassisi, appassionato studioso, in un convegno ha ricordato che i 1.500 briganti riconosciuti nel solo 1861 in Capitanata, gran parte dei quali uccisi o imprigionati, «odiati dalle autorità, dimenticati dai concittadini, disconosciuti dalla storia» attendono ancora la giustizia che «la storia, come Tacito insegna, col tempo giunge».

Se sul ponte di Ciccallento l’Amministrazione provinciale ha ritenuto di dover onorare la memoria dei Lancieri di Montebello caduti, a maggior ragione, oggi che ricade il Giorno della Memoria delle vittime meridionali del Risorgimento, ci sembra più che doveroso chiedere lo stesso trattamento per i soldati, per i renitenti, per i contadini garganici che, relegati all’ultimo stadio della società civile, si mossero alla rivolta spinti da condizioni di vergognosa e ignobile ingiustizia sociale.

Anche perché di quei “briganti” conserviamo orgogliosamente, seppur dispersi nel mondo, il temperamento rude, l’ indole fiera, persino l’impronta genetica.

Michele Eugenio DI CARLO
(foto di Michele MONACO)

fonte

sanmarcoinlamis.eu

segnalato da

Vincenzo Gulì

 

 

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