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A 150 anni dall’Unità, il Portale del Sud risponde ad alcune “domande frequenti”

Posted by on Gen 21, 2018

A 150 anni dall’Unità, il Portale del Sud risponde ad alcune “domande frequenti”

Intervista a Lino Patruno

L’Unità d’Italia andava fatta o no?

Considerato il periodo storico in cui si inquadra, era necessario ridurre la frammentazione della Penisola per acquisire un maggior peso sia politico che economico. Bisogna inoltre ricordare che il Risorgimento non fu un movimento solo italiano, ma si collocò in un contesto europeo, frutto della Grande Rivoluzione sociale del 1789 (cfr: Dalla Rivoluzione Francese al Congresso di Vienna), nell’ambito dei movimenti nazional-patriottici del XIX secolo e servì a cancellare gli Stati paternalistici, fondati su concezioni proprietarie del potere.

Il Risorgimento ebbe un carattere indubbiamente emancipatorio a diversi livelli, da quello economico-sociale a quello politico, a quello religioso e culturale. La mala gestione da parte di Casa Savoia e della classe dirigente, ricordiamo eletta solo dal 2% della popolazione e che rappresentava esclusivamente gli interessi degli aristocratici per nascita o per censo, non deve farci ritornare indietro come desidera la Lega degli ignoranti che riempie la testa vuota dei suoi elettori con menzogne, come quella che il Sud drenerebbe le risorse realizzate dal Nord. A costoro bisognerebbe innanzi tutto ricordare che lo squilibrio tra le due aree è stato favorito da un processo di industrializzazione che si è “volutamente ed erroneamente” localizzato quasi esclusivamente nelle regioni settentrionali a scapito del Mezzogiorno e ribadire che questo Sud, fu allora ed è tuttora un mercato essenziale per le imprese produttrici del Nord a scapito e a spese del Meridione.

Quale forma istituzionale il novello Stato unitario avrebbe dovuto assumere?

La maniera migliore di unificare l’Italia, sarebbe stata senza dubbio quella di una Federazione.
Il federalismo a cui pensava Carlo Cattaneo era tuttavia ben diverso da quello di Bossi; non a caso Spadolini non si stancava mai di rammentare l’importanza di realizzare in Italia un federalismo solidale, di stampo liberale ed europeo. Un Federalismo che unisce e non che divide. Ma nessuno oggi lo ricorda agli “onorevoli leghisti”. Comunque Mazzini paventò già allora il pericolo di una nazione incapace di unirsi culturalmente e socialmente.
Cavour invece aveva in progetto di “piemontesizzare” il Nord Italia e suddividere la penisola in tre Stati federali: il Regno di Sardegna, lo Stato della Chiesa e il Regno delle due Sicilie, sotto la virtuale presidenza del Papa. Così Cavour nel 1859, prima della fine della seconda guerra d’Indipendenza, si era accordato in gran segreto con il governo borbonico: il Regno di Sardegna avrebbe inglobato il Lombardo-Veneto, l’Emilia e la Toscana, al Regno delle due Sicilie si sarebbero aggiunte l’Umbria o le Marche, tolte allo Stato della Chiesa mentre Roma sarebbe diventata capitale dell’Italia federale. Tutto pareva organizzato, mancava soltanto l’approvazione di Francesco II, re di Napoli, che però, da devoto e timorato di Dio qual era, quando fu informato che il suo Regno si sarebbe arricchito delle due regioni papaline gridò al sacrilegio. E il piano andò in fumo.

 

Ci fu chi, da Liborio Romano ad altri rappresentanti (anche parlamentari) del Sud, suggerì a Cavour e al suo entourage un’attenzione particolare verso un territorio con alcune caratteristiche socio-culturali che richiedevano una politica differenziata da altre zone: non un territorio inferiore, ma diverso. Perché secondo voi non furono ascoltati?

Perché prevalse il desiderio e l’ingordigia di conquista territoriale. Il desiderio di colonialismo di Vittorio Emanuele prevaricò il buon senso e una tale soluzione accontentava inoltre i piccoli e grandi proprietari dell’ex Regno meridionale. Se la provincia napoletana diveniva provincia piemontese, poco cambiava per il baronaggio e ciò che cambiava, cambiava in meglio. Inoltre i soldi del Sud servivano per ripianare l’enorme debito contratto dal Piemonte tra il 1853 e il 1860.

 

Ci fu la costruzione di una <minorità> del Sud partita già nel 1700 ad opera soprattutto degli Inglesi verso i Borbone, continuata con la Restaurazione, fomentata dai meridionali esuli politici in Piemonte. Come si sviluppò secondo lei questo pregiudizio (se ritiene che ci fu), quanto influì sugli eventi successivi, era meritato o no, come avrebbe potuto essere fronteggiato?

l’Inghilterra, che aveva fatto della Sicilia una sua base militare durante il periodo napoleonico, mantenne con essa un rapporto economico privilegiato. Per attenuare questa condizione di dipendenza economica il governo di Napoli sottoscrisse anche trattati con la Francia, la Spagna, il nord Africa e la Russia. Più che i trattati, contavano però gli effettivi legami siculo-inglesi rappresentati dalla cospicua presenza di commercianti e imprenditori inglesi che godevano di un doppio status: quello di cittadini inglesi e quello di cittadini siciliani beneficiati dal governo locale di particolari agevolazioni fiscali e doganali. Si era venuto a creare una sorta di Stato nello Stato. Famiglie come gli Ingham, i Woodhouse, i Whitaker si stabilirono definitivamente in Sicilia, divennero siculo-inglesi e con le loro immense fortune realizzarono nei fatti la supremazia britannica nell’economia siciliana. Questa situazione si ripercuoteva anche all’interno di tutto il Regno.

Inoltre, il sogno autarchico di Ferdinando II fu inficiato dalla dipendenza dalla Chiesa di Roma, soprattutto nell’istruzione, che impedì di fatto la creazione di una classe dirigente politica “nazionale”

L’aggettivo <borbonico> definisce da sempre una condizione di antimodernità, di rozzamente burocratico, di arretrato, di oscurantista, di retrivo, di sudista, insomma di borbonico. E’ meritato o no? In definitiva, la struttura statale, amministrativa, legislativa, culturale, sociale del Regno delle Due Sicilie era veramente questo o era frutto della propaganda? E da questo punto di vista, il Regno era indietro rispetto agli altri Stati e staterelli d’Italia o i tempi erano quelli per tutti (per quanto quella sabauda fosse una monarchia costituzionale, quindi un passo avanti?). C’erano davvero, a parte quelli indipendentisti siciliani, moti di ribellione per la libertà, per il progresso, per la democrazia, per la civiltà? Ed influirono, nel senso che la fiancheggiarono e facilitarono, nell’impresa garibaldina?

il Regno delle Due Sicilie non era uno staterello nato come contropartita ad una fuggevole alleanza ma era lo Stato italiano preunitario più antico e più esteso territorialmente. Lo studio, non preconcetto, della sua storia ci trasmette l’immagine di un regno e di una società non sradicati dalle correnti del pensiero illuministico europeo, di una amministrazione che cerca, a dispetto del ribellismo popolare e tra gli sconvolgimenti sollevati dalla rivoluzione francese e dalla occupazione napoleonica a metà regno, di spezzare i tradizionali e duri a morire rapporti feudali e di avviare una industrializzazione in alcuni settori chiave come le miniere, la metalmeccanica, l’enologia, la navigazione, ecc.
E’ necessario però tenere presente che stiamo pur sempre parlando di uno stato assoluto , e che la ricchezza, come il potere, era concentrata in poche mani: quelle del sovrano e dell’aristocrazia. Scarsa era la presenza della borghesia e praticamente ininfluente la presenza operaia non organizzata e priva di una coscienza di classe.

Con Carlo III di Borbone ed il ritorno alla indipendenza dalla Spagna si avvia un processo di modernizzazione della macchina burocratica con nuovi codici, leggi e regolamenti e si avvia la sprovincializzazione della cultura meridionale. Si cerca anche di fare sorgere una coscienza unitaria che tuttavia cozza contro l’atavica contrapposizione tra Napoli e Sicilia, aggravata ancora di più dalle differenti vicende vissute dai due regni tra il 1799 e il 1815 (La repubblica napoletana, il periodo napoleonico, il protezionismo inglese).
Non ci sembra azzardato paragonare la situazione del Regno delle Due Sicilie a quella dell’Italia di oggi: tante piccole imprese, troppe forse, poche grandi industrie. Esportazione di merce pregiata, destinata ad un mercato ristretto, e importazione di beni di largo consumo.

La popolazione si articolava in tre fasce a distribuzione piramidale, un vertice costituito dall’aristocrazia terriera che dilapidava i suoi patrimoni inseguendo lussi e capricci, una borghesia di paglietta, tranne qualche rara eccezione come i Florio, i Gallo o gli Orlando che investivano nell’industria metallurgica ma che nel tentativo di imitare il tenore di vita dei nobili e di entrare nella loro cerchia, diedero il via a quel fenomeno descritto come “pietrificazione dei profitti”, l’acquisizione cioè di sontuose dimore urbane e suburbane con relativi parchi, e il popolo infine che versava in uno stato di generale povertà ci si spostava nelle zone interne.

Era proprio il basso tenore di vita della maggior parte della popolazione e la penuria di denaro circolante che a lungo termine non avrebbe assicurato sbocchi a qualsiasi attività produttiva, dai manufatti metallurgici, ai tessili, dalle ceramiche all’editoria.

La situazione periferica rispetto ai principali mercati inoltre, faceva sentire tutto il suo peso allora come ancora oggi. La ricchezza del sovrano e delle classi egemoni non si rifletteva nel resto del paese. Poche isole felici per lo più concentrate nei centri marittimi più importanti mentre il resto del Regno versava in condizioni di miseria, di ignoranza e di arretratezza.

Il segno tangibile della nostra subalternità ai mercati esteri è dato dalla modalità di produzione e del commercio degli zolfi. L’industria degli zolfi in Sicilia nasce nel 1808, quando il governo diede i consensi per lo sfruttamento del sottosuolo. La necessità di estrarre in gran quantità lo zolfo era dettata dalla nascita della moderna industria chimica europea e la Sicilia aveva il monopolio naturale dello zolfo. L’apertura delle miniere, avviata al tempo dell’occupazione inglese durante le guerre napoleoniche fece vivere alla Sicilia una sua particolare rivoluzione industriale che cresceva al crescere dell’industria inglese e francese. In Sicilia l’attività mineraria fu tuttavia caratterizzata da uno sfruttamento della manodopera a dir poco selvaggio. Gli operai lavoravano in condizione disumane. Eppure furono tantissimi i braccianti che preferirono lasciare i campi per lavorare nelle miniere. Questo ci fa capire quanto drammatiche fossero le condizioni dei lavoratori della terra. In miniera avevano per lo meno la certezza del pane quotidiano. L’esodo dalla agricoltura fu significativo e influì non poco nella diminuzione della produzione cerealicola dei latifondi. Nonostante si fosse venuto a creare un “proletariato industriale” enorme per quei tempi (le prime statistiche, risalenti al 1860, registrano la presenza nelle miniere di un’occupazione operaia di circa 16.000 unità) le connotazioni dello “sfruttamento” delle zolfare era prettamente coloniale.
Tutto il prodotto era destinato all’estero allo stato grezzo e la commercializzazione era prevalentemente in mano ad operatori stranieri, per lo più inglesi che si occupavano anche dell’aspetto creditizio assicurando il pagamento anticipato sulle consegne. Il sistema però accontentava tutti e cioè i proprietari delle miniere, che erano i grandi proprietari terrieri, i gabelloti, a cui era affidato lo “sfruttamento” cioè la gestione dei singoli giacimenti e gli operatori commerciali che agivano sul mercato estero. Da questa situazione scaturiva una cultura di rapina e sfruttamento nei confronti degli operai. I metodi di estrazione, per risparmiare, rimasero in uno stato quasi primitivo, tipico delle industrie coloniali.
Con il beneplacito al solito dei baroni e dei gabelloti. Una tale corsa alla produzione a basso costo portò spesso a crisi di sovrapproduzione e la situazione era diventata talmente poco sopportabile per uno Stato che aspirava a diventare moderno che il governo borbonico, nel 1838, cercò di arginare questo stato di cose offrendo un accordo vantaggioso alla società francese Taix-Aycard: i ministri di Ferdinando II offrirono ai francesi il monopolio del commercio degli zolfi, con un limite massimo di produzione annua, in cambio della costruzione di una moderna raffineria e di un impianto industriale per la produzione di acido solforico e soda solforata e l’impegno di addestrare manodopera locale. L’idea era di allentare la morsa del predominio economico inglese.

Dobbiamo tuttavia osservare che fin dagli anni ’30 dell’800 si era sviluppato un vivace dibattito tra protezionisti e liberisti, tra agraristi e industrialisti per lo sviluppo economico ma continuava a mancare un qualsiasi spirito di associazione che avrebbe consentito di aumentare non solo il capitale in denaro ma anche di macchine, di strumenti, di materie grezze e soprattutto di operai e dirigenti specializzati. Non dimentichiamo infatti che le nostre università vantavano cattedre di teologia, di filosofia, di economia, di lingue orientali, di astronomia ma mancavano di cattedre di ingegneria e di qualsiasi materia inerente la gestione dell’industria. Non si curava, in parole povere quell’”arte” che oggi chiamiamo “gestione aziendale” né di preparare operai qualificati .

Quella di Garibaldi non si può definire una <guerra> di conquista, perché non ci fu neanche la dichiarazione di guerra, con la furbata di Cavour che sapeva e non sapeva. Perché riuscì, perché l’esercito borbonico si dissolse, perché tutta la struttura di uno Stato che era il più grande e popoloso d’Italia (secondo alcuni la vera Italia) implose nel giro di pochi mesi? Tradimenti, corruzione, inanità, incapacità o interventi internazionali (soprattutto inglese)? O forza di una idealità nazionale e italiana che prevalse su tutto anche al Sud?

Riuscì perché ai contadini, che vivevano ancora come servi della gleba anche se nominalmente il feudalesimo era stato abolito, prometteva le terre e l’affrancamento dai padroni. Riuscì soprattutto perché fu favorita dagli inglesi con il beneplacito della Francia. In realtà quello che si voleva da parte delle due grandi potenze era impedire l’accesso al Mediterraneo alle altre due grandi potenze: la Russia e l’Austria. L’Italia unita governata dal Piemonte a spese del sud sottoposto avrebbe costituito uno stato cuscinetto che avrebbe favorito i traffici inglesi e francesi nel Mediterraneo a scapito di Austria e Russia.

Parlare di tradimenti può risultare azzardato se si pensa che a tradire fu tutta la Marina, metà dell’Esercito, gran parte della Pubblica Amministrazione e della Magistratura. Una tale dimensione non potè che essere determinata dal suggello di vari fattori, alcuni dei quali venivano da lontano (la divisione tra Napoli e Palermo sulla questione della Capitale e dell’indipendenza siciliana in primis); altri contingenti, come la presenza sul trono di Francesco II, bravissima persona ma del tutto inadatto al compito di re. Complice l’educazione da seminarista che gli era stata impartita.

Fa pensare anche la naturale tendenza meridionale ad assumere, allora come oggi, posizioni subalterne e di comodo verso il nord. Altrimenti come spiegare il voto a Berlusconi e al suo governo del Nord (della parte più biecamente ignorante del Nord)?

Tale tendenza, pur sinteticamente spiegabile con l’eccesso di servilismo, clientelismo, opportunismo individualista di noi meridionali, merita ben altro spazio, perché è evidente che rappresenta una minaccia costante al nostro progresso, ed ha permesso di accettare con zelo non solo l’unificazione fatta in quel modo, ma anche il fascismo, le guerre, e per ultimo la lega nord al governo.

Quanto influì nell’atteggiamento verso il Regno delle Due Sicilie il suo tradizionalismo religioso appiattito sullo Stato pontificio, ci fu e influì il desiderio di una resa dei conti non solo determinata dal <libera Chiesa in libero Stato> di Cavour e dall’idealismo patriottico ma anche dalla Massoneria internazionale (complice Mazzini) e dal Protestantesimo europeo in spregio della Chiesa cattolica? Quanto influì il ricordo dei vincitori e dei vinti del 1799?

Influenzò certamente e ci mise contro gli Ebrei ed i liberali, nonché le organizzazioni internazionali come la Massoneria. La sponda difesa “dall’acqua santa” si rivelò inconsistente in un’epoca che tendeva ad essere laica e libera da influenze clericali. In effetti, il “collante” cattolico su cui, secondo i tradizionalisti, si basava la “nazionalità” italiana, era nient’altro che uno strumento di potere sulle masse nelle mani dell’Ancien Regime, buono a tener a freno il popolino (insieme alla camorra di quell’epoca), ma intrinsecamente dannoso per creare una cittadinanza consapevole, in quanto devoluto a difendere il potere temporale del clero.

 

Un giudizio su Garibaldi.

Garibaldi di mestiere faceva il soldato. Pronto a mettersi a servizio di quello che lui riteneva un ideale da perseguire per l’emancipazione dei popoli, solo che alla resa dei conti non fece altro che combattere per il miglior offerente e le sue battaglie si risolsero in vittorie solo perché la corruzione la fece da padrona.
Oggi è odiato sia dai meridionalisti nostalgici , sia dai secessionisti e federalisti del Nord, ai quali servirebbe un piccolo ripasso di storia.
I nostalgici borbonici ritengono Garibaldi responsabile di aver fatto cadere un regno.
Per i secessionisti federalisti, invece, Garibaldi fu una vera “disgrazia” in quanto unì la parte più industriosa ed evoluta, che secondo loro era il nord, a quella del Sud, che (sempre secondo loro) altro non era che una palla al piede per il progresso delle regioni del nord. Si evidenzia così una spaccatura nel paese, che sta assumendo proporzioni inaccettabili.
Riteniamo che la politica, anche in questo caso, non ha saputo assumersi le proprie responsabilità, proprio perché qualunquista, opportunista e priva di qualsiasi ideale che non sia quello di portare acqua al proprio orticello con dispregio e indifferenza dell’unione nazionale.

Un giudizio sul feroce trattamento militare del Sud dopo l’Unità (se condivide il racconto di Ciano, di Alianello e compagni, posso riferirmi a quei testi attribuendo a lei un parere di conferma. Se ha una sua versione diversa, o più ricca, episodi che vuole segnalarmi, testi che vuole suggerirmi, le sarò grato se vorrà farlo venendomi incontro. Può anche inviarmi ciò che lei eventualmente ha già scritto in altre occasioni e che io possa utilizzare).

Non vorremmo sembrare cinici ma è, purtroppo, il trattamento che i vincitori hanno da sempre riservato ai vinti, specie se i vinti non accettano la sconfitta perché ritenuta acquisita con l’inganno. E poi per quanto riguarda gli italiani sappiamo bene quale sia stato, in precedenza e successivamente il loro comportamento nei confronti di popolazioni sottomesse.

La vexata quaestio delle condizioni economiche del Regno delle Due Sicilie prima dell’Unità e al momento dell’Unità. Le condizioni economiche del Sud dopo l’Unità e la responsabilità del nuovo Stato unitario. Ritenete che l’azione dei vari governi nazionali è stata ispirata dagli interessi e dalle necessità della parte più forte del Paese, cioè il Nord?

Ciò che pensiamo sulla economia delle Due Sicilie è descritto in L’economia del Regno Siculo-Partenopeo tra il declino mediterraneo e la rivoluzione liberale, e certamente possiamo affermare che ogni decisione fu presa in favore delle regioni del nord considerando e sfruttando come colonia il Regno appena conquistato.

Un giudizio sulla grande emigrazione meridionale.

I dati post-unitari non sono affidabili perché la statistica è una scienza moderna. Fatto sta che durante il periodo di Giolitti la lira fece agio sull’oro anche grazie all’emigrazione meridionale. Il giudizio, comunque, dovrebbe unire anche altre contributi, come i soldati morti al fronte nelle due guerre mondiali (2/3 meridionali contro 1/3 di popolazione) e l’emigrazione del secondo dopoguerra. Senza dover fare tanti calcoli, ci sembra giusto storicamente sostenere che non saranno certo quei 4 soldi di c.d. “trasferimenti” (alla fine dello scorso secolo XX) ad aver annullato l’enorme credito che il Sud ha accumulato per fare l’Italia unita.

 

Un giudizio sulle legislazioni d’emergenza o straordinarie verso il Sud in 150 anni, compresa la Cassa per il Mezzogiorno.

C’è stata un’epoca in cui al nord gli aiuti si chiamavano IRI ed al sud “cassa per il mezzogiorno”! Il giudizio più oggettivo si ricava guardando la carta ferroviaria, autostradale, aeroportuale d’Italia: parla da sola!

 

Come il suo movimento si fa espressione delle sue teorie, quali manifestazioni, quali iniziative anche politiche, quale rapporto con altri movimenti simili, quale adesione, quale consistenza, quale prospettiva. Soprattutto è unitario, del tutto o criticamente, è antiunitario, separatista, secessionista, autonomista (e come)?

Non siamo molto portati ad assumerci “etichette”! Certamente non siamo un movimento, né un partito, bensì solo un sito che desidera dare una corretta informazione storica, non fare storia o revisione storica o un “gridare” al ladro al ladro come se tutto ci fosse piovuto dall’alto, come se politiche sbagliate e arroccamenti su posizioni anacronistiche rispetto all’evolversi dei tempi non avessero favorito le mire espansioniste del Piemonte. Si va alla ricerca di fatti, documenti, vecchie affermazioni che possano dimostrare come l’Unità d’Italia si poggia solo su artefatte ricostruzioni storiche, manipolate ad uso e consumo di interessi ben lontani dalle forme di eroismo e patriottismo decantati dai nostri libri di storia. E’ indubbio che la storia raccontata nelle scuole elementari e medie alle future classi NON dirigenti fino alla caduta del regno savoiardo e del regime fascista era una storia scritta ad uso e consumo dei vincitori. All’indomani della seconda guerra mondiale tuttavia nessuno si preoccupò di riformare i programmi ministeriali e la storia raccontata nei libri per le scuole elementari e medie continuò a mostrare un nord operoso e un sud parassita . Di questo dobbiamo dolerci con noi stessi e con i nostri rappresentanti in parlamento.

Oggi è in corso, secondo noi, una pericolosa rivisitazione del nostro percorso storico, non più posto in essere da seri studiosi, bensì da improvvisati “storici” che traggono conclusioni solo per aver sentito, letto, o visto un documento la cui veridicità e validità in tanti casi è alquanto discutibile e soggettiva. Viviamo un momento in cui il livello culturale, soprattutto di coloro che hanno le redini e le sorti di questa nostra nazione, si è abbassato di molto e quello che riteniamo il peggiore dei mali è l’arrogante prerogativa che il ricoprire una eventuale carica pubblica, possa consentire di proferire sentenze in materia di storia e di cultura in genere, emettendo solenni giudizi sulla sua qualità e veridicità. Non metto in dubbio minimamente che la critica e la discussione e l’apporto di nuovi elementi aiuta ad approfondire tutte le argomentazione del nostro discernere, però che siano svolte sulla base di ricognizioni scientifiche, se si vorrà dare delle vere e proprie interpretazioni e, per favore, cerchiamo di ricordarci ogni tanto che alcune delle doti più apprezzate, restano sempre l’umiltà e la capacità di riconoscere i propri limiti, soprattutto quando si desidera affrontare argomentazioni di così grande profilo storico culturale.

Ciò che ci interessa, è partecipare e contribuire alla crescita di una cittadinanza solidale e consapevole, che si ritrovasse e riconoscesse nel principio di uguaglianza.

Cosa dovrebbe fare oggi politicamente e culturalmente il Sud in base alle sue convinzioni?

Partecipare al superamento del berlusconismo, combattere l’individualismo e la logica dell’orticello, cercando, culturalmente, di recuperare almeno un po’ delle proprie radici “pagane”, cioè di pensiero immanente, di praticità. Meno cultura autoreferenziale, meno tradizionalismo, molto meno “accattonaggio”. Una cultura nuova, che possa essere finalmente diffusa e non seppellita in poche menti. Ma una cultura vera, oggettiva, e non di parte, anche se questa volta risulterebbe essere a favore dell’altra parte.

 

Quali politiche dovrebbero essere adottate per una soluzione o un miglioramento della Questione Meridionale?

Politiche solidali e collettiviste, atte a fruttare la fantasia e la voglia di “fare insieme”, perché l’individualismo non ha portato da nessuna parte. L’individualismo e l’opportunismo sono le palle al piede del sud, perché fanno credere che esista un “riscatto” individuale. Che invece è solo nuova sopraffazione.

Che futuro vede in sintesi per il Sud?

Siamo pessimisti, per l’epoca attuale, per la nostra generazione che ha fallito completamente gli ideali di gioventù. Non sappiamo davvero vedere il futuro, date le circostanze. Però continuiamo a impegnarci, a scrivere, a lavorare… sperando che serva a qualcosa!

Cosa ne pensa di un Partito del Sud?

Non sentiamo il bisogno di imitare Pontida.

 

Il parere sulla Lega Nord: un nemico, un alleato?

Un nemico pericoloso, che odia pregiudizialmente il Sud, che ha basato le sue fortune sul razzismo antimeridionale, che sta trascinando l’intero paese in una miscela di incultura, di arroganza, di intolleranza e di nanismo intellettuale.

L’atteggiamento suo e del suo movimento verso i 150 anni dell’Unità, come si sta andando verso l’anniversario, cosa farete voi, cosa suggerite.

Daremmo ampio risalto al contributo determinante che il sud ha dato all’Italia in questi 150 anni. La revisione storica più che rivangare vecchie questioni risorgimentali alle quali non si può più porre rimedio dovrebbe far risaltare quanto il SUD, nel dopoguerra, ha contribuito alla crescita dell’Italia repubblicana con il lavoro dei suoi emigranti e dei lavoratori e intellettuali che operando nelle regioni e nelle città del nord le hanno arricchite. Daremmo risalto non a qualche pensione d’invalidità erogata più che per leggerezza per pietà, ma al contributo materiale e intellettuale che l’intero sud ha dato all’Italia intera .

Perché sopravvivono dopo 150 anni (caso forse unico nella storia europea) movimenti come il suo: quale il primo sentimento (o risentimento) che lo anima (e li anima), di tipo storico, economico, religioso, sentimentale, culturale, civile?

Per un malinteso senso di appartenenza o per malafede: i nostalgici confondono l’ieri con l’oggi, antepongono un sentimento fascista agli interessi delle popolazioni meridionali. Dominati dall’idea totalitaria, scambiano la ricerca storica con la politica. Il personalismo individuale porta loro a cercare uno spazio e un ambito che, per capacità, sarebbe loro negato.

Qualsiasi parere finale sul tutto, anche estremo e muscolare se crede. Un’idea che vuole lanciare, un appello, un anatema, un colpo di comunicazione, un atto di pace o di guerra sull’Unità e i suoi 150 anni.

L’indipendenza è il non dipendere. L’autonomia è il fare da solo. Non sono pezzi di carta, statuti, concetti astratti. Non sono ideali o valori. Sono invece capacità misurabili, che dipendono dalle risorse a disposizione. Più si è ricchi, più si può diventare autonomi ed indipendenti. Questo vale ancor più per gli Stati, in cui l’economia e la produzione di beni e servizi li rendono più o meno autonomi ed indipendenti, cioè capaci di distribuire servizi e beni ai cittadini. Chiarito ciò, è evidente che mentre al nord di oggi (forse) converrebbe staccarsi dall’Italia, al sud di oggi non conviene affatto. Chi, pertanto, lavora in tal senso, o scimmiotta la lega, o vota Berlusconi, ed è oggettivamente un “traditore”.
Indietro non si torna.

Fara Misuraca, Alfonso Grasso

 

ilportaledelsud.org

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