Alta Terra di Lavoro

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AGROINDUSTRIA DI FIORENTINO BEVILACQUA

Posted by on Feb 23, 2016

AGROINDUSTRIA DI FIORENTINO BEVILACQUA

Sull’ingresso che l’agroindustria, sfruttando la dichiarata (e poco praticata) repulsione verso i pesticidi, la normativa europea che verso i presidi biotecnici si sta indirizzando, vuole fare anche là dove, trattando l’agroecosistema rispettando le sue componenti, la sua biodiversità e le sue funzioni, ciò non sarebbe minimamente necessario, la penso così.

Castanicoltura ecologica (… anche ecologica). Da un po’ di tempo si assiste ad un susseguirsi di convegni, incontri e iniziative volti a informare e recuperare quanto più possibile della naturalità perduta degli agro ecosistemi. Ci sono anche corsi universitari sul recupero della naturalità perduta. Natura, per definizione, è ciò che si è formato senza l’intervento dell’uomo. Un agro ecosistema, dunque, è un sistema in cui non c’è naturalità al cento per cento: è infatti un ambiente creato/modificato dall’uomo per la produzione di beni alimentari. Ma, se in un agro ecosistema l’aspetto e la composizione in specie, entro certi limiti, possono essere determinati dall’uomo, non possono esserlo altrettanto i rapporti tra le specie presenti e tra queste e l’ambiente chimico-fisico, in quanto questi sono stati messi a punto in milioni di anni di evoluzione. Essi sono e restano naturali e non si possono modificare, a meno di non ricorrere agli OGM. Si può scegliere di piantare una quercia al posto di un castagno o di frassino: ma ognuno di essi avrà i suoi ospiti, i suoi parassiti, ognuno di essi, specie guida, creerà un habitat diverso dall’altro. Nei boschi di castagno del Roccamonfina, una certa naturalità c’è ancora. Si può pensare che quanta più se ne conserva, tanto più vada meglio per il bosco, la produzione e la stessa Comunità che gravita socio-economicamente attorno al castagneto. Parte di questa naturalità, però, è andata o sta andando perduta con dei costi gestionali e sociali che, se non si inverte la tendenza, saranno pagati in futuro. A questo proposito, prendendo come situazione di riferimento (non come modello gestionale cui tornare dal punto di vista tecnico-strumentale) il castagneto quando l’erba del sottobosco si tagliava col falcetto e con la falciatrice e la lettiera da eliminare, per consentire la raccolta delle castagne, si radunava col rastrello, è pensabile che ci sia stata perdita di naturalità per diversi tipi di cause. Alcune emergenze degli ultimi anni hanno fatto scoprire ad alcuni “nuove terre”, “terre promesse” da conquistare con l’uso della chimica, di una certa chimica invasiva e dannosa; per tutti. Si dice che qualcuno stesse percorrendo questa strada già prima dell’arrivo del cinipide. Ci auguriamo che sia una situazione destinata a finire presto in quanto aspettiamo fiduciosi l’arrivo sul campo di una “nuova” chimica, mirata, senza altri effetti che non siano quelli attesi sul bersaglio a cui è destinata (feromoni per confusione /disorientamento sessuale, per esempio). Iniziative sperimentali in tale senso, sono state messe in atto qui, nei castagneti del Vulcano: sono ancora in corso ma lasciano ben sperare. Forse, però, una parte della naturalità che finora assicurava un certo, accettabile equilibrio tra parassiti (xilofagi o carpofagi), ospiti (castagno e suo frutto) ed utilizzatori (castanicoltori), è andata perduta (sembra quasi un paradosso) forse proprio per voler lasciare troppo alcune cose a se stesse. Per recuperare una certa parte di naturalità strettamente intesa, si è riavviato un parziale processo di successione ecologica con ripopolamenti (rafforzamenti di popolazioni di specie già presenti), reintroduzioni, eliminazione di certe pressioni etc. Questi interventi hanno finito per squilibrare alcuni rapporti del sistema bosco com’era finora, rompendo alcuni equilibri (creati dall’intervento umano) che, assieme ad altre cose, consentivano al castanicoltore quell’utile economico necessario al suo bilancio familiare ma anche ad assicurare quella gestione del bosco che lo mantenesse come esso è: risorsa economica con buona naturalità che a sua volta genera altri ritorni economici a carico dei residenti (turismo, prodotti del sottobosco etc.). A proposito della naturalità, probabilmente perduta per recuperarne dell’altra in termini strettamente ambientali e non produttivi (ma occorrerebbero serie verifiche quali-quantitative), è un po’ come se, in un auto in sosta lungo un pendio acclive (sosta dinamica, nel caso di un agro ecosistema), si togliesse l’effetto frenante solo su una ruota: il moto risultante sarebbe anomalo, e potrebbe danneggiare l’auto stessa che, ruotando su se stessa, andrebbe a sbattere contro l’ostacolo più vicino. Oltretutto, una domanda sorge spontanea: quale sarebbe, per effetto di queste successioni riavviate, lo stato finale del bosco di castagno, quale sarebbe il nuovo equilibrio, anch’esso , come i precedenti dimostratisi però accettabili dal punto di vista della produzione, parzialmente naturale? Che posto avrebbe l’uomo – castanicolture in esso? Forse, certi interventi migliorativi dal punto di vista squisitamente ambientale, andrebbero ripensati partendo dalla considerazione che è l’uomo che mantiene, col suo lavoro, il bosco di castagno così com’è. Esso, infatti, non è, di suo, una comunità stabile di varie specie, ma è immutabile solo per via dell’intervento umano finalizzato alla produzione (non è un climax). Se ci si dimentica di questo, lo si condanna, in un modo o nell’altro, alla scomparsa: se non c’è più utile, lo si abbandona, lo si trasforma (con buona pace degli interventi migliorativi di cui sopra) o lo si dà via (dando inizio ad un nuovo latifondo, vero o gestionale transeunte che sia, che sul castagneto, così come l’abbiamo inteso finora, avrà un effetto comunque distruttivo). Ma l’uomo-castanicoltore, a sua volta, deve imparare che il bosco di castagno è molto più complesso di come egli abitualmente lo pensa, e che è proprio questa complessità (che significa maggiore naturalità) che lo aiuta nella gestione del bosco proteggendolo e dandogli una maggiore capacità di resistere e recuperare rispetto ad azioni di disturbo esterne. C’è, in somma, una naturalità utile che va mantenuta a tutti i costi! Capire che il bosco ha una sua impensata ma utile complessità (complessità ben nota nel mondo scientifico), è il punto di partenza per poter arrivare a ripensare, a riprogrammare l’applicazione di certe tecniche colturali e l’uso di certi strumenti. Cosa manca, allora? Chiarezza, unità di intenti ma anche conoscenza. Una conoscenza che, però, sia non generica (cioè mutuata da altri ambienti simili), dinamica (che segua l’evoluzione nel tempo del nostro sistema bosco), NON SETTORIALE. Il cervello riceve informazioni dagli organi e poi dà la “risposta” conseguente. Ogni risposta potrebbe essere giusta di per sé, ma da sola, settorialmente presa, non coordinata con le altre di altre parti del corpo, non basta e può essere addirittura dannosa. Stimolo e risposta; conoscenza e direttive-scelte per interventi. Passi pure la “flebo” momentanea, la stabilizzazione del malato in fase acuta: ma quella flebo non può diventare terapia di mantenimento, fatta vita natural durante. Si scoprano le origini del “male” , le sue ramificazioni, le sue interconnessioni e su quelle cause si intervenga. A…malattia passata, si usi una … “condotta di vita”, una gestione dell’agroecosistema che sia in accordo con le sue componenti, la sua struttura e il suo funzionamento e non sia contro di essi. Per fare ciò è richiesta conoscenza, da condividere anche a livello degli utilizzatori effettivi (i castanicoltori) e non soltanto al livello di chi deve emanare le consequenziali “direttive” del caso. Ma serve anche umiltà, dinamismo da parte degli utilizzatori attuali che devono poter avere gli elementi giusti per arrivare a pensare al bosco di castagno non più come a qualcosa fatto soltanto di alberi da potare ed erba da tagliare. C’è ancora della naturalità che si può non perdere? Sì, e in questo caso il castanicolture è l’attore principale, l’elemento determinante per non perdere altra naturalità rispetto alla condizione iniziale (falcetto, rastrello etc) scelta solo come punto di riferimento, non come modello operativo per il futuro.

Probabilmente, agendo sulla superficie del suolo con mezzi (trincia erba e decespugliatori) usati in un certo modo, si può danneggiare la popolazione di nematodi naturalmente presenti nel terreno. Si pensa di rimediare con lanci di nematodi, ma questo aumenta i costi di gestione del castagneto – bosco. In somma non ha senso danneggiare una componente o una funzione utile dell’ecosistema bosco e poi, a danno avvenuto, spendere dei soldi per ripristinare, magari con dei surrogati, la condizione naturale preesistente.

Probabilmente si opera male trattando la lettiera in un certo modo, e questo, assieme ad altre anomalie, rende il suolo squilibrato dal punto di vista dei nutrienti … ma poi si spargono concimi chimici che, usati male (anche l’eccesso di una sostanza è un fattore limitante), aggravano ulteriormente gli squilibri oltre che i costi di gestione (i concimi chimici, usati male, distruggono le micorrize, per esempio, che oltre dare ottimi porcini, forniscono alla pianta acqua, fosforo, protezione dai parassiti del suolo ed altre cose).

Probabilmente si tratta il suolo in modo tale da distruggerne l’epifauna (gli animali che vivono alla sua superficie e/o nei primi centimetri di esso), e questo lo rende poco permeabile all’acqua piovana e all’aria (il che rallenta i processi di decomposizione e mineralizzazione (1)… ma poi ci si lamenta dell’erosione, delle alluvioni (2) e forse anche di una minore produttività … e quindi si chiedono aiuti a sostegno (il che, come “flebo” da fase acuta va anche bene; ma, così agendo, si rischia che diventi strutturale e come tale non più sostenibile da parte del sistema Paese).

Si propone il ripopolamento di specie dell’avifauna residente, quelle che tengono sotto controllo le popolazioni di alcune specie parassite. Forse, un semplice studio ci direbbe quali specie si nutrono di che cosa e quando. Oltretutto, se queste specie utili dell’avifauna a loro volta sono preda di altri componenti della comunità del bosco, aumentando il numero degli individui di esse, aumenterà il numero degli individui di queste…il che potrebbe rendere vana l’operazione di rafforzamento.

Dimentichiamo gli insetti che, allo stato larvale/ninfale e/o in quello adulto, si nutrono di parassiti delle piante: si fa uso di determinate sostanze forse anche senza molto criterio agronomico , ma non ci si chiede quali effetti esse possano avere su questa entomofauna “amica” e cosa di negativo, da ciò, scaturirà in futuro. Forse uno studio comparato fra castagneti trattati e non trattati potrebbe dare utilissime informazioni e “dritte” per gli interventi di gestione futura.

L’avifauna amica del castanicolture, che forse paga già un prezzo in termini di individui sacrificati per via dell’aumento del numero degli esemplari di specie predatrici prima scomparse o assenti nel territorio, potrebbe pagarne un altro a causa sia dell’effetto diretto, letale, che possono avere su di esse certe sostanze, sia per via della riduzione numerica degli esemplari delle specie di cui si nutrono, riduzione non voluta ma inevitabile effetto collaterale dell’uso di presidi chimici a largo spettro.

A fine raccolta si dovrebbero bruciare i ricci e con essi la lettiera; ma pare che ci sia già un alterato rapporto tra il carbonio e l’azoto presenti nel suolo e non è cosa da poco dato che, mentre il primo favorisce la vegetazione, il secondo stimola la fruttificazione.

Si impedisce l’adeguata formazione di humus nel suolo; si riduce la quantità di acqua e aria che arriva nel terreno … ma poi si spargono solfati, fosfati e nitrati che riparano un danno e ne generano altri. L’humus è la materia prima che funghi e batteri trasformano in solfati, nitrati etc; per farlo hanno bisogno di acqua e aria (ossigeno).

Si potrebbe pensare ad una sorta compostaggio in loco: un buon compost, tra le altre cose, potrebbe reintrodurre nel suolo quegli individui dell’epifauna uccisi con rimozioni inadeguate dell’erba (3).

La muffa che colonizza le castagne ne danneggia la commercializzazione; forse, la sua massiva presenza,si potrebbe mettere in relazione con le estati eccessivamente umide degli ultimi anni dovute alla cronica latitanza dell’anticiclone delle Azzorre. Pare, infatti, che il suo aumento sia stato segnalato prima dell’arrivo del cinipide del castagno.

Forse sarebbe meglio verificare quanta parte della cascola è dovuta a fenomeni di parassitismo e quanta sia fisiologica. Una decisione operativa, che tenesse conto anche di questo dato, sarebbe più produttiva.

Le soluzioni “fai da te” ( una volta si diceva che neanche i turisti di quel tipo andassero bene) finiscono per creare più problemi di quelli che hanno la pretesa di risolvere: quasi sempre sono fatte alla cieca e comunque sono settoriali; ma non si può pretendere il contrario se non c’è una informazione corretta, esauriente e capillare!

Se ognuno dice la sua, nel suo settore, va anche bene: ma è necessaria una azione di coordinamento adeguata alla complessità del sistema bosco e delle soluzioni da adottare per i suoi/nostri problemi.

Quando si ha a che fare con problemi di sistemi complessi, le soluzioni vengono trovate da team di esperti che lavorano separatamente, ognuno nel proprio settore ma, tutti assieme, trovano le risposte partendo da dati di fatto acquisiti scientificamente. Questa conoscenza (la conoscenza del Territorio sicuramente manca sul Territorio: il Territorio non conosce se stesso) deve essere prodotta da Enti a ciò preposti: commissionata da Enti, anche territoriali ma meglio se sovra comunali, va con questi condivisa (in quanto si tratta dei decisori) ma, soprattutto, va condivisa con gli utilizzatori ultimi e veri di essa: i castanicoltori, che sono coloro che devono metterla in pratica nel bosco.

Questo è l’augurio e l’auspicio per il futuro, perché in agguato potrebbe esserci il rischio di una resa dei conti alla quale, come castanicoltori e come Territorio, saremo chiamati dalle dure leggi del mercato, mercato che non è mai generoso, specialmente quando è globale e reca l’impronta di politiche economiche di un certo tipo.

 

 

1) I funghi microscopici che, nel suolo, decompongono la lignina trasformandola in humus, per vivere hanno bisogno di ossigeno. L’ossigeno c’è se vi sono le gallerie scavate dall’epifauna e dalla fauna endogena. Questi funghi sono il cibo dei microartropodi, piccoli animali dotati di zampe, che con la loro attività di ricerca nel suolo fatta scavando gallerie, lo rendono permeabile all’acqua e all’aria. 2) Un metro quadrato di superficie di una foresta temperata, può assorbire, in un’ora, fino a 150 litri di acqua; un metro quadrato di suolo arato, o per qualsiasi altra ragione privo o povero di epifauna, ne assorbe al massimo 1 (uno). 3) Un quintale di compost, oltre all’humus, ai funghi e ai batteri, contiene fino a 200.000 animali aeratori dell’epifauna (un suolo ben conservato ne contiene 3.500 ogni metro quadro). Spargendo il compost sul suolo, si “semina” humus (che sarà “trasformato” in sali minerali … naturali) e si reintroducono gli animali dell’epifauna eliminati con i trattamenti inadeguati dello strato erbaceo (e con i presidi chimici eventualmente utilizzati).

Fiorentino Bevilacqua

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