Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

ALTRO CHE ITALIA !

Posted by on Giu 2, 2016

ALTRO CHE ITALIA !

di seguito un contributo del Laborino Lucio che merita di essere letto.

ALTRO CHE ITALIA !

 

Quando si parla di inquisizione, di shoah, di diaspora o di soluzione finale subito si mettono automaticamente in moto associazioni mentali che riportano a momenti della storia determinati sia spazialmente che temporalmente, e subito la mente immagina streghe e stregoni condannati al rogo in alcune parti dell’Europa o milioni di ebrei mandati nelle camere a gas nei territori occupati dalla Germania. A nessuno viene in mente che gli orrori a cui rimandano i termini appena citati sono avvenuti anche in una determinata zona della nostra patria e in tempi non molto lontani. Immagino lo stupore che si dipingerà sul volto delle persone che avranno modo di imbattersi in questa affermazione. Se ciò avviene – e sicuramente avverrà – la colpa è solo degli storici salariati, come li definiva Gramsci, e della storia che non insegna.

Ma procediamo con ordine e, senza la minima intenzione di pontificare, diamo una sintetica definizione dei termini usati in apertura.

L’Inquisizione indica quell’istituzione ecclesiastica fondata per ricercare e giudicare coloro che deviavano da unilaterali presunte verità di fede, ed ebbe una durata temporale di circa quattro secoli, dal XII al XVI secolo. I peccati di cui si macchiò e le atrocità che commise nel nome di Dio sono note, tanto che il termine viene tuttora percepito col significato di violenza gratuita, arbitrio e prevaricazione senza limiti.

La shoah, l’olocausto, la diaspora e la soluzione finale sono termini a noi più vicini, riferiti al delirio nazista che interessò la storia dell’Europa dal 1939 al 1945.

La shoah molto spesso è ritenuta un sinonimo di olocausto, ma tra i due termini esiste una sostanziale differenza di significato. Mentre, infatti, il primo indica lo sterminio programmato e quindi non inevitabile di un popolo, il secondo si configura come un’offerta sacrificale a fini propiziatori.

La diaspora, invece, è la dispersione di popoli che, costretti ad abbandonare la propria terra natia, si disperdono in diverse parti del mondo.

La soluzione finale comprende sia la shoah che la diaspora, in quanto prevede sia la deportazione che lo sterminio.

Stranamente il filo conduttore che accomuna le violenze dell’Inquisizione con le brutalità perpetrate dai nazisti è, per entrambe le aberrazioni, la convinzione di aver agito per “fare pulizia” e per evitare che potesse infettarsi la parte restante delle popolazioni interessate, se non si fosse proceduto all’eliminazione di quella ritenuta fonte di pericolo e di contaminazione.

Sia dell’Inquisizione che del Nazismo sono note le raffinate, strazianti e atroci torture a cui furono sottoposte, per puro sadismo, le povere vittime che ebbero la sventura di incappare nelle loro attenzioni.

Quello che non è noto, invece, – e non poteva essere altrimenti – sono i sistemi di tortura in uso nelle 1076 carceri giudiziarie dell’Italia dei cosiddetti, e così sempre presentati, liberatori e civilizzatori.

Chissà perché, quando una certa notizia serviva, i centri di potere amplificarono in una maniera a dir poco scandalosa la bugiarda lettera del Gladstone (del 1851) sul sistema carcerario borbonico, e quando quest’ultimo confessò (nel 1888) di non essere mai stato in una prigione del Regno di Napoli, le stesse affermazioni fatte dalla stessa persona non furono ritenute degne né di credito né di diffusione, considerato che quella confessione avrebbe potuto rivelarsi pericolosa per il processo di unificazione forzata verso il quale c’ era ancora tanta resistenza. Quell’affermazione, però, costituiva pur sempre un documento da acquisire agli atti della storia, documento che gli storici di regime si guardarono bene sia dal prendere in considerazione sia per rettificare le bugie raccontate fino a quel momento. Quando – purtroppo brevemente – parleremo delle condizioni dei detenuti nelle prigioni savoiarde, il sistema borbonico presentato al mondo come la negazione di Dio sembrerà il paradiso terrestre. Secondo la filosofia che permeava la prassi dell’epoca, che si ispirava ai Regi Bandi di Carlo Felice del 22 febbraio 1826, un luogo, come quello di Nisida, dove i detenuti si rammaricavano di non potersi dedicare completamente allo studio della filosofia, non poteva essere definito “prigione”, “carcere” o con qualche altro sinonimo, né poteva essere considerato tale un luogo per il quale la giornalista inglese Jessie White Mario ebbe modo di dire: << … Insomma, reclusi e galeotti, imputati e condannati, stanno tanto bene nelle case di pena e nei bagni di Napoli, da scommettere che, se oggi si vuotassero le carceri e le galere … tutti commetterebbero qualche reato lieve o grave per tornare ai comodi, agli agi e al piacevole lavoro, così bene ricompensato, così gratamente alternato con le passeggiate, coi riposi e con ogni ben d’Iddio …>> e per il quale il garibaldino scrittore francese Alessandro Dumas potette affermare:<< … perché voi non dubitiate della simpatia che ho per voi, vi do la facoltà di domandare, a nome mio, tre cose al Governo dell’ isola: la prima, il permesso di leggere il mio giornale nelle ore di riposo e perciò do ordine che ne siano inviate a Nisida tre copie:una pel Governatore e due per voi. La seconda, che mi si permetta di farvi regalo d’una piccola biblioteca di una cinquantina di volumi, scelti tra i migliori storici, filosofi, pubblicisti, anche poeti, italiani. La terza, che mi si dia il permesso di fondare, finché durerà l’Indipendente, un premio di cinque franchi, da dividere ogni domenica tra i cinque detenuti di Nisida, che si saranno meglio condotti nel corso della settimana>>.

1 Se questi luoghi, come tramandato dalla vulgata, erano la notissima negazione di Dio, vediamo un po’ come definire le prigioni sabaude elencando le amenità riservate agli ospiti, per le quali ci serviremo, come d’abitudine, di documenti e dichiarazioni di amici e di alleati.

Cominciamo dal sovraffollamento, dalle condizioni subumane dei detenuti e da quelle igieniche.

Un deputato del parlamento inglese, Lord Vernon, in una lettera indirizzata al Cavour (pubblicata nel Risorgimento del 31 marzo 1851, alcuni mesi prima della più nota lettera di Gladstone) denunciava, per averle visitate realmente a differenza del Gladstone, il degrado delle carceri sarde .

<< … Nelle carceri di Sardegna generalmente ho notato difetto d’aria, di luce, di mondizia, tanto circa al locale, che circa alle persone dei detenuti, difetti di nutrimento e della necessaria varietà di cibo … la non sufficienza dei soccorsi igienici … Quasi tutte le carceri di Sardegna da me vedute sono luride, sudice, oscure e puzzolenti. In una sola carcere, e spesso non spaziosa, trovansi talora ristretti da 10 fino a 50 detenuti … tanto sudice che le mura formicolavano di fastidio, dal quale erano talmente afflitti i poveri carcerati, che alcuni ne erano coperti di piaghe … A queste carceri non è addetto né ospedale né chirurgo. Io vidi con orrore un carcerato che, essendo ferito nel petto,

giacevasi sul nudo suolo senza soccorso alcuno. … In verità non vorrei che il mio cane fosse sottoposto a simile pena … Ho pur veduto alcuni detenuti anche ignudi … Il difetto delle vesti e della mondizia sono poi fuor di dubbio>>.

Non meno impietosa è la relazione che Lord Henry Lennox fa al Parlamento inglese nella seduta dell’8 maggio 1863 sulle condizioni delle carceri dell’ex Regno delle Due Sicilie sotto il governo piemontese, dove quasi tutti i detenuti non conoscono nemmeno la causa del proprio arresto e sono trattenuti senza processo in un tale stato di squallore e di sporcizia per descrivere il quale il relatore

1 Citazioni riportate in: C. Lucio Schiano “Coroglio e Nisida – I luoghi della memoria”, 2013

confessa che gli sarebbe necessaria un’eloquenza che non possiede. Alcuni di questi prigionieri <<… trovavansi da tanto tempo in prigione, che i loro abiti non erano più portabili … Alcuni di essi erano in tale stato di nudità, che non potevano alzarsi dai propri sedili … Alcuni di essi non avevano letteralmente né pantaloni, né scarpe, né calze, nulla. … Era uno spettacolo compassionevole:

il fetore era orribile … Il cibo che veniva loro somministrato, non si sarebbe dato in Inghilterra nemmeno alle bestie. Lanciai un pezzo del loro pane sul pavimento e lo calpestai con i piedi, ma era così duro che non mi riuscì di spezzarlo>>

Il deputato Macchi, all’inizio del 1864, quale relatore della Commissione incaricata di esaminare lo schema di legge per riordinare le prigioni del Regno d’Italia, non potette fare a meno di rimarcare che << … Lo stato delle prigioni, massime in alcune province, è tale che fa veramente raccapriccio.

E’ un continuo oltraggio alla moralità:è un’onta alla civiltà del secolo>>. Parole, queste, che si trovano sulla stessa lunghezza d’onda del giudizio espresso dal Bellazzi nella sua inchiesta sulla vita nelle carceri del nuovo regno, inchiesta che verrà, poi, raccolta nel volume “ Prigioni e prigionieri del Regno d’Italia” pubblicato a Firenze nel 1866, a cui fece seguito una voluminosa prima parte sulle “Case di pena e carceri giudiziarie nelle provincie di Venezia e Mantova”, anche essa pubblicata a Firenze nel 1867.

Sono notizie, queste, che, in animi sensibili, producono indignata commozione. Ciononostante, seppure tanto disumane da far dire a Lord Lennox che le condizioni dei torturati nell’Inferno di Dante avrebbero dato un’idea alquanto sbiadita delle scene che si presentavano in quelle prigioni del nuovo regno, possono essere considerate veramente delle amenità se paragonate ai sistemi di tortura ideati dalle diaboliche menti dei piemontesi e dei loro simpatizzanti. E di queste ci riferiscono sia il Wilford che il già citato Bellazzi.

Il primo, nel 1868, in visita alle carceri napoletane (ma ormai piemontesi già da otto anni), inviò una corrispondenza al Times confermando tutte le turpitudini, le barbarie e le infamie che vi venivano praticate: la camicia di forza, la palla, il cassone, il puntale, le manette, i polsini, i ferri corti, il bastone … Nel merito, il Bellazzi, incaricato di redigere un rapporto sulle condizioni carcerarie della nuova Italia, ebbe modo di affermare: << … Questi stabilimenti sono in aperta ribellione contro ogni santa dottrina e disciplina penitenziaria … Sale il rossore alla fronte al pensiero che in Italia, distrutto l’armamentario penale dei barbari tempi si mantiene l’ultima reliquia di quello, ilbastone>>.

La descrizione particolareggiata dei sistemi di tortura in uso nelle carceri savoiarde esula dagli immediati fini di queste pagine, nelle quali si vuole semplicemente informare sulla sostanziale differenza esistente fra un sistema carcerario presentato al mondo – e così rimasto – come la negazione di Dio ed un altro, nel quale – oltre a Dio – venivano disprezzati tutti i valori, ma di cui non deve trapelare notizia. Nondimeno – anche se molto succintamente e con un senso di morte nell’anima – non si può evitare di accennare almeno alle due torture più disumane e più toccanti:il cassone e i ferri corti.

Il primo consisteva in una vera e propria cassa da morto, costruita in modo da non permettere al condannato neanche il più piccolo movimento. In questa cassa il prigioniero veniva sistemato dopo che le braccia erano state immobilizzate in una “camicia di forza” e dopo che, attraverso dei fori laterali, erano stati immobilizzati anche i piedi, le cosce, il torace e la gola. Sfido chiunque ad immaginare le sofferenze del prigioniero quando – giunto il momento di ricevere, attraverso un ulteriore foro, il tozzo di pane giornaliero e la razione di acqua – costui doveva procedere alla masticazione ed alla deglutizione in quella posizione di immobilità assoluta e con una delle cinghie serrate attorno alla gola. Un ultimo foro era praticato al fondo del cassone per i bisogni fisiologici.

La condanna ai ferri corti consisteva nel legare, sulla nuda terra, il prigioniero mani e piedi facendogli prima assumere la posizione raggomitolata e col mento già appoggiato al torace, poi nel serrargli il collo in un collare di ferro alla cui parte posteriore veniva legata una correggia che passava per sopra la testa di modo che il più piccolo movimento tentato per allentare un poco il dolore causato dall’immobilità provocava una trazione che determinava, a sua volta ed inevitabilmente, lo strozzamento del prigioniero.

L’Inquisizione o la Gestapo avrebbero saputo fare di meglio? Non penso.

Dopo di aver succintamente descritto appena due tra i vari metodi di tortura cui erano sottoposti individui incarcerati senza motivo e tenuti per anni interi, in condizioni al di sotto di ogni immaginazione, senza conoscere il capo d’imputazione (come il barone De Christen), senza la possibilità di parlare con un familiare o con un legale e dopo di aver constatato che coloro che volevano civilizzarci hanno sperimentato contro di noi sia la shoah, sia la diaspora e sia la soluzione finale, vorrei chiedere a quel grande uomo di Luigi Carlo Farini, primo Luogotenente di Napoli, e agli storici di professione che ancora avallano un certo tipo di informazione, quale è l’Affrica e chi i beduini nella società costituita dopo la liberazione.

 

Castrese Lucio Schiano – 01 giugno 2016

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