Alta Terra di Lavoro

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Asches to asches, il fuoco spento ma vivo di Mats Bergquist. Tra luce e bellezza di Adriana Dragoni

Posted by on Ott 4, 2016

Asches to asches, il fuoco spento ma vivo di Mats Bergquist. Tra luce e bellezza di Adriana Dragoni

Adriana Dragoni degna figlia della nostra civiltà, LA CIVILTA’, e in questo bellissimo articolo ce lo dimostra.

I critici d’arte più sapienti avvertono: l’arte figurativa, lo dice il nome stesso, si esprime attraverso la figura. Basta quella. Un’opera figurativa, se è vera arte, non ha bisogno di spiegazioni, di parole e paroloni. Come accade, invece, per tanta cosiddetta arte contemporanea, che dai paroloni spesso è subissata. Dovrebbe bastare l’immagine. Che, guardata attentamente, ci parla e dice. Ma, qualche giorno fa, ero all’inaugurazione, al Museo archeologico nazionale di Napoli (Mann), di una mostra, “Asches to asches. Encausti” di Mats Bergquist, e mi son trovata davanti una distesa di pezzi di carbone, con sopra degli oggetti tipo uova, che non mi hanno detto proprio niente. Una mostra flop? O una delle tante mostre bluff? Poco probabile. Perché il curatore ne era Marco de Gemmis, persona ammodo e competente. Anzi Marco era lì e sono andata a domandargli: «Marco, mi illustri un po’ tu? ». «No,- mi fa lui- meglio che ti rivolga all’autore, è in quell’angolo ». Infatti c’è, accovacciato per terra a firmare autografi per un pubblico cinguettante, si tratta soprattutto di donne, un uomo di mezza età, dal corpo magro e dinoccolato, tipo yogi. «Lei è svedese, vero? » gli domando. «Sì, della Carelia ». «La Carelia? Non l’ho mai sentita nominare» (poi, da Internet, ne apprenderò qualcosa e che è una regione tra Svezia e Russia). «Ma sono vissuto in vari posti, sin da bambino, mio padre era un diplomatico, Pechino, India ecc… Ma ora la Carelia è russa», mi confida Bergquist, che poi si avvicina a una tavoletta di legno appesa a una parete, una tavoletta scura, piccolina, lucidata a cera (tipo encausto?) «Guardi: – mi dice indicandomela- questa ricorda le icone russe» . Sì. Quelle icone con le immagini sacre di madonne bizantine, che Kasimir Malevic, poi, farà quadrate, senza immagini, tutte nere e, poi, tutte bianche. Per dimostrare il suo laicismo o, forse, per dire che Dio non ha bisogno di immagini e di Chiese, perché è dentro di noi, nella nostra anima. Ecco, incomincio a comprendere. La Russia è là, in questa tavoletta tipo icona, una sintesi miniaturizzata dell’anima russa. E forse è anche simbolo della sua anima, quella di Mats, e questa tavoletta è la sua firma. Allora capisco che tutto, in questa mostra, è simbolo. Non astratto, ma espressione sintetica di realtà cultural-territoriali, viste da un artista con uno sguardo yogy o zen, uno sguardo solitario e profondo, che, dapprincipio, non avevo potuto intercettare nella atmosfera un po’ mondana e un po’ chiassosa di una inaugurazione affollata di gente. Comprendere un’opera d’arte è anche, e soprattutto, captare lo sguardo dell’artista che l’ ha prodotta, guardarla con i suoi occhi. Allora capisco che occorre una contemplazione lunga, silente e solitaria, per comprendere i segni di quest’artista della Carelia, e sentirne l’incantamento. E ora, presa da quest’incanto, questo carbone lo vedo, al di là del tempo, essere fuoco ora spento ma sempre vivo. E da questo fuoco nascere la vita di queste uova di varie forme, ricoperte da un sottile strato di cera, secondo l’uso dell’arte nostra antica dell’encausto. Questo fuoco carbonizzato è Napoli, da cui è nato tutto e tutta l’arte. Perché, se l’uovo è il mistero della nascita e della vita, la forma dell’uovo è bella. Bellezza e arte. Qui ce ne sono tante di uova, su questo letto di nero carbone, tra loro simili ma non proprio uguali. E l’oggetto allungato che le sovrasta è una antica barca, simbolo del mare, della gente venuta dal mare. Contiene della carbonella divisa in tre mucchi. E il numero tre è, anche qui, l’origine del visibile. Poi guardo, di fronte a me, un cerchio bianco su un incavo nero. E’ come uno spazio profondo e infinito da cui nasce luce e bellezza. Ed è pure la profondità dell’anima. E mi vien da pensare ancora una volta a Sant’Agostino: “noli foras ire, in te redi, in interiore homine habitat Veritas” (= “non andare fuori di te, ritorna in te, nell’interno dell’uomo abita la Verità, Dio stesso”). Il numero tre ritorna in tre forme tondeggianti, tutte bianche, poste su una parete. Sono immagini di Afrodite, mi si dice, la dea dell’amore e della bellezza e quel biancore mi parla di un amore puro e bello. Kalòs kai agatòs. Bello e buono. Bianco è anche il lungo tappeto che è nell’atrio e conduce allo scalone. E’ intitolato “Via Lattea” e certo è uno sguardo celeste, che ci conduce, al di là del tempo, verso la bellezza racchiusa in questo museo, scrigno dell’antico spirito magnogreco di Napoli. Che siate o non siate venuti alla sua inaugurazione, spero veniate a visitare questa mostra nei prossimi giorni da soli o in compagnia di un’unica persona e basta. Capirete l’anima di un artista e forse, per un momento, vedrete Napoli con il suo sguardo.

Asches to asches. Encausti La mostra è curata da Elena Dal Molin e Marco de Gemmis

Fino al 27 ottobre 2016 ore 9.00/19.30, martedì chiuso

Per saperne di più www.matsbergquist.com www.coopculture.it/heritage.cfm?id=73

 

Adriana Dragoni

fonte

ilmondodisuk.com

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