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Battipaglia nascita di una colonia di Marina Carrese

Posted by on Set 21, 2019

Battipaglia   nascita di una colonia di  Marina Carrese

Opere pubbliche nel regno di Ferdinando II

In copertina: la prospettiva dei fabbricati della colonia di Battipaglia, realizzata dall’ing. Errico Dombrè, direttore dei lavori. A.S.S. – Genio Civile, fasc. 135, in A. Cestaro, Il terremoto del 1857 in Basilicata e nel Salernitano:

la fondazione della colonia agricola di Battipaglia, R.S., XIV (1953). Marina

Carrese è giornalista e collaboratrice dell’Editoriale Il Giglio.

La città di Battipaglia[1], in provincia di Salerno, rientra a pieno titolo nel vastissimo repertorio di opere pubbliche realizzate durante il regno di Ferdinando II. Strettamente collegate al forte impulso che l’economia in generale ed il settore industriale in particolare ricevettero negli anni tra il 1830 e il 1860, le opere pubbliche progettate e portate a termine nel trentennio di regno ferdinandeo testimoniano ancora oggi la forza innovativa, la saggezza delle scelte e la capacità gestionale che, in quegli anni, portarono il Regno delle Due Sicilie all’avanguardia tra gli Stati europei. Furono gli anni dei primati in molti settori civili, tecnologici e scientifici e del consolidamento di quell’industria che ormai spaziava in tutti i comparti produttivi raggiungendo spesso livelli di eccellenza. Allo sviluppo industriale occorrevano infrastrutture ed esse furono realizzate con tale lungimiranza e tempismo da far intravedere sullo sfondo un preciso progetto politico che il re Ferdinando II andava gradualmente, ma rapidamente, concretizzando e che si interruppe con la forzata unificazione della Penisola.

Le opere pubbliche nel regno di Ferdinando II

L’esame delle opere realizzate in quegli anni in tutti i settori di intervento pubblico richiederebbe, ovviamente, una trattazione troppo vasta che esula dall’oggetto trattato. Basterà qui offrire soltanto una traccia, indicativa della grandezza dei progetti e del livello delle realizzazioni. L’alta qualità dei manufatti delle imprese di costruzione, in muratura e in ferro, del Regno era nota ovunque, e l’abilità degli ingegneri e delle maestranze napoletane era riconosciuta in tutta Europa, sin dal 1737, quando l’Impresa Carasale costruì in 270 giorni il teatro San Carlo, primo al mondo. Relativamente al periodo di Ferdinando II si potrebbero citare innumerevoli esempi, ma ci limiteremo a ricordare: – la realizzazione del Ponte Ferdinandeo, uno dei primi ponti in ferro al mondo, sospeso sul Garigliano, nel 1832; – la costruzione del Ponte sul Fortore, in muratura a 13 arcate, nel 1851 – la costruzione del Teatro Piccinni di Bari, nel 1846; – il completamento in soli 2 mesi del Corso Maria Teresa (attuale C.so V. Emanuele) nella Capitale, nel 1853, con 5 km di pendio collinare tagliati a mezza costa; – il progetto del 1857, a firma dell’arch. Sabatini, per la costruzione di una nuova città da costruire alle porte di Napoli, su un’area di 3×1 km, situata tra la ferrovia, San Giovanni, Poggioreale e la strada per Portici (praticamente dove è sorto il Centro Direzionale di Napoli), con strade, piazze, porto-canale e banchine con docks, magazzini, linea ferroviaria metropolitana verso il centro di Napoli e un parco di centinaia di moggia. Si era giunti alla fase pre-operativa nel 1860, ma l’arrivo di Garibaldi a Napoli cancellò il progetto. Le spese previste dall’Erario borbonico per l’intera opera, ammortizzate con finanziamenti pubblici e privati, ammontavano ad un milione e mezzo di ducati; Garibaldi, tra il settembre e il dicembre del 1860, distribuì in pensioni, stipendi e donazioni un cifra molto superiore, prelevandola proprio dall’Erario napoletano. Una trattazione a parte meriterebbero i progetti di sviluppo e quanto già realizzato nel settore ferroviario, che andava ben oltre la famosa Napoli–Portici, che fu soltanto la prima tratta (1839). Tale importanza rivestivano queste opere che persino durante la guerra contro l’invasione piemontese, Francesco II firmò decreti riguardanti i lavori su strade ferrate già in costruzione. Nella lungimiranza di re Ferdinando II, che ne aveva commissionato i progetti, le ferrovie avrebbero dovuto favorire i collegamenti tra le due sponde del Regno, in previsione dell’incremento dei commerci tra Medio Oriente ed Europa dovuto alla futura apertura del Canale di Suez, avvenuta poi nel 1866. La Napoli-Portici era giunta alle porte delle Calabrie ed erano in costruzione le tratte ferrate Napoli-Brindisi, Napoli-Tronto che avrebbe dovuto poi raggiungere Bologna, Teramo-San Severo e Napoli-Ceprano-Roma, che si sarebbero innestate sulle ferrovie toscane, lombarde e piemontesi e, infine, su quelle europee. Inutile dire che dopo l’unificazione queste tratte ferrate furono completamente abbandonate, preferendo realizzare le direttrici nord-sud, tanto che, al loro arrivo, i Piemontesi smantellarono chilometri e chilometri di binari e persino intere stazioni, come quella di Salerno, per trasferirli al nord. La Società Bastogi, nel 1862, acquisì le ferrovie meridionali: furono emesse 200mila azioni divise tra Stati Sardi, Lombardia, Toscana, Emilia e Veneto; solo il 10% di queste azioni fu riservato a sottoscrittori meridionali, ai quali furono concessi soltanto 10 giorni di tempo per versare l’intero capitale contante. Il risultato di questa politica ottusa e rapace è che ancora oggi, 145 anni dopo, le regioni meridionali soffrono della mancanza di collegamenti ferroviari tra Adriatico e Tirreno, e i passaggi esistenti sono quasi tutti a binario unico e ancora funzionanti sui tracciati borbonici.

Le bonifiche e il progetto della colonia di Battipaglia Altro capitolo importantissimo delle opere pubbliche realizzate nel corso del regno di Ferdinando II fu quello delle bonifiche dei terreni paludosi, nelle quali rientra la nascita della città di Battipaglia. A partire dal 1832 furono bonificate: le paludi Sipontine, tra Bari e Barletta, 6mila moggia, con la costruzione di colonie agricole; le paludi di Brindisi; le paludi Campane, i Regi Lagni in provincia di Caserta, 20mila moggia di terra rese fertili; il bacino inferiore del Volturno (1841), 810 km quadrati, 120mila moggia di terre demaniali e non, 53mila delle quali furono distribuite in uso gratuito a 1314 famiglie contadine. Nel complesso, tra il 1820 e il 1860 le opere di bonifica interessarono 1 milione di moggia di terra al di qua del faro, circa 340mila ettari. Anche nella Piana del Sele furono avviati lavori di bonifica che erano in corso nel 1857, quando si verificò un terribile terremoto che interessò la Basilicata, il Vallo di Diano (Cilento) e altre zone del Salernitano, il 16 dicembre di quell’anno[2]. Il sisma causò migliaia di morti e gravissimi danni. Il Governo stanziò notevoli somme per l’aiuto alle popolazioni danneggiate, la cui sollecita e oculata distribuzione fu affidata agli Intendenti Achille Rosica, per il Potentino, e Luigi Ajossa, marchese, per il salernitano, fedelissimi del Re e poi ministri nell’ultimo Governo di Ferdinando II. Fu anche organizzata una colletta pubblica[3] per la raccolta delle offerte private e delle opere di carità. In caso di disastri naturali, generalmente le Casse pubbliche del Regno finanziavano la riedificazione di chiese ed edifici pubblici e gli aiuti ai poveri e ai senzatetto. In quella occasione, però, Ferdinando II, innovatore anche nel campo dell’assistenza pubblica, sperimentò per la prima volta un modello di ricostruzione che potesse trasformare la disgrazia del terremoto in un’opportunità di progresso e di vita migliore per tanti contadini. Decise, infatti, di costruire una colonia nelle terre della Piana del Sele in cui era in corso la bonifica che aveva già consentito il recupero agricolo ed economico di vaste aree[4]. Vi si sarebbero trasferite, volontariamente, famiglie terremotate prive di casa e di terra, assoggettate fino ad allora alla miseria del lavoro bracciantile, come assegnatarie in enfiteusi di abitazioni e terreni. La fase di progettazione A soli 2 mesi dal terremoto, nel febbraio 1858, l’Amministratore Generale delle bonifiche, il barone Giacomo Savarese[5], che dirigeva l’organo unico preposto alla progettazione e realizzazione delle opere di bonifica del Regno, ebbe l’incarico di avviare le procedure necessarie per l’istituzione della colonia. Savarese, insieme agli intendenti Ajossa e Rosica scelse il sito: una zona demaniale pianeggiante sul fiume Tusciano, all’incrocio di due importanti arterie, la strada per le Calabrie e quella per il Vallo, dove c’era la migliore sorgente del circondario e dove esisteva già un piccolo insediamento costituito da masserie. Con una maggiorazione di spesa limitata rispetto al progetto di ricostruzione ordinaria, il Savarese predispose un progetto che comprendeva la costruzione di case in muratura da distribuire insieme a 10 moggia di terra alle famiglie di coloni. Savarese previde di impiegare, sia per l’ultimazione della bonifica sia per la costruzione della colonia, i contadini stessi che vi avrebbero risieduto, salariandone il lavoro in modo da ridurre al minimo i tempi di esecuzione. Stabilì pure che le spese per la costruzione della colonia non dovessero gravare sui proprietari terrieri della zona – che già contribuivano attraverso una tassa[6] alla bonifica delle proprie terre – ma dovessero essere prelevate dai fondi della colletta e del contributo statale. Il 28 maggio 1858, a soli 5 mesi dal sisma, il Re richiese la definizione del perimetro della futura colonia e l’avvio dei primi adempimenti. Savarese, nella sua relazione, riferì di aver anche avviato trattative con un imprenditore francese disposto ad assumere l’appalto anticipando le spese e richiedendo un interesse del 4% (il che testimonia la fiducia dei mercati internazionali per la solvibilità del Regno delle Due Sicilie), ma che avrebbe sospeso gli accordi in attesa di accertamenti su eventuali speculazioni nascoste. Intanto, il diffondersi di notizie sulla costruzione della nuova colonia aveva già provocato l’esodo di un centinaio di famiglie contadine, dal potentino alla volta della contrada Battipaglia. Il 18 giugno 1858 – 6 mesi dopo il sisma – pervenne l’approvazione del Re per tutto quanto stabilito fino a quel momento e fu indetta la gara d’appalto dei lavori.

Le bonifiche e il progetto della colonia di Battipaglia Altro capitolo importantissimo delle opere pubbliche realizzate nel corso del regno di Ferdinando II fu quello delle bonifiche dei terreni paludosi, nelle quali rientra la nascita della città di Battipaglia. A partire dal 1832 furono bonificate: le paludi Sipontine, tra Bari e Barletta, 6mila moggia, con la costruzione di colonie agricole; le paludi di Brindisi; le paludi Campane, i Regi Lagni in provincia di Caserta, 20mila moggia di terra rese fertili; il bacino inferiore del Volturno (1841), 810 km quadrati, 120mila moggia di terre demaniali e non, 53mila delle quali furono distribuite in uso gratuito a 1314 famiglie contadine. Nel complesso, tra il 1820 e il 1860 le opere di bonifica interessarono 1 milione di moggia di terra al di qua del faro, circa 340mila ettari. Anche nella Piana del Sele furono avviati lavori di bonifica che erano in corso nel 1857, quando si verificò un terribile terremoto che interessò la Basilicata, il Vallo di Diano (Cilento) e altre zone del Salernitano, il 16 dicembre di quell’anno[2]. Il sisma causò migliaia di morti e gravissimi danni. Il Governo stanziò notevoli somme per l’aiuto alle popolazioni danneggiate, la cui sollecita e oculata distribuzione fu affidata agli Intendenti Achille Rosica, per il Potentino, e Luigi Ajossa, marchese, per il salernitano, fedelissimi del Re e poi ministri nell’ultimo Governo di Ferdinando II. Fu anche organizzata una colletta pubblica[3] per la raccolta delle offerte private e delle opere di carità. In caso di disastri naturali, generalmente le Casse pubbliche del Regno finanziavano la riedificazione di chiese ed edifici pubblici e gli aiuti ai poveri e ai senzatetto. In quella occasione, però, Ferdinando II, innovatore anche nel campo dell’assistenza pubblica, sperimentò per la prima volta un modello di ricostruzione che potesse trasformare la disgrazia del terremoto in un’opportunità di progresso e di vita migliore per tanti contadini. Decise, infatti, di costruire una colonia nelle terre della Piana del Sele in cui era in corso la bonifica che aveva già consentito il recupero agricolo ed economico di vaste aree[4]. Vi si sarebbero trasferite, volontariamente, famiglie terremotate prive di casa e di terra, assoggettate fino ad allora alla miseria del lavoro bracciantile, come assegnatarie in enfiteusi di abitazioni e terreni. La fase di progettazione A soli 2 mesi dal terremoto, nel febbraio 1858, l’Amministratore Generale delle bonifiche, il barone Giacomo Savarese[5], che dirigeva l’organo unico preposto alla progettazione e realizzazione delle opere di bonifica del Regno, ebbe l’incarico di avviare le procedure necessarie per l’istituzione della colonia. Savarese, insieme agli intendenti Ajossa e Rosica scelse il sito: una zona demaniale pianeggiante sul fiume Tusciano, all’incrocio di due importanti arterie, la strada per le Calabrie e quella per il Vallo, dove c’era la migliore sorgente del circondario e dove esisteva già un piccolo insediamento costituito da masserie. Con una maggiorazione di spesa limitata rispetto al progetto di ricostruzione ordinaria, il Savarese predispose un progetto che comprendeva la costruzione di case in muratura da distribuire insieme a 10 moggia di terra alle famiglie di coloni. Savarese previde di impiegare, sia per l’ultimazione della bonifica sia per la costruzione della colonia, i contadini stessi che vi avrebbero risieduto, salariandone il lavoro in modo da ridurre al minimo i tempi di esecuzione. Stabilì pure che le spese per la costruzione della colonia non dovessero gravare sui proprietari terrieri della zona – che già contribuivano attraverso una tassa[6] alla bonifica delle proprie terre – ma dovessero essere prelevate dai fondi della colletta e del contributo statale. Il 28 maggio 1858, a soli 5 mesi dal sisma, il Re richiese la definizione del perimetro della futura colonia e l’avvio dei primi adempimenti. Savarese, nella sua relazione, riferì di aver anche avviato trattative con un imprenditore francese disposto ad assumere l’appalto anticipando le spese e richiedendo un interesse del 4% (il che testimonia la fiducia dei mercati internazionali per la solvibilità del Regno delle Due Sicilie), ma che avrebbe sospeso gli accordi in attesa di accertamenti su eventuali speculazioni nascoste. Intanto, il diffondersi di notizie sulla costruzione della nuova colonia aveva già provocato l’esodo di un centinaio di famiglie contadine, dal potentino alla volta della contrada Battipaglia. Il 18 giugno 1858 – 6 mesi dopo il sisma – pervenne l’approvazione del Re per tutto quanto stabilito fino a quel momento e fu indetta la gara d’appalto dei lavori. Essi comprendevano: la costruzione di case a due piani, con le botteghe al pian terreno e l’abitazione al piano superiore; il disboscamento e dissodamento dei terreni; la costruzione delle strade d’accesso; l’allestimento di aie coperte; lo scavo dei pozzetti per il deflusso delle acque piovane; la suddivisione dei terreni. Si valutò che la spesa si sarebbe aggirata sui 30 ducati a moggio e che, quindi, il fondo stanziato di 12.000 ducati avrebbe dovuto essere integrato. Il barone Savarese, nominato direttore dell’opera, stabilì anche i criteri per la designazione delle famiglie di coloni, che prevedevano: – l’appartenenza ai Comuni terremotati; – la sana costituzione ed l’età del capofamiglia inferiore a 40 anni; – l’irreprensibile condotta morale e civile. Quest’ultimo requisito, purtroppo, divenne un danno per la maggior parte di quei contadini, quando le case furono assegnate ad unificazione avvenuta: ciò che era considerato buono moralmente e civilmente nel Regno delle Due Sicilie, non lo fu più nel Regno d’Italia.

La fase esecutiva

Nel luglio 1858 – a 7 mesi dal sisma – ebbero inizio i lavori e l’Intendente di Salerno stilò la lista di 94 capifamiglia provenienti dal Vallo del Diano, per un totale di 416 persone. Il 24 agosto successivo, una sovrana disposizione stabilì che la colonia avrebbe ospitato 100 famiglie, fatte giungere gradualmente, a ciascuna delle quali sarebbero state concesse 5 moggia di terra in enfiteusi a modico canone. Il 15 settembre 1858 – a 9 mesi dal sisma – venne approvato il progetto definitivo, al quale il re Ferdinando in persona apportò alcune modifiche innalzando l’altezza del secondo piano delle abitazioni da 10 a 12 palmi e volgendo la facciata del complesso verso la strada principale. Il 22 settembre, l’ing. Errico Dombrè, direttore delle bonifiche nella piana del Sele e dell’edificazione della colonia, assegnò, dopo regolare gara, alla ditta Antonio Sciavino l’appalto per la costruzione di 20 fabbricati, atti ad alloggiare 5 famiglie ciascuno per un totale di 100, con un cortile comune ogni due corpi. Nel dicembre, ad un anno dal sisma, erano in fase di ultimazione per la consegna a 20 famiglie i primi 4 caseggiati – chiamati compresi, definizione ancora oggi rimasta nell’uso popolare, sia pure leggermente modificata in le comprese[7]. Bisogna tener conto che il maltempo aveva rallentato i lavori rispetto alle previsioni e che la presenza nel circondario di numerosi sfollati del terremoto aveva costituito un ostacolo, anche sul piano dell’ordine pubblico. Infatti, nel corso del nuovo anno, constatata la necessità di alloggi, il progetto fu ampliato, portando il numero delle famiglie residenti a 120 (Reale Rescritto del novembre 1859). La conclusione A questo punto, la nascita di Battipaglia si intreccia con il triste epilogo del Regno: l’invasione garibaldina attraversò quei luoghi nel settembre del 1860. Erano stati ultimati fino ad allora 12 compresi, mancanti soltanto dei vetri alle finestre; altri 6 dovevano essere rifiniti con le opere in legno; 2 erano ancora in costruzione. La spesa era stata di 40.000 ducati. Dal settembre 1860 tutto fu sospeso e non vi fu alcun avanzamento nei lavori: l’opera rimase incompleta; le 120 famiglie assegnatarie furono abbandonate a se stesse, senza casa e senza terra; l’ing. Errico Dombré fu assassinato da ignoti all’indomani dell’arrivo dei garibaldini. Il nuovo regime delle Camicie rosse, più interessato a spogliare il Regno e la Chiesa piuttosto che a distribuire le terre ai poveri, destituì il Savarese e smantellò l’apparato organizzativo esistente e funzionante. Nel caos più totale e nell’incapacità di gestire un progetto così grande, il regime attribuì le competenze ora alla Direzione Ponti e Strade, ora al Genio Civile, poi al Demanio Pubblico, quindi al Ministero dell’Agricoltura ed, infine, al Comune di Eboli. L’idea promotrice del progetto della colonia – l’aiuto alle famiglie terremotate, l’emancipazione dei poveri e dei braccianti, l’incremento della bonifica – fu completamente cancellata dai liberatori, anzi furono accolte le richieste dei proprietari terrieri, opportunamente scopertisi unitaristi e antiborbonici, desiderosi di rifarsi delle tasse pagate per le opere di bonifica delle loro stesse terre. La storia si concluse tristemente: le case agibili furono assegnate a chi, avendone fatta richiesta, fosse in possesso di certificazione comprovante lo stato di nullatenenza e la buona condotta morale e civile. Inutile dire che, nell’aprile del 1861, il concetto di buona condotta morale e civile era notevolmente diverso rispetto al 1858 e, pertanto, delle 120 famiglie terremotate selezionate in origine, soltanto 32 furono ritenute degne dell’assegnazione della casa e della terra. A tutte le altre famiglie, che avevano lasciato i paesi d’origine e avevano affrontato disagi e sacrifici per 4 anni nella speranza di un futuro migliore, non rimase che accontentarsi di essere diventate italiane. Bibliografia A. Cestaro, Il terremoto del 1857 in Basilicata e nel Salernitano: la fondazione della colonia agricola di Battipaglia, R.S., XIV (1953). G. De Crescenzo, Le industrie del Regno di Napoli, Grimaldi e C., Napoli 2002. A. Mangone, L’industria del Regno di Napoli 1859 – 1860, Fiorentino Editore, Napoli 1976. G. Savarese, Le finanze napoletane e le finanze piemontesi 1848-1860, Controcorrente, Napoli 2003. ________________________________________

[1] Battipaglia, divenuta Comune nel 1929, conta oggi circa 45.000 abitanti [2] Il terremoto del 1857 ebbe influenza anche sull’impresa di Carlo Pisacane, quella dei “300 giovani e forti”, realizzata pochi mesi prima: il processo ai 248 imputati avrebbe dovuto iniziare proprio nel dicembre 1857 ma slittò al gennaio successivo, per i danni subìti a seguito del sisma dal palazzo della Gran Corte Criminale di Salerno. Il processo si concluse, nel luglio 1858, con sette condanne capitali, tutte commutate in ergastolo. [3] Si ricordi che l’organizzazione sociale del Regno era fondata sulla vitalità di libere associazioni di cittadini, confraternite, società di mutuo soccorso, solidali con l’intera comunità in caso di bisogno. Il cittadino era responsabile in prima persona del proprio e dell’altrui bene, in piena aderenza al principio di sussidiarietà che esclude lo Stato tutore “dalla culla alla tomba”, ma prevede che esso intervenga solo laddove i cittadini non possono agire autonomamente. [4] Nuova come forma di ricostruzione a seguito di una catastrofe naturale, la costruzione di colonie nelle terre bonificate non era una novità assoluta. Il primo esempio è certamente San Leucio, in provincia di Caserta, fondata nel 1773 da Ferdinando IV; poi, San Ferdinando, nella piana di Rosario, in Calabria, costruita tra il 1818 e il 1822 per iniziativa del marchese Vito Nunziante; infine, San Ferdinando di Puglia (FG), costruita dallo stesso Ferdinando II e divenuta Comune nel 1847. [5] Giacomo Savarese (1806-1884), esperto di scienza delle finanze, ministro dei Lavori Pubblici nel governo costituzionale del 1848, si dedicò ai problemi delle bonifiche nell’ultimo decennio del Regno, acquisendo tale esperienza che Ferdinando II lo pose a capo dell’Amministrazione Generale della bonificazione, istituita con la legge dell’11 maggio 1855. Una delle opere maggiori da lui dirette fu la bonifica del bacino inferiore del Volturno ed ebbe parte altrettanto significativa nell’istituzione della colonia di Battipaglia. [6] Le tasse erano riscosse da uffici distrettuali e, in buona parte, reinvestite direttamente in loco. [7] Attualmente, le comprese sono prospicienti alla Piazza della Repubblica. Nei giardinetti della piazza, nel 1995, è stato collocato un busto di Ferdinando II.

fonte https://www.eleaml.org/sud/borbone/colonia_battipaglia.html

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