Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

BREVISSIMA STORIA DI NAPOLI DALLE ORIGINI AL PERIODO SVEVO

Posted by on Gen 8, 2017

BREVISSIMA STORIA DI NAPOLI DALLE ORIGINI AL PERIODO SVEVO

Nessuna citta al mondo ha una storia cosi antica e variegata come quella di Napoli, ripeto antica e variegata perché so che ci sono città nate prima, oggi pubblico una piccola sintesi che si seguito potete apprezzare. L’autore c’è ma la fonte non la ricordo.

  1. Le origini: Partenope e Neapolis.

 

Il primo nucleo della città di Napoli, che si chiamò Partenope dal nome della sirena che vi era venerata, sorse nell’area del promontorio di Pizzofalcone e sull’isolotto di Megaride, lì dov’è oggi il Castel dell’Ovo, a quel tempo collegato alla terraferma. Secondo Strabone (63 a. C.-20 d. C. ca.) e Stefano di Bisanzio (VI sec. d. C.) Partenope fu fondata dai Rodii, popolo proveniente dalla Grecia, probabilmente prima dell’VIII secolo a. C. Più verosimilmente, invece, qualche decennio prima della metà del VII secolo a. C., proprio in questa stessa zona era stato realizzato un phrourìon, e cioè uno scalo marittimo fortificato voluto dai Cumani in una posizione particolarmente strategica, a guardia dell’accesso meridionale del golfo che in quel periodo prendeva da loro il nome, mentre l’accesso settentrionale era controllato dalle colonie di Pithecusa (Ischia) e di Capo Miseno. Considerando che la navigazione avveniva principalmente sotto costa, presidi di tal genere consentivano un controllo efficace dei traffici marittimi ed in particolare, nel caso di Partenope, delle rotte tirreniche verso gli empori minerari del Lazio e della Toscana, offrendo un porto sicuro e bene attrezzato anche per le navi che invece dovevano prendere il mare aperto in direzione della Sardegna, delle Baleari e dell’Iberia. La collocazione di Partenope nella zona sopra indicata, in passato piuttosto discussa, è stata definitivamente confermata solo nel 1949 grazie alla fortuita scoperta, in via G. Nicotera, di una necropoli suburbana composta di tombe “a cassa di tufo” che avevano conservato corredi funerari, in larga parte di tipo greco e greco-coloniale, affini a quelli di Cuma, costituiti principalmente da unguentari di Corinto e da brocche di Cuma, databili appunto tra il 650 a. C. ed il 550 a. C., ed anche dal rinvenimento di analoghi frammenti di ceramica nella zona di via Chiatamone, ove erano stati certamente portati dalle acque defluenti dall’altura di Pizzofalcone. Partenope conobbe però certamente una fase di declino tra la prima metà del secolo VI ed i primi decenni del V secolo, ma non è ben chiaro se in realtà sia stata abbandonata dai fondatori Cumani,

la cui egemonia nel golfo era ormai in crisi, oppure sia stata distrutta dagli Etruschi che erano i loro principali antagonisti. Secondo l’opinione generalmente seguita fino a pochi anni orsono, comunque, dopo la grave sconfitta navale subita proprio dagli Etruschi nel 474 a. C. per opera dei Cumani e dei PithecusaniSiracusani, i primi ed i loro alleati poterono riprendere il controllo delle zone perdute in precedenza, compresa ovviamente Partenope. La vecchia rocca posta a strapiombo sul mare era però evidentemente insufficiente ad accogliere oltre che gli antichi fondatori anche i Pithecusani-Siracusani, e per tali motivi fu necessario fondare un più ampio insediamento urbano che prese appunto il nome di Neapolis ovvero “città nuova”, per distinguerla dalla Palaepolis, la “città vecchia” e cioè Partenope. Quest’opinione si fondava in particolare, sull’elemento offerto dalla datazione dei frammenti di vasi di ceramica attica rinvenuti durante gli scavi del 1914-1916 nella necropoli di Castel Capuano, dalla quale poteva ritenersi che la realizzazione della nuova città fosse avvenuta intorno al 470 a. C.. Più recentemente invece, a seguito dell’individuazione in vico Soprammuro a Forcella di un tratto di fortificazione risalente al periodo tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a. C. e del ritrovamento di vari frammenti ceramici di età precedente il V secolo nelle zone di S. Aniello a Caponapoli, S. Domenico maggiore e S. Marcellino, può ritenersi che Neapolis sia stata fondata piuttosto intorno alla seconda metà del VI secolo a. C.. La zona prescelta aveva un’area di circa 80 ettari, pari a quattro volte quella di Partenope dalla quale il nuovo insediamento distava solo 1,5 km circa, e consisteva in un ampio pianoro in gran parte costituito da un banco di tufo giallo misto ad altri materiali piroclastici, articolato in basse terrazze digradanti dolcemente verso il mare dove, dopo un salto di circa 15 metri, era posta la spiaggia. Il pianoro era in particolare munito di valide difese naturali essendo chiuso a nord dalle tre colline di Capodimonte-Sanità, dell’Arenella e del Vomero e dal vallone di Foria, a sud dal litorale marino, mentre ad est e ad ovest si trovavano due opposte vie naturali di deflusso delle acque pluviali denominate anche lavinarii, costituite dal vallone di via S. Giovanni a Carbonara e dalla valle di piazza Dante-calata Trinità Maggiore. Questa particolare conformazione fu attentamente sfruttata per la realizzazione di una prima cinta muraria del tipo a doppia cortina collegata da briglie trasversali e rafforzate da un terrapieno (emplekton) realizzato con scaglie di tufo e terra. Le mura erano lievemente a scarpa con torri a base quadrata, e ne esistono ancora oggi resti in via Foria sotto lo strapiombo degli Incurabili, in via Costantinopoli, nell’area orientale di via Mezzocannone, al corso

Umberto I, in piazza Calenda ed in via Duomo. Il tracciato murario era in linea di massima il seguente: da via Foria, lungo via Costantinopoli, piazza San Domenico Maggiore, poi su entrambi i versanti di via Mezzocannone, quindi attraverso le rampe di S. Marcellino fino all’Archivio di Stato, per poi ridiscendere fino a piazza Nicola Amore, da dove le mura costeggiavano il lato settentrionale del corso Umberto, e da via Pietro Colletta risalivano verso Forcella e Castel Capuano, ricongiungendosi infine in via Foria. La prima fase della costruzione della cinta muraria risale all’inizio del V secolo, nuovi interventi comunque si ebbero in concomitanza della guerra sannitica nel corso del IV secolo a. C., ed ancora nel secolo III a. C.. La città murata era percorsa da tre strade più ampie, denominate in greco plateiai ed in latino decumani, corrispondenti la prima, alle attuali vie SS. Apostoli, Anticaglia, Pisanelli e Sapienza, la seconda a via Tribunali, e la terza alle vie Vicaria e S. Biagio dei Librai, cui alcuni ritengono di dovere aggiungere una quarta platea da identificarsi nelle vie S. Marcellino e Bartolommeo Capasso, che correvano tutte in direzione est-ovest, ed in circa venti strade minori, in greco stenopòi ed in latino cardines, orientate invece in direzione nord-sud. Gli isolati (insulae) determinati dall’incrocio delle strade minori con i principali assi viari, avevano in particolare dimensioni di metri 187 circa per 37 circa. Tale impianto “a fasce” (per strigas) è analogo a quello adottato nelle colonie greche di Selinunte, Imera, Locri e Poseidonia e sarebbe dunque più antico della pianta stabilita da Ippodamo di Mileto, architetto ricordato anche da Aristotele, per la città di Thurii nel 444 a.C.. Secondo un’altra tesi invece, il reticolo urbanistico di Napoli greca deriverebbe proprio dal modello ippodameo, che sarebbe stato adottato, infatti, a Napoli solo intorno al 430 a. C., a seguito dell’arrivo in città degli Ateniesi fondatori di Thurii. Fino a quel momento l’area urbana di Napoli, la cosiddetta “prima Neapolis”, sarebbe stata infatti circoscritta esclusivamente alla zona della collina di Caponapoli ove era posta anche l’acropoli con il centro religioso della città, caratterizzato, con ogni probabilità, dalla presenza di un importante tempio dedicato a Demetra. Ad ogni modo, proprio nel centro di Neapolis, a cavallo della platea mediana coincidente con l’attuale via Tribunali, e precisamente tra via Anticaglia, via San Biagio dei Librai, via Fico al Purgatorio, via Purgatorio ad Arco e vico Giganti, era posta l’agorà, che costituiva invece la piazza ove si riuniva l’assemblea popolare e si svolgeva la vita politica e amministrativa. Qui si trovava anche il tempio dei Dioscuri, al cui posto è oggi la chiesa di S. Paolo Maggiore. Gran parte dell’area urbana era tuttavia ancora occupata da giardini, orti e frutteti e da ricoveri per gli animali invece che da abitazioni e da edifici pubblici. Infine, una strada che aveva in parte il tracciato dell’attuale via Cervantes, collegava la città nuova alla vecchia, divenuta ormai parte integrante di un’unica comunità con l’altra come riferisce Tito Livio, mentre numerose altre strade conducevano ad Ercolano, Nola, Atella, Capua e Pozzuoli consentendo i trasporti ed i traffici con l’entroterra.   Infine, il porto della città di Partenope utilizzato poi anche per Neapolis, era accolto in un’ampia insenatura corrispondente a tutta l’attuale piazza del Municipio fino alle aiuole prospicienti palazzo S. Giacomo, e dunque tra il promontorio ove in epoca angioina fu edificato il Castel Nuovo, da un lato, e la chiesa di S. Maria di Portosalvo dall’altro, a circa 400 metri dalla città nuova. Un altro porto minore era probabilmente a ridosso del promontorio di S. Giovanni Maggiore, all’incirca all’imbocco dell’attuale via Mezzocannone, nella zona denominata anticamente Mandracchio termine bizantino che designa appunto uno specchio d’acqua destinato al ricovero delle barche.

 

  1. Napoli romana

 

Tra il 438 ed il 423 a. C., nel territorio intorno a Capua venne a stanziarsi il popolo osco dei Campani (Sanniti), i quali ben presto, oltre alla stessa Capua, conquistarono Cuma (420 a. C.), i cui fuoriusciti ripararono proprio a Napoli. Napoli invece riuscì ad evitare una conquista militare solo accogliendo in città i conquistatori di Cuma e subendone comunque il forte condizionamento politico ed economico, ma non quello culturale, perché, come ricorda Strabone, furono comunque conservate le istituzioni elleniche, i ginnasi, gli efebei, le fratrie e i nomi greci. Questa forte presenza campana ebbe per conseguenza il coinvolgimento di Napoli nella seconda guerra sannitica, fino alla successiva resa della città, questa volta al console romano C. Publicio Filone, nel 326 a. C.. La stipulazione di un trattato di alleanza con Roma, il foedus Neapolitanum (patto napoletano), consentì ad ogni modo alla città di conservare una certa autonomia amministrativa oltre che le proprie istituzioni cittadine di origine greca. In realtà il poco che si conosce di queste ultime è appunto quanto ne era sopravvissuto nel secolo III a. C., in epoca romana. A quel tempo la più antica costituzione democratica che prevedeva un consiglio (bulé) sulle cui proposte si pronunciava l’assemblea dei cittadini (dêmos), aveva subito una modifica in senso oligarchico con l’istituzione di un collegio di magistrati (árchontes) che svolgeva un controllo pregnante sulle decisioni stesse, mentre non è ben chiara la funzione politica delle fratrie (phratríai), confraternite a base gentilizia che peraltro è certo si dedicassero al culto delle proprie divinità tutelari. Dal 326 a.C., comunque, le sorti di Napoli furono sempre più strettamente collegate a quelle di Roma, cui la città rimase sempre fedele. Quale socia navalis (alleata navale) dal 310 a. C., contribuì alle imprese navali romane fornendo vascelli di grande stazza, in particolare pentecontére, navi con cinquanta rematori, e triremi, navi con tre ordini di remi, oltre che equipaggi esperti. Tale obbligo conferma tra l’altro indirettamente l’esistenza a Napoli di un’industria armatoriale ed in particolare di artigiani che lavoravano il legno ed il metallo, oltre che lo svolgimento di importanti attività portuali. La città si impegnò inoltre in una tenace resistenza all’assedio di Annibale durante la seconda guerra punica, e, all’inizio del I sec a. C., non prese parte alla rivolta antiromana dei popoli italici, inoltre fu il primo porto commerciale di Roma in Campania fino a quando, nel II secolo a. C., fu soppiantata dalla vicina Pozzuoli. Infine, nel 90 a. C., i napoletani ottennero la cittadinanza romana e la città fu amministrata come gli altri municipi, pur conservando ancora le antiche tradizioni culturali e religiose greche. In epoca romana Napoli fu suddivisa in quattro quartieri o regiones: la Campana nella zona nord-orientale, la Herculanensis nella zona sud-orientale, la Nilensis nella zona sud-occidentale ed infine la Montana nella zona nord-occidentale. L’agorà della città greca fu trasformata in un forum duplex e cioè un foro doppio, perché, a sud della piazza già destinata alle riunioni dell’assemblea cittadina, fu realizzato il mercato o forum rerum venalium, al cui centro era posto il macellum, un edificio adibito alla vendita di commestibili, proprio nell’area oggi occupata dal convento di S. Lorenzo Maggiore. L’antico tempio dei Dioscuri fu allora riedificato in dimensioni imponenti, fino a raggiungere la notevole altezza di 27 metri dal livello stradale, mentre alle sue spalle furono costruiti o, secondo alcuni, ristrutturati, l’Odeion, teatro coperto destinato agli spettacoli musicali, i cui resti non sono stati ancora esattamente individuati, ed il Teatro scoperto capace di accogliere fino a circa diecimila spettatori, che fu particolarmente a cuore agli imperatori Claudio e Nerone, e le cui attuali strutture risalgono a dopo il 62 d. C.. Furono altresì edificati importanti complessi termali come quelli scoperti in via Carminiello ai Mannesi e nell’area del monastero di S. Chiara, (queste ultime terme furono in uso fino ai secoli III-IV d.C.), nonché, soprattutto nella prima età imperiale, lussuose residenze signorili, mentre i collegamenti con i Campi Flegrei furono migliorati attraverso la costruzione di una galleria lunga oltre 700 metri, la cosiddetta Crypta neapolitana progettata dall’architetto Lucio Cocceio Aucto (4030 a. C.). Il perimetro della murazione civica, che fu restaurata e rafforzata con l’aggiunta di cortine esterne in piperno, andava in epoca romana all’incirca dall’attuale via Foria, a nord, a via Pietro Colletta, ad est, a corso Umberto I, a sud ed a via S. Maria di Costantinopoli, ad ovest. Fuori le mura iniziarono lentamente a formarsi anche piccoli borghi o pagi e furono altresì realizzati, nell’area sud orientale, l’ippodromo e lo stadio. In città continuarono le tradizionali attività cantieristiche e, soprattutto, la produzione per opera di valenti saponarii ed unguentarii, di profumi ed unguenti che erano venduti in eleganti ampolle di vetro graffito. Napoli, tuttavia, era anche rinomata per la fabbricazione di vasellame in ceramica rivenduto poi capillarmente da mercanti greci, ebrei, siriani ed egiziani in tutta l’area tirrenica ed in Oriente, e per la produzione di garum, una salsa a base di pesce macerato molto apprezzata dai romani. Senza dubbio, peraltro, in questo periodo Napoli è soprattutto la città docta ed otiosa, prescelta dalla nobiltà e dagli intellettuali romani per il proprio riposo e svago assieme alle vicine località balneari e termali di Baia, Bacoli, Pozzuoli, Capri, Ischia ed Ercolano, ed anche sede di importanti scuole di filosofia epicurea, come quelle di Filodemo di Gadara (110-28 a. C.), e di Sirone (I sec. a. C.) che fu maestro di Virgilio. Tra il 161 e il 180 d. C., la città ottenne, probabilmente per decisione dell’imperatore Marco Aurelio, con il nome di Colonia Aurelia Augusta Antoniniana Felix Neapolis, documentato da un’iscrizione del II secolo d. C. rinvenuta nell’area di piazza della Borsa, il riconoscimento appunto dello status di colonia che comportava alcuni vantaggi amministrativi e che contribuì al superamento della grave crisi economica che interessò tutta la Campania tra il II ed il III secolo d. C.. A partire proprio dal secolo II d. C. anche a Napoli si diffusero i nuovi culti di origine orientale ed in particolare quelli di Mitra, di Serapide e di Iside, e ciò in conseguenza anche della stabile presenza di una fiorente colonia di mercanti e marinai provenienti da Alessandria d’Egitto stanziatisi nella regio Nilensis ove era, ed è ancora oggi, la grande statua del Nilo meglio nota come Corpo di Napoli. La religione cristiana raggiunse invece la sua piena diffusione ed affermazione solo durante l’episcopato di Severo, tra il 364 ed 410 d. C.. Proprio nell’area delle colline tufacee del borgo dei Vergini e della Sanità, ove erano già sepolcreti greci e romani, nel corso del III e del IV secolo furono ricavate le prime catacombe cristiane, importanti e ben conservate, ed in particolare quelle di S. Gennaro e le minori di S. Gaudioso e di S. Severo. In questo periodo Napoli viveva certamente un momento di pace così come testimonia la lettera indirizzata nell’aprile del 393 da sant’Ambrogio di Milano proprio al vescovo Severo, nella quale la città è definita appunto “terra incantevole, regno della tranquillità perfetta”, con la precisazione che “in nessun luogo (come a Napoli) lo spirito è meglio riparato dal tumulto delle invasioni barbariche e dagli orrori della guerra”. Tra il 425 ed il 450 e più probabilmente intorno al 440, l’imperatore Valentiniano III, in un momento di grave pericolo proprio a causa delle frequenti invasioni barbariche, e soprattutto nel timore di una incursione navale dei Vandali provenienti dall’Africa settentrionale, fece restaurare le mura e le torri civiche cadute in disuso nei lunghi secoli della pax romana, la pace assicurata da Roma. D’altra parte, proprio Napoli aveva accolto alcuni profughi fuggiti dall’Africa devastata dai Vandali ed in particolare il vescovo di Cartagine, Quodvultdeus e quello di Abitine, Gaudioso. Il perimetro della cinta muraria fu però molto probabilmente ridotto ed arretrato rispetto al passato. La stessa grande villa di Lucio Licinio Lucullo (110 a.C. ca.-56 a.C.) posta sul monte Echia, venne fortificata e fu perciò denominata Oppidum o Castrum Lucullanum. Qui, nel 476, fu relegato Romolo Augustolo, morto intorno al 510, ultimo imperatore romano d’Occidente, deposto dal generale goto Odoacre. Resti della villa possono essere individuati in mura con nicchiette in blocchetti di tufo proprio all’apice di Pizzofalcone, ed altre strutture poste più in basso a S. Lucia, nonché sul fondale prospiciente Castel dell’Ovo. La città rimaneva ancora piuttosto lontana dal porto, ma l’inizio di un’espansione urbana in direzione del mare, destinata a continuare nei secoli successivi, è dimostrato dal progressivo allungarsi verso sud del tracciato dei cardines, con il conseguente sbilanciamento dell’antico reticolo urbano proprio verso la zona meridionale. L’approvvigionamento idrico era infine garantito dai diversi acquedotti di età romana, ed in particolare da quello della Bolla, che captava l’acqua da una fonte posta tra Volla e Trocchia, alle falde del Vesuvio, e la metteva a disposizione dei Napoletani “a pelo libero” e cioè direttamente nei cortili delle case, ma sono anche note alcune fonti che attingevano alla falda freatica sottostante la città, in particolare nei pressi delle attuali chiese di S. Pietro Martire, di S. Maria la Nova ed in piazza Francese.

 

  1. Napoli ducale

Nel 536 Napoli era in mano dei Goti, calati in Italia tra il 488 ed il 493, i quali vi avevano posto una guarnigione di ben 800 militi e che erano impegnati in un aspro confronto militare con i Bizantini dell’Impero Romano d’ Oriente. In quello stesso anno i Goti, con l’aiuto dei Napoletani ed in particolare degli ebrei residenti in città, resistettero tenacemente all’assedio dei Bizantini comandati dal generale Belisario, che però riuscì comunque a espugnare la città introducendosi dall’acquedotto, dopo aver impedito il deflusso dell’acqua. Napoli fu saccheggiata, e i soldati di Belisario, esasperati dalla sua lunga resistenza, vi fecero strage di napoletani e di Goti senza alcun riguardo per i fanciulli ed i vecchi, e senza risparmiare nemmeno preti e monache, come riferisce Procopio di Cesarea. Secondo il racconto di Landolfo Sagace, papa Silverio avrebbe quindi aspramente biasimato la strage perpetrata dai soldati di Belisario, il quale perciò, quasi a titolo di riparazione, ordinò il ripopolamento della città con coloni provenienti da Cuma, Pozzuoli, Chiaia, Piscinola, Trocchia, Somma, Cimitile, Nola, Stabia e Sorrento. Il generale, inoltre, su incarico dell’imperatore Giustiniano, in considerazione della perdurante incertezza delle sorti del conflitto, dispose anche l’ulteriore potenziamento della cinta muraria con la costruzione di sette poderose torri esagonali ed ottagonali. Nel 543, dopo tre mesi d’assedio, Napoli fu riconquistata dai Goti di Totila che erano riusciti a impedire ogni rifornimento di viveri al presidio bizantino, forte di ben 1.000 soldati Isauri comandati da Conone, e subì un nuovo saccheggio, oltre che la parziale distruzione delle mura. Non molti anni dopo, nel 553, gli stessi Goti comandati questa volta da Teja furono definitivamente sconfitti dal generale bizantino Narsete in una feroce battaglia svoltasi alle falde del Vesuvio. Da questa data la città entrò a far parte dell’Impero bizantino, e fu inserita nella prefettura d’Italia che aveva la sua sede amministrativa a Ravenna. Narsete continuò i lavori di ristrutturazione della murazione civica iniziati da Belisario, ampliando le mura dal lato occidentale e sud-occidentale, dove erano state probabilmente arretrate da Valentiniano III, e fortificando il porto con strutture difensive che furono verosimilmente collocate in corrispondenza delle attuali rua Catalana e via Agostino Depretis. Nel 568 i Longobardi arrivarono in Italia e si stanziarono in particolare a Benevento, caposaldo dal quale tentarono più volte, nel 581, nel 592 e nel 599, di conquistare Napoli, che costituiva un importante sbocco naturale verso il mar Tirreno. La città, tuttavia, potè resistere agli assedi soprattutto grazie all’impegno della milizia bizantina comandata da un duca o magister militum alle dipendenze dell’esarca di Ravenna, che in seguito, almeno dal 638 circa, accentrerà sempre più in sé oltre che il comando militare, anche i poteri di amministrazione civile, in precedenza esercitati dal giudice (iudex provinciae) dipendente dal prefetto d’Italia e, per un certo tempo, dal vescovo. A metà del secolo VII, comunque, il ducato napoletano comprendeva le città di Napoli, Amalfi, Sorrento, Nocera, Nola, Atella, Pozzuoli, Miseno, Cuma e Gaeta nonché le isole di Ischia, Procida e Capri, ma al principio del secolo IX, ne facevano ancora parte, oltre a Napoli, solo l’area che andava dalla foce del Clanio (Regi Lagni) e dal lago Patria fino ad oriente di Amalfi, comprese le città di Cuma, Pozzuoli e Sorrento, governate da conti o prefetti alle dipendenze del duca. L’affrancamento dal controllo politico e militare dell’Impero di Bisanzio si realizzò gradualmente, fino a quando, nella seconda metà del secolo VIII, il duca-vescovo Stefano II (†800), che è appunto considerato il fondatore del ducato autonomo, potè limitarsi a prestare solo un ossequio meramente formale all’Imperatore, mentre con il duca Sergio I (840-865), il ducato divenne addirittura ereditario. Nel corso del secolo IX aumentò ulteriormente la pressione longobarda su Napoli, ed infatti tra l’822 e l’836 si registrarono ben cinque assedi, durante uno dei quali, nell’831, i Longobardi riuscirono a trafugare dalle catacombe poste fuori le mura, il corpo di san Gennaro, eccetto la testa, trasferendolo con grandi onori a Benevento nella chiesa di S. Maria di Gerusalemme. In questo stesso periodo sono attestate anche le prime scorrerie dei Saraceni, che spesso muovevano da accampamenti fortificati (ribat) realizzati sulle coste campane ed addirittura sulla stessa spiaggia del Moricino, in sostanza l’attuale piazza Mercato, non lontano dalla città. I Saraceni si inserirono in particolare nella lotta in corso operando di volta in volta a favore dell’uno o dell’altro dei contendenti. Tra le loro incursioni se ne ricorda una terribile nell’812, quando ben 40 navi corsare dopo aver saccheggiata Ponza, attaccarono Ischia distruggendola e facendo gran numero di vittime e di schiavi. Con i Saraceni, tuttavia, vennero anche concluse alleanze, come ad esempio in occasione dell’assedio dell’835, quando i pirati, su richiesta di Sergio conte di Cuma, aiutarono i Napoletani contro i Longobardi, sconfiggendo il loro principe Sicardo e costringendolo a firmare un trattato di pace nell’836. Con l’avvento al potere del duca Sergio I (840-865), già conte di Cuma, se da un lato si sopirono i contrasti con i Longobardi, aumentò notevolmente la minaccia rappresentata proprio dai Saraceni che più volte attaccarono il ducato, fino a quando, nella battaglia navale di Ostia (846), Cesario console, secondogenito del duca, a capo di una lega navale cui partecipavano oltre a Napoli anche Sorrento, Gaeta ed Amalfi, sconfisse la loro flotta. Gli anni successivi trascorsero comunque ancora in estenuanti lotte contro i Longobardi di Capua, i Saraceni e poi i Franchi, ma anche in gravi contrasti interni alla stessa famiglia ducale. Nel 1027, Pandolfo IV principe di Capua, riusciva ad impossessarsi di Napoli grazie all’aiuto di alcuni Napoletani, esiliandone il duca Sergio IV a Gaeta. Quest’ultimo ebbe però modo di allearsi con i Normanni di Rainulfo Drengot e con i Gaetani che lo appoggiarono militarmente nella riconquista di Napoli, che in realtà fu resa effettivamente possibile soprattutto grazie ad un accordo tra il duca ed i suoi concittadini che erano evidentemente piuttosto scontenti del modo in cui aveva in precedenza governato la città. Con questo pactum giurato dal duca Sergio nel 1029 o nel 1030, egli garantiva loro il diritto alla proprietà ed alla libertà personale, il diritto di libero commercio nonché la tutela degli stranieri, e stabiliva che i nuovi provvedimenti normativi e le decisioni sulla guerra, sulla pace e sulla neutralità del ducato dovessero esser sempre presi dal duca con il consiglio di un gran numero di nobili. Proprio i Normanni di Rainulfo, ricompensati da Sergio IV con la concessione del piccolo villaggio di Aversa che venne da loro ripopolato, ingrandito e fortificato, condizionarono poi da questo momento significativamente la vita politica di Napoli e del meridione d’Italia. Gli ultimi tempi del ducato autonomo furono caratterizzati dalle lotte condotte dalla coalizione dei Napoletani e dei Longobardi appunto contro i Normanni, che sotto la guida di re Ruggiero II, assediarono Napoli a più riprese, dall’autunno del 1135 fino alla metà del 1137. L’assedio più terribile fu senz’altro quello del 1136 quando molti bambini e giovani di entrambi i sessi, secondo il racconto di Falcone Beneventano, morirono per la fame nelle case e nelle piazze. L’ultimo duca, Sergio VII, dopo la resa della città fu costretto infine da Ruggiero II a partecipare al suo fianco alla battaglia di Rignano, contro il conte normanno Rainulfo d’Alife, ove il duca perse la vita il 30 ottobre del 1137. Il continuo impegno civile e militare profuso per la difesa dell’autonomia e della libertà della città contro Longobardi e Saraceni prima e contro le truppe imperiali poi, contribuì alla nascita di una forte consapevolezza dell’appartenenza alla “patria napoletana”, della quale costituisce senz’altro una prima ed efficace espressione la Laus civitatis, e cioè l’Elogio della città premesso alla Vita del vescovo Atanasio I, risalente alla fine del secolo IX e tradizionalmente attribuita al monaco Guarimpoto. L’Autore della Vita loda infatti l’amenità del sito di Napoli e la sicurezza della città garantita dalla robustezza delle sue mura, esalta il fervore religioso dei suoi cittadini nella partecipazione sia alla liturgia greca che a quella latina nelle splendide chiese e nei monasteri maschili e femminili, ed infine sottolinea l’abbondanza di generi alimentari di prima necessità. Napoli, il cui nome era questa volta spiegato con il termine di Heneapolis (Enneapolis) che, impostole da Ottaviano Augusto, avrebbe avuto il significato di “signora di nove città”, è definita civitas misericordiae et pietatis, città della misericordia e della pietà, prospera e ben difesa grazie anche alla valida protezione celeste accordata in eterno dai suoi patroni sant’Agrippino e san Gennaro. L’elogio intessuto dall’Autore della Vita non è esagerato se si considera che anche a parere degli storici moderni quello ducale è stato il periodo più glorioso della storia di Napoli e dei Napoletani, almeno sotto il profilo dell’indipendenza e delle libertà della città. Progressivamente rispetto al periodo greco-romano, l’aspetto della città subì significative modificazioni proprio a seguito della costruzione di numerose chiese e monasteri che sorsero non di rado proprio nelle aree dei preesistenti templi pagani. Nel corso del IV secolo, in particolare, furono edificate la chiesa del Salvatore che poi divenne cattedrale, con l’annesso battistero di S. Giovanni in Fonte e le chiese di S. Giorgio Maggiore e di S. Severo alla Sanità, cui seguirono, nel V secolo la chiesa dei SS. Apostoli, nel VI secolo S. Giovanni Maggiore, S. Maria Maggiore e S. Lorenzo Maggiore e, tra l’VIII ed il IX secolo, la chiesa di S. Paolo Maggiore. Tra i monasteri più importanti si ricordano in particolare quelli dei SS. Severino e Sossio, dei SS. Teodoro e Sebastiano, dei SS. Pietro e Marcellino, di S. Maria Donnaromita, di S. Gregorio Armeno e di S. Patrizia. Napoli era diventata in conclusione una “città fatta di monasteri e di chiese” nelle quali si celebravano, come già anticipato, sia riti greci che latini. Espressioni della tradizione greca sono in particolare due istituzioni religiose: le diaconie che, attestate dal secolo VI, svolgevano funzioni caritative ed assistenziali a favore dei poveri, e le staurite, associazioni religiose che nel corso delle solenni celebrazioni pasquali portavano in processione la Croce. In particolare, in queste occasioni si teneva una gara di corsa tra le staurite dei SS. Quaranta e di S. Erasmo, cui assisteva con viva partecipazione tutta la cittadinanza. Anche queste istituzioni comunque raccoglievano ed elargivano elemosine ai poveri, curavano le celebrazioni di riti liturgici e di messe in suffragio dei defunti, gestivano ospedali e fornivano doti alle fanciulle da marito.   Il principale centro religioso della città era rappresentato certamente dall’episcopium e cioè dalla chiesa cattedrale ed altresì dalla residenza del vescovo, poste nella zona più popolata di Napoli quasi in contrapposizione al centro politico rappresentato dal praetorium e cioè dal palazzo ducale dotato di un grande porticato e situato sulla collina di Monterone, nell’area che oggi è occupata dal monastero di S. Marcellino. Le antiche terme ed i bagni pubblici continuarono ad essere utilizzati anche in epoca medioevale oltre che a scopi igienici e terapeutici, proprio nell’ambito delle pratiche liturgiche, ed infatti tra gli impianti più importanti si ricordano quello voluto dal vescovo Nostriano (432-449) ed il bagno delle monache dei SS. Marcellino e Festo. Le abitazioni dei privati erano invece di dimensioni molto modeste, non superando in genere i due piani di altezza. Il tessuto urbano perciò non appariva ancora particolarmente congestionato come invece accadrà in seguito. D’altro canto, se in epoca romana Napoli aveva contato tra i 35.000 ed i 40.000 abitanti, agli inizi del secolo XI questi erano scesi intorno a 25.000 o 30.000 unità. Nel 1140 inoltre fu misurato il perimetro delle mura civiche che risultò lungo complessivamente 2.363 passi, pari a 4.470 metri. La città si era certamente ampliata verso mezzogiorno a seguito della realizzazione dei quartieri della iunctura nova e della regione de castellone novo, mentre fuori le mura, nell’area del Moricino erano state costruite numerose abitazioni e botteghe. Infatti, nei secoli IX e X, l’economia cittadina era riuscita a riprendersi dopo una fase di grave crisi della produzione agricola e dei commerci, cominciata tra il IV ed il V secolo e giunta al culmine nell’VIII, soprattutto grazie allo sviluppo della lavorazione dei metalli e del vasellame di ceramica da cucina e da mensa. Si sviluppò ulteriormente, in particolare, l’industria del lino, tanto che già nel secolo X, Al-Istakhrî nel Libro delle strade e dei regni (Masâlik al-mamâlik) ricorda che la ricchezza di Napoli era costituita dalle “tele e dai tessuti di tela”, e che i suoi tessitori erano i più abili al mondo ed in seguito, nel 1154, il geografo arabo Al Idrîsî (sec. XII) potè definire la città appunto Nabl al Kattan “Napoli del lino”. Il porto si era in parte andato progressivamente insabbiando per l’azione combinata dei depositi alluvionali e del moto ondoso ed era suddiviso in due settori specializzati separati dall’istmo ove sorse poi l’attuale chiesa di S. Maria di Portosalvo. Il primo settore, denominato Bulpulum o Vulpulum, nell’area dell’attuale piazza Municipio, sembra fosse destinato ad accogliere il traffico marittimo, mentre presso l’altro, l’Arcina, erano il cantiere e la darsena ove lavoravano maestranze specializzate denominate naupigi. L’arsenale ducale era peraltro piuttosto piccolo essendo capace di accogliere due sole galee. Il traffico marittimo era infine limitato principalmente al trasporto di prodotti agricoli e della pesca, che provenivano dalle altre località del Golfo di Napoli, da Salerno e da Gaeta.

 

  1. Napoli normanna e sveva.

 

Napoli, rimasta senza duca, fu governata per qualche tempo dall’arcivescovo Marino e dai nobili. Nell’agosto del 1139, infine, ambasciatori napoletani si recarono a Benevento presso re Ruggiero II per consegnargli quella l’ultima città dell’Italia meridionale non ancora caduta in mano normanna. Il sovrano vi fece il suo solenne ingresso nel 1140. Secondo il racconto di Falcone Beneventano, i cittadini ed i cavalieri uscirono dalla porta di Capuana e si fermarono nel vicino spiazzo del campus Neapolis per accogliere il re con tutti gli onori. Poi lo condussero alla porta civica dalla quale uscirono a loro volta monaci e sacerdoti inviati dall’arcivescovo Marino, che accolsero in città il sovrano cantando inni di lode. Quattro cavalieri tenevano le redini del suo cavallo e le sue staffe, ed altri quattro lo accompagnarono fino all’arcivescovato, nella cui piazza era concorsa una immensa folla di uomini e di giovani, mentre le donne sposate, le vedove e le nubili osservavano la scena affacciate alle finestre. Ruggiero scese da cavallo e fu accolto nella dimora dell’arcivescovo. Il giorno seguente percorse sempre a cavallo tutta la città esaminando con attenzione palazzi ed altri edifici civili e religiosi, dopodiché, su di una nave, si recò al castello del Salvatore, in seguito denominato Castel dell’Ovo, e vi convocò i cittadini Napoletani con i quali discusse le questioni relative agli affari ed agli interessi della città, donando infine a ciascun cavaliere cinque moggi di terra e cinque coloni, e promettendo in seguito ulteriori concessioni e donazioni. Il governo della città fu in particolare affidato al compalazzo (comes palatii), un funzionario di nomina reale incaricato della gestione dei beni demaniali e della riscossione dei tributi oltre che dell’amministrazione della giustizia civile, affiancato da un collegio di giudici nominati dal re, ma proposti o espressi dai Napoletani. La nobiltà cittadina, ormai inquadrata nel sistema feudale, conservò un proprio ruolo nell’amministrazione interna, mentre ai Napoletani fu concesso il privilegio di esser giudicati nella loro città senza obbligo di recarsi presso le corti regie. A re Guglielmo II invece spettò in seguito il merito di aver rafforzato le difese cittadine fondando il Castel Capuano e ristrutturando il castello del Salvatore sull’isolotto di Megaride. Dopo la morte di questo sovrano senza eredi diretti, nel 1189, si aprì una delicata questione di successione al trono. I baroni e le popolazioni delle principali città si schierarono a favore della candidatura di Tancredi, conte di Lecce, che discendeva per parte paterna da Ruggiero II, e che fu preferito all’imperatore di Germania, Enrico VI di Svevia, il quale aveva a sua volta sposato Costanza figlia dello stesso Ruggiero II. Quanto specificamente a Napoli, il nuovo sovrano si impegnò a scegliere il compalazzo o baiulo tra i cittadini, inoltre consentì che fosse assistito da un collegio di consoli che aveva il compito di amministrare la giustizia. La città fu autorizzata a battere monete d’argento, mentre ai Napoletani fu riconosciuta la libertà di movimento e di traffico a Napoli e nelle altre località del Regno, oltre che l’esenzione dai dazi imposti alle porte della città, nei porti e nei passi fluviali di tutto lo stato. Dopo una iniziale decisa resistenza antisveva in occasione dell’assedio del 1191, dopo la morte di re Tancredi, Napoli si sottomise senza far resistenza alle avanguardie dell’esercito imperiale di Enrico VI, il 23 agosto del 1194. L’imperatore revocò anzitutto le concessioni ed i privilegi accordati dal suo avversario abolendo il collegio dei consoli e mantenendo come suo unico delegato il compalazzo. Infine, per precauzione, nel 1196 ordinò al suo cancelliere Corrado di Querfurt di procedere all’abbattimento, forse solo parziale, delle mura appena restaurate da Tancredi e di tale intervento lo stesso Corrado accennò in una lettera indirizzata ad Atberto, preposto del monastero di Hildesheim, nella quale fornì anche una descrizione per molti versi fantasiosa della città, che contribuì al sorgere del mito di Napoli “città virgiliana”. Corrado attribuiva in particolare il merito della stessa fondazione di Napoli e della realizzazione delle sue mura al poeta latino Virgilio, che avrebbe anche predisposto come talismano per la difesa dai nemici (palladio), un modellino della città racchiuso in una bottiglia di cristallo. L’esercito imperiale sarebbe quindi in realtà riuscito a prendere Napoli solo perché la bottiglia si era nel frattempo incrinata. Virgilio avrebbe inoltre approntato un cavallo di bronzo in grado, sempre per virtù magiche, di garantire buona salute a tutti i cavalli della città, ed una mosca di bronzo che, posta su di una porta fortificata, avrebbe tenuto lontane dalla città tutte le mosche, assicurando la salubrità dell’aria, ed ancora avrebbe edificato un macello nel quale la carne si conservava fresca per sei settimane. Virgilio, inoltre, avrebbe raccolto tutti i serpenti che si annidavano nelle cripte e nelle costruzioni sotterranee della città chiudendoli dietro una porta detta Ferrea, e l’esercito imperiale, procedendo alla distruzione delle mura, avrebbe esitato proprio davanti a quella porta, nel timore di liberare i serpenti rinchiusi. Ancora, lo stesso Virgilio avrebbe predisposto a difesa di Napoli dalle eruzioni del Vesuvio la statua di bronzo di un arciere con l’arco teso ed una freccia puntata in direzione del vulcano, ma in seguito, un contadino troppo curioso avrebbe fatto scoccare la freccia che, colpito l’orlo del cratere, ne avrebbe risvegliato il vulcano. Il poeta mantovano, inoltre, sempre per salvaguardare la salute dei Napoletani avrebbe fatto anche allestire presso Baia e Pozzuoli alcuni bagni pubblici, dotandoli di bassorilievi in gesso che, rappresentando le varie infermità, indicavano le acque più appropriate per la cura di ciascuna di esse. Infine Corrado accenna al fatto che le ossa del poeta, custodite in un castello circondato dal mare, appena esposte all’aperto erano in grado di generare tempeste d’aria e di mare, come aveva potuto verificare anche di persona. Il racconto del cancelliere imperiale, nel quale storia e favola si confondono, non è in realtà affatto isolato, infatti, tra la metà del secolo XII ed il primi decenni del secolo XIII, sono note analoghe narrazioni ad opera di Giovanni di Salisbury, Alessando di Neckam, Elinando di Froidmont e Gervasio di Tilbury. Questi chierici francesi, inglesi e tedeschi, spesso dopo aver soggiornato a Napoli, ripresero, ampliandole, le leggende locali su Virgilio che sarebbe stato creato signore di Napoli da Ottaviano Augusto, diventandone il principale benefattore e protettore, ed il cui sepolcro, posto nell’attuale recinto con colombario nei pressi dell’ingresso orientale della Crypta neapolitana, costituiva da solo già un’importante attrattiva per i viaggiatori colti. Enrico VI morì nel 1197 lasciando erede al trono suo figlio, il piccolo Federico Ruggiero sotto la reggenza prima della madre Costanza e poi di papa Innocenzo III. Gli anni della minorità di Federico furono segnati da accese dispute e lotte tra diversi comandanti tedeschi che pretendevano di esercitare la tutela sul principe. Per Napoli si trattò di un periodo di circa dieci anni di maggiore libertà dal potere imperiale, ma per molti versi anche di grave anarchia, di arbitrii e di sopraffazioni soprattutto da parte dei nobili e dei funzionari amministrativi. Frequenti furono in particolare le usurpazioni di terre nelle campagne tra la città ed Aversa, con conseguenti contrasti tra i diversi pretendenti. Nel territorio occupato vennero anche costruite nuove fortezze ove trovavano rifugio i baroni e le bande di tedeschi che rubavano e taglieggiavano i paesi di Terra di Lavoro. Per queste ragioni i Napoletani organizzarono, nel 1207, una propria milizia civica che, sotto il comando di Goffredo di Montefusco e del conte di Lettere, riuscì a conquistare Cuma, diventata ormai un covo di ladroni tedeschi, trasferendone le venerate reliquie di san Massimo e di santa Giuliana a Napoli, rispettivamente nel Duomo e nella chiesa di Donnaromita. Nel maggio di quello stesso anno, tuttavia, il conte di Acerra, Diopoldo di Hohenburg, riusciva a far prigioniero il Montefusco e ne disperdeva la milizia, mentre Napoli era sottoposta al duro governo militare del conte di Fondi e di quello di Celano. In antitesi a Federico, comunque, i Napoletani riconobbero ed appoggiarono a più riprese, tra il 1210 ed il 1215, Ottone IV, candidato avversario al trono imperiale, ma quando fu chiaro che il figlio di Enrico VI avrebbe prevalso, alla fine gli si sottomisero. Ritornato dalla Germania, Federico, nel dicembre del 1221, indisse una curia generale a Capua per rivendicare i diritti regi usurpati nel trentennio precedente, ridimensionando soprattutto il potere dei feudatari. Riorganizzò tra l’altro l’amministrazione della città di Napoli che fu affidata al baiulo Enrico di Morra, maestro giustiziere del Regno, cui affiancò una curia composta da cinque giudici ed otto notai come aveva stabilito anche per le città di Salerno, Capua e Messina. Aboliti drasticamente gli ampi privilegi concessi da Tancredi, ai cittadini napoletani fu consentito solo di farsi rappresentare da un sindaco nelle cause con le altre città e con privati. Alla città fu comunque lasciata un’autonoma potestà impositiva al fine di consentire la realizzazione di opere pubbliche quali fontane, fognature e lavori di pavimentazione stradale. Certamente, però, il provvedimento più noto adottato dal giovane Imperatore per la città è quello relativo alla fondazione dell’Università come Studium generale, nel quale cioè dovevano essere impartiti tutti gli insegnamenti, compreso quello della medicina, che però, a partire dal 1231, fu tenuto solo a Salerno, sede dell’antica e prestigiosa Scuola medica. Furono pertanto chiuse le precedenti scuole ecclesiastiche e civili, tranne quelle di grammatica, proprio per garantire l’esclusività dell’insegnamento dello Studio. Gli scopi perseguiti da Federico con questa fondazione possono essere ricostruiti sulla base di una sua lettera circolare data a Siracusa il 5 giugno 1224. La nuova istituzione fu destinata anzitutto alla formazione delle leve dei funzionari di un’amministrazione statale che era stata appena riformata e riorganizzata, ed in particolare di giudici e di notai. L’Imperatore intendeva in particolare far rientrare a Napoli i moltissimi studenti Siciliani, Calabresi, Pugliesi, Abruzzesi e Napoletani che seguivano soprattutto corsi di diritto presso l’Università di Bologna, sempre più legata politicamente al principale antagonista di Federico, il pontefice. Da quel momento nessuno studente regnicolo avrebbe potuto recarsi a studiare fuori dal Regno, ed al contempo nessun docente regnicolo avrebbe potuto insegnare fuori dei confini del Regno stesso. Certamente Napoli fu prescelta come sede della più alta istituzione culturale dello Stato per la sua posizione di centralità, ed inoltre perché disponeva in abbondanza di ogni genere di beni commestibili, circostanza che consentiva così agli studenti di vivere con poca spesa. Le disposizioni impartite dal sovrano dovevano servire ad assicurare agli studenti alloggi a prezzi calmierati ed anche contributi in denaro, nonché a garantire corsi tenuti dai migliori professori. Infine Federico concesse anche il cosiddetto “privilegio giurisdizionale” in forza del quale gli iscritti allo Studium napoletano avevano il diritto di essere giudicati dal proprio giustiziere sia nelle cause attive che in quelle passive contro l’Università e contro i terzi. Tra i docenti dello Studio napoletano si ricordano il giurista Roffredo di Benevento, già professore di diritto civile a Bologna e poi ad Arezzo, che redasse gli Statuti dell’Università napoletana ispirandosi probabilmente proprio a quelli dell’Università di Arezzo, Benedetto d’Isernia professore di diritto civile, Pietro de Hibernia, docente di scienze naturali e maestro di san Tommaso d’Aquino, Bartolomeo Pignatelli da Brindisi, docente di decretali, Matteo da Pisa, professore di diritto civile, il grammatico Gerardino, Arnaldo Catalano, filosofo, che morì in cattedra mentre teneva una lezione sull’anima, Gualtiero d’Ascoli, professore di grammatica, Nicola di Rocca, professore di retorica, Terrisio d’Atina, docente di arti liberali. Nell’Università napoletana si insegnavano anche il diritto canonico e la teologia, che, dopo l’espulsione dei Francescani e dei Domenicani dal Regno, nel 1240, fu insegnata probabilmente dai Benedettini, tra i quali si ricorda in particolare Erasmo da Montecassino. Quella napoletana rimase a lungo l’unica Università dell’Italia meridionale di fondazione pubblica, organizzata pertanto secondo un modello ben diverso da quello delle altre Università italiane, nate e sviluppatesi invece da corporazioni o associazioni private di studenti sorte per tutelare gli aderenti e per ricercare i migliori docenti o da corporazioni di docenti in cerca di studenti. Federico inoltre, nel marzo del 1223, secondo Riccardo di S. Germano, provvide alla ricostruzione delle mura ed al rafforzamento dei castelli esistenti a Napoli e cioè il Castel Capuano ed il Castello (o Torre) Normandia, ossia il vecchio castello del Salvatore, ed altrettanto fece a Gaeta, ad Aversa ed a Foggia. I castellani dei due castelli napoletani erano nominati direttamente dall’Imperatore ed, in particolare, Castel Normandia, cui, secondo Giorgio Vasari un Fuccio di Firenze aggiunse in questo periodo alcune torri, aveva una guarnigione composta da un cavaliere (miles) e da trenta armigeri (servientes), che era dunque la più consistente di Terra di Lavoro. Qui probabilmente era conservata anche la collezione d’arte dell’Imperatore, composta da alcune sculture classiche che si riteneva fossero state raccolte da Lucullo e dai monaci del cenobio del Salvatore, e che in parte furono poi trasportate nelle residenze imperiali di Foggia e di Lucera. Napoli iniziò proprio in questo periodo ad affermarsi nello spazio economico europeo e mediterraneo. Come si è rilevato, già alla fine del secolo XII era attestata una vivace produzione di ceramica invetriata e la lavorazione dei metalli, nonché un fiorente commercio marittimo.

Per i commercianti genovesi e pisani, Napoli era divenuta il centro più importante della costa tirrenica meridionale, ma in città operavano anche mercanti amalfitani, sorrentini o provenienti dalla Borgogna, dalla Provenza e da Marsiglia. Questi ultimi si erano insediati nei pressi dell’attuale piazza Mercato, nel quartiere ove erano tra l’altro le chiese “nazionali” di S. Andrea dei Francesi e di S. Maria della Calcara o dei Francesi. I francesi in particolare importavano a Napoli panni di varie qualità, ma anche metalli (rame, stagno), attrezzi vari (ad esempio mole per affilare), vetro, ambra, coloranti (indaco) e sostanze utilizzate per la concia delle pelli (scòtano, sommacco). I mercanti stranieri erano invece attirati a Napoli soprattutto dai prodotti dell’agricoltura campana provenienti dalla Costiera Sorrentina e dai Campi Flegrei che arrivavano al porto trasportati, come si è già rilevato, su piccole imbarcazioni condotte da marinaicontadini. Tra questi prodotti sono da segnalare anzitutto i vini ad alta gradazione alcolica e perciò meno deperibili, quali ad esempio il Greco, la Grecisco ed la Fiano dai vigneti di Ischia, dei dintorni di Napoli e delle falde del Vesuvio, che erano esportati a Firenze, Pisa ed a Genova, nonché a Famagosta nell’isola di Cipro ed a Costantinopoli. L’incremento delle esportazioni di vini napoletani in questo periodo è dimostrato dall’affermarsi nei traffici internazionali della “botte di mena” di Napoli, della capacità di circa 425 litri, accanto alla “botte d’anfora” di Venezia da circa 600 litri, come contenitore standard utilizzato per il trasporto marittimo. Nel porto napoletano venivano anche imbarcati vini napoletani e siciliani, come ad esempio il Gaglioppo di Messina, destinati a soddisfare le necessità della corte imperiale itinerante, o nell’ambito delle speculazioni commerciali dello stesso Imperatore. I mercanti Veneziani e Genovesi esportavano invece da Napoli soprattutto olio che era inviato perfino nel Mar Nero, a Mitilene, Alessandria, Bugia, Tunisi ed in Sardegna. Tra gli altri prodotti agricoli si ricordano, in particolare, le castagne dei castagneti delle colline e delle pianure della Campania, ma anche noci, nocciole e mandorle destinati al mercato locale ed all’esportazione verso il Nord Africa ed il Medio Oriente. Il porto di Napoli accoglieva infine anche un traffico passeggeri piuttosto sostenuto, quello costituito dai pellegrini diretti in Terrasanta, così come accadeva peraltro anche nei porti di Messina e di Brindisi. Proprio in questo periodo, comunque, raggiunse paradossalmente il culmine un processo di sensibile attenuazione dell’antico rapporto tra la città ed il suo mare, preziosa risorsa della quale approfittarono piuttosto i mercanti stranieri e ciò probabilmente anche in conseguenza dell’affermarsi, nel corso dell’alto medioevo, di un ceto dirigente strettamente basato sull’elemento fondiario-militare (la militia neapolitana) che era evidentemente poco interessato ai traffici ed alle imprese marittime. Per questo motivo pochissimi risultano i mercanti e gli armatori napoletani, ed i pochi erano dotati di mezzi materiali e finanziari piuttosto esigui in confronto soprattutto agli Amalfitani, mentre non si hanno notizie di ammiragli o comandanti napoletani. Un anno dopo la morte di Federico II avvenuta il 13 dicembre del 1250, Napoli, che già prima aveva cospirato contro l’Imperatore come testimonia una lettera di papa Innocenzo IV, assieme a Capua ed ai conti di Caserta e di Acerra si ribellò apertamente al suo successore Corrado IV, ponendosi sotto la protezione del pontefice. Manfredi, fratello di Corrado e suo vicario, tra il maggio ed il giugno del 1251 assaltò la città dal versante del Vesuvio e dalla Solfatara, ma non riuscendo a prenderla si limitò devastare le campagne circostanti. Nel frattempo Napoli aveva ricevuto dal papa un ordinamento comunale che ricalcava quello di Bologna e che prevedeva un podestà elettivo cui erano affidati anche il comando della milizia e l’amministrazione giudiziaria. Il podestà era affiancato da un consiglio, che deliberava su taluni atti e dal comune, che assumeva le determinazioni sugli affari più gravi. I podestà di Napoli in questo periodo furono Riccardo Filangieri da Napoli (1251-1252), Gallo de Orbellis da Milano (12521253) e Bartolino Tavernario da Parma nel 1255. Dopo la strenua resistenza opposta dalla città a Manfredi nel 1251, Corrado decise di guidare di persona l’assalto a Napoli, il 18 giugno del 1253, muovendo da mare e da terra, con l’impiego massiccio di truppe tedesche e saracene, ed utilizzando numerose e potenti macchine belliche, probabilmente blide o trabucchi e cioè catapulte a cucchiaio teso da contrappesi, che erano state perfezionate proprio da Federico II. Napoli potè resistere solo quattro mesi, ma poi il 10 ottobre, in assenza dell’atteso aiuto militare da parte del pontefice, capitolò per la fame e le malattie. Erano stati momenti terribili, i Napoletani stremati infatti giunsero addirittura a cibarsi di carogne, ortiche, malva e foglie di fico secondo quanto racconta Saba Malaspina. La resistenza opposta dalla città innescò la vendetta di Corrado contro i principali ribelli napoletani come Riccardo Filangieri e Guglielmo de Palma. Molti furono esiliati, mentre le mura vennero abbattute e le torri diroccate. Lo stesso Studio fu trasferito a Salerno per decisione assunta nel parlamento di Foggia del 1252. In seguito tuttavia, Corrado concesse ai Napoletani l’indulto, la restituzione dei beni e l’esenzione dai dazi. Secondo Giulio Cesare Capaccio inoltre, lo stesso sovrano istituì anche la gabella del fondaco maggiore con esazione di 10 grani per oncia per le merci contrattate, proprio al fine di ricostruire le mura appena demolite.

Corrado morì di febbre malarica a Lavello il 21 maggio del 1254 e Napoli passò ben presto sotto il governo di papa Innocenzo IV che, dopo una prima pacificazione con Manfredi, si stabilì in città il 27 ottobre, prendendo alloggio nel palazzo che era stato di Pier della Vigna, principale ministro di Federico II, e qui a sua volta, il 7 dicembre morì e fu sepolto nella chiesa cattedrale. A Napoli si tenne dunque il conclave che elesse papa Alessandro IV, consacrato il 20 dicembre, il quale alla notizia dell’avvicinarsi delle truppe di Manfredi, che aveva così chiaramente manifestato le sue effettive intenzioni di dominio esclusivo sul regno di Sicilia, lasciò in tutta fretta la città. Ai Napoletani, perduta ogni fiducia nell’aiuto del papa, nel maggio del 1256 non restava altro che offrire le chiavi della città al principe svevo.

 

NOTA BIBLIOGRAFICA

Sulle origini e sulla fondazione della città:       M. NAPOLI, Civiltà della Magna Grecia, Roma 1978; A. V., Napoli antica, Napoli 1985, (in particolare i contributi di S. De Caro, A. Mele, E. Lepore, E. Greco);   A. V., Tra Castel dell’Ovo e Sant’Elmo. Napoli: il percorso delle origini, a cura di D. Mazzoleni, Napoli 1995, (in particolare il saggio di G. Vecchio);   M. NAPOLI, Napoli greco-romana, (rist.) Napoli 1996; D. GIAMPAOLA-F. LONGOBARDO, Napoli greca e romana, Napoli 2000; D. GIAMPAOLA-V. CARSANA-S. FEBBRARO-B. RONCELLA, Napoli: trasformazioni edilizie e funzionali della fascia costiera, in A. V., Le città campane fra tarda antichità e alto medioevo, a cura di G. Vitolo, Salerno 2005, pp. 219-247.

Per il periodo ducale: G. LICCARDO, Vita quotidiana a Napoli prima del Medioevo, Napoli 1999; M. SCHIPA, Il Mezzogiorno d’Italia. Ducato di Napoli e Principato di Salerno, Salerno 2002.   Per il periodo normanno-svevo:   M. FUIANO, Napoli normanna e sveva, in A. V., Storia di Napoli, Napoli 1969, vol. II, pp. 411-518; A. PARLATO, Federico II a Napoli, Napoli 1999; G. VITOLO, Napoli, in Federico II. Enciclopedia federiciana, Roma 2005, pp. 383-388.

Sul mito della città virgiliana: G. VITOLO, Nel laboratorio della storia. I medici di Salerno, le terme di Baia-Pozzuoli e la leggenda virgiliana di Napoli, in Rassegna storica Salernitana, 46, 2006, pp. 43-73.

Per un profilo più generale relativamente ai periodi trattati: L. DI MAURO-G. VITOLO, Breve storia di Napoli, Pisa 2006, pp. 7 ss.; G. DORIA, Storia di una capitale: Napoli dalle origini al 1860, Milano-Napoli 1975, pp. 21 ss..

Per indicazioni sull’assetto urbanistico e topografico: A. LORIS ROSSI, Napoli, architettura e paesaggio, Roma 2006.

Mario Gaglione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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