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Brigantaggio Insorgente del Regno delle Due Sicilie, il Sud non c’entra nulla.

Posted by on Lug 6, 2017

Brigantaggio Insorgente del Regno delle Due Sicilie, il Sud non c’entra nulla.

Il 16 dicembre 1861, a Torino la Camera dei Deputati, in seduta segreta, discusse della drammatica situazione delle province meridionali, e decise un’indagine conoscitiva da affidare ad una apposita Commissione parlamentare.

Il documento risultante, noto come Inchiesta Massari – Castagnola, fu letto in Comitato segreto il 3 e 4 maggio 1863 da Giuseppe Massari e Stefano Castagnola, la pubblicazione degli atti fu effettuata solo dopo la promulgazione della Legge Pica, approvata il 6 e pubblicata il 15 agosto 1863. Con la Legge Pica, si scelse di risolvere il problema con i Tribunali militari, competenti anche per i reati di presunto favoreggiamento, e con l’istituzione delle giunte provinciali per l’invio al domicilio coatto dei sospetti. La legislazione eccezionale, resterà in vigore fino al 31 dicembre 1865, data che segna ufficialmente la fine del “grande brigantaggio”, anche se bande più o meno isolate continueranno ad operare fino al 1870.

Con la Legge Pica si scatenarono ondate di arresti senza precedenti, nell’agosto del 1863 con la circolare n. 29, si attribuiva ad ogni “autorità militare”, la facoltà di ordinare l’arresto dei manutengoli (erano così chiamati i collaboratori). Le truppe impiegate nell’ex Regno raggiungeranno le 300.000 unità tra Esercito e Guardia Nazionale. Si poneva a discrezione di qualunque militare impegnato nella lotta al brigantaggio la facoltà di arrestare, giudicare e fucilare i sospetti. Oggi, a distanza di quasi centocinquant’anni da quei tragici eventi, la Storia dovrebbe poter narrare quei fatti e le gesta dei protagonisti dell’una e dell’altra parte senza farsi condizionare da odi o passioni di parte, con serena obbiettività, ma forse è ancora troppo presto.

Il 20 agosto 1862 venne proclamato, in seguito alle sommosse, lo stato d’assedio in tutta la Sicilia, e il 25 fu esteso a tutto l’ex Regno. Vennero soppresse la libertà di stampa e riunione, censurata la posta, arrestati i parenti dei briganti, i sospetti furono deportati in Piemonte. Si instaurò la dittatura militare. Nell’aprile 1864, nelle regioni meridionali si respirava un clima generale di terrore, le popolazioni furono sempre più impossibilitate a dare aiuto ai briganti, durante l’anno si fecero sempre più numerosi e duri gli scontri tra esercito e briganti, vengono sconfitte numerose bande in Basilicata, Irpinia e Capitanata. Fin dai primi mesi del 1860, il fenomeno del brigantaggio assunse dimensioni dilaganti e costrinse i piemontesi a portare il numero dei soldati impiegati nel Sud dagli iniziali 22.000 a un contingente di 50.000 nel dicembre del 1861, aumentato a 105.000 unità l’anno successivo fino a raggiungere il numero di 120.000 nel 1863. La lotta armata fra briganti meridionali e truppe dell’esercito regolare in cinque anni fece un’ecatombe di vittime assumendo le proporzioni di una guerra civile. Si calcola che tra il 1861 e il 1865 rimasero uccisi in combattimento o passati per le armi 5212 briganti e che ne siano stati tratti in arresto 5044. Occorsero misure severissime di pubblica sicurezza per stroncare definitivamente il brigantaggio e fu determinante al riguardo la “Legge Pica“, che sottopose alla giurisdizione militare le zone di maggiore attività dei banditi. Venne proclamato lo stato d’assedio, con rastrellamenti di renitenti alla leva, di sospetti, di evasi e pregiudicati. Le rappresaglie furono atroci e sanguinose da entrambe le parti e spesso le masse furono coinvolte loro malgrado negli scontri pagando con la distruzione di interi villaggi e le fucilazioni senza processo di centinaia di contadini ritenuti a torto fiancheggiatori dei briganti. I briganti erano accolti col suono delle campane, con arazzi ai balconi, col. Te Deum in Chiesa, con balli, luminarie e fragore di mortaretti nei villaggi liberati.

Trentuno comuni avellinesi innalzarono la bandiera Borbonica. In vaste zone della penisola meridionale la guerriglia infuriava ovunque. La repressione delle truppe regolari e della Guardia Nazionale si fece spietata con la distruzione dei paesi e fucilazione sul posto dei briganti, che si muovevano a cavallo con grande mobilità. Battevano le truppe regolari con la sorpresa per poi sparire nell’entroterra in cui si muovevano come i pesci nell’acqua, a differenza dei loro avversari, isolati dalla popolazione da profonde diversità sociali e culturali. Nella discussione alla Camera, su interpellanza dell’On. Massari, apparve che la maggioranza moderata, non si era resa conto della gravita del fenomeno. Giuseppe Ferrari affermò che il brigantaggio “pesava ormai come un potere dello Stato”. Difatti alle spalle delle bande era schierata gran parte della società rurale dominata dalla Chiesa e influenzata dai comitati borbonici.

La Guardia Nazionale, composta da elementi i cui interessi erano colpiti dal brigantaggio, fu dura nella lotta di repressione dei contadini ribelli. Nell’agosto del 1861, in soli sei giorni, nella zona di Teramo, vennero fucilati sul posto 526 contadini. In autunno Cialdini venne sostituito da La Marmora, con poteri militari e civili. Abolito l’istituto della Luogotenenza, si ebbe nel sud un vero e proprio governo militare. La politica di feroce repressione messa in atto da Cialdini e proseguita da La Marmora, suscitò alla Camera le proteste della Sinistra e degli stessi moderati meridionali.

Sul fronte parlamentare si ebbe una netta spaccatura dei deputati settentrionali in rapporto a quelli del sud, al di là delle rispettive posizioni politiche di destra e di sinistra. Le elezioni amministrative del 1861 avevano portato al potere in molti municipi delle maggioranze filoborboniche. Dell’inchiesta parlamentare risulta che circa i due terzi dei comuni erano in mano ai reazionari. Vennero sciolti 89 consigli comunali e 85 corpi di Guardie Nazionali, sospetti di collusione coi briganti. Non occorre sottolineare quale fu l’apporto delle masse contadine al fenomeno del brigantaggio: ne furono il cuore.

Il vasto movimento di assistenza alla guerriglia brigantesca fu chiamato manutengolismo. La magistratura si trovò in notevoli difficoltà perché buona parte dei magistrati era filoborbonica. Il fenomeno del manutengolismo era così ampio che non era possibile colpirlo e ridurlo soltanto a forza di sanzioni penali. Era l’atteggiamento antiunitario e autonomista di una parte della borghesia agraria ed era l’appoggio al brigantaggio dalle masse contadine che esprimevano il loro insoddisfatto desiderio di pane, di giustizia e di libertà. Fra il 1861 e il 1870, quando poté dirsi concluso il periodo del brigantaggio, è stato calcolato un totale di 388 bande in azione.

A seguito dei sempre più numerosi sconfinamenti dei briganti, nel territorio pontificio, venne firmato un accordo tra governo italiano e francese, avente ad oggetto la cattura dei briganti nei territori dello Stato Pontificio. Nel 1867 il 24 febbraio venne firmata a Cassino (con R.D. del 23 luglio 1863, fu cambiato il nome della città e San Germano divenne Cassino) l’omonima la Convenzione, tra governo italiano e Stato Pontificio, l’oggetto erano gli sconfinamenti dei briganti in quel territorio dopo le azioni di guerriglia. Ad aprile numerosi scontri vedono contrapporsi in Ciociaria briganti contro esercito italiano e pontifici. Si formano nuove bande. Nel 1870 vengono soppresse le zone militari in tutto il territorio delle Due Sicilie. Le bande godevano di estese complicità sia tra la popolazione che tra il clero regolare della zona.

Gli oppositori dell’Unità nel Regno delle Due Sicilie – L’unificazione forzata della penisola italiana, nel decennio dal 1860 al 1870, suscita ovunque resistenze e reazioni, in particolare nel Regno delle Due Sicilie, dove la lotta armata contro l’invasore assume proporzioni straordinarie. Pure in questo caso gli insorti, che combattevano contro l’imposizione di una visione del mondo estranea alle proprie tradizioni civili e religiose, sono stati bollati come briganti. La resistenza nel Mezzogiorno ha inizio nell’agosto del 1860, subito dopo lo sbarco sul continente delle unità garibaldine provenienti dalla Sicilia. La popolazione rurale, chiamata alle armi dal suono di rustici corni o dalle campane a stormo, rovescia i comitati insurrezionali, innalza la bandiera con i gigli e restaura i legittimi poteri. La spietata repressione operata dagli unitari, con esecuzioni sommarie e con arresti in massa, fa affluire nelle bande, che i nativi denominano masse, migliaia di uomini: soldati della disciolta armata reale, coscritti che rifiutano di militare sotto un’altra bandiera, pastori, braccianti e montanari. Nella primavera del 1861 la reazione divampa in tutto il regno e il controllo del territorio da parte degli unitari diventa precario. In agosto è inviato a Napoli, con poteri eccezionali, il generale del Regio Esercito del neo proclamato Regno d’Italia Enrico Cialdini (1811-1892), che costituisce un fronte unito contro la “reazione”, arruolando i militi del disciolto esercito garibaldino e perseguitando il clero e i nobili lealisti, i quali sono costretti a emigrare, lasciando la resistenza priva di una valida guida politica. Il governo adotta la linea dura e il generale Cialdini ordina eccidi e rappresaglie nei confronti della popolazione insorta, decretando il saccheggio e la distruzione dei centri ribelli. In questo modo viene impedita l’insurrezione generale, e viene scritta una pagina tragica e fosca nella storia dello Stato unitario.

Dalla repressione all’emigrazione Con il sistema generalizzato degli arresti in massa e delle esecuzioni sommarie, con la distruzione di casolari e di masserie, con il divieto di portare viveri e bestiame fuori dai paesi, con la persecuzione indiscriminata dei civili, si vuole colpire “nel mucchio”, per disgregare con il terrore una resistenza che riannodava continuamente le fila. Viene introdotto per la prima volta nel diritto pubblico italiano l’istituto del domicilio coatto, che risulta particolarmente odioso per la sua arbitrarietà. La moltiplicazione dei premi e delle taglie crea un'”industria” della delazione, che è un’ulteriore macchia indelebile nella repressione e ispira amare riflessioni sulla proclamata volontà moralizzatrice dei governi unitari nei confronti delle popolazioni meridionali. Attenzione particolare è dedicata alla guerra psicologica, condotta su larga scala mediante bandi, proclami e soprattutto servizi giornalistici e fotografici, che costituiscono i primi esempi di una moderna “informazione deformante”. In questo modo viene distrutto il cosiddetto “manutengolismo”, cioè quel vasto movimento di sostegno e di fiancheggiamento alla guerriglia, che rappresenta un fenomeno così ampio e articolato socialmente da non poter essere stroncato con il solo ricorso alla legislazione penale, anche se eccezionale. Infine, la proclamazione dello stato d’assedio, le uccisioni indiscriminate, il terrore, il tradimento prezzolato stroncano la volontà di resistenza della popolazione. Quando le bellicose energie sono esaurite, l’estraneità al nuovo ordine si manifesta più pacificamente, ma non meno drammaticamente, nella grandiosa emigrazione transoceanica della nazione “napoletana”, che coinvolge alcuni milioni di persone.

Oltre la censura storiografica: le ragioni ideali e politiche Questo periodo doloroso della storia italiana è censurato e deformato da oltre un secolo. Un’interpretazione esauriente del complesso fenomeno del Brigantaggio deve considerazione che l’opposizione armata fu soltanto uno degli aspetti della resistenza antiunitaria delle popolazioni meridionali, che presentò contorni più vasti e profondi di quelli delle insorgenze napoleoniche. Dal 1860, la resistenza si presenta con l’opposizione parlamentare, le proteste della magistratura, che vede cancellate le sue gloriose e secolari tradizioni, la resistenza passiva dei dipendenti pubblici e il rifiuto di ricoprire cariche amministrative, il malcontento della popolazione cittadina, l’astensione dai suffragi elettorali, il rifiuto della coscrizione obbligatoria, l’emigrazione, la diffusione della stampa clandestina e la polemica condotta dai migliori pubblicisti del regno, fra cui emerge Giacinto de’ Sivo (1814-1867), che difendono con gli scritti i calpestati diritti di una monarchia da sempre riconosciuta nel consesso delle nazioni e benedetta dalla suprema autorità spirituale. La resistenza armata è però il fenomeno più evidente, che coinvolge non soltanto il mondo contadino, ma tutta la società del tempo nelle sue strutture e nei gruppi che la componevano. Il brigantaggio coinvolse tutta la società meridionale del tempo, sia proprietari sia contadini. Il termine, quindi, di “guerriglia contadina”, per definire il brigantaggio, andrebbe sostituito con quello di “guerriglia antiunitaria” tradizionalistica e rurale. Il meridione, in tutte le sue componenti sociali, ad esclusione di modeste frange, partecipò al fenomeno, inteso come reazione di rigetto nei confronti di una realtà storica diversa che, giunta con le armate garibaldine e piemontesi, era entrata in conflitto con la società tradizionale, come accadde a Bronte. Non vi fu adesione all’annessione: la si ritenne un’aggressione ad uno Stato legittimo quale il Regno delle due Sicilie. Il brigantaggio fu più uno scontro di civiltà che non uno scontro di classe anche se, come a Bronte, queste due dimensioni della lotta si possono ambiguamente confondere. Il fenomeno del brigantaggio esplose subito, prima ancora della conclusione delle operazioni militari di conquista del sud. La sopravvivenza della nuova formazione statale unitaria era stata così messa in discussione.

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