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Calabria: LA VANDEA ITALIANA (da Ruffo alle insorgenze anti-francesi, con un ricordo del Brigante Panedigrano)

Posted by on Feb 22, 2018

Calabria: LA VANDEA ITALIANA (da Ruffo alle insorgenze anti-francesi, con un ricordo del Brigante Panedigrano)

La conquista borbonica delle Due Sicilie avvenne negli anni 1734-1735 nell’ambito della guerra di successione polacca, quando la Spagna di Filippo V di Borbone invase i regni di Napoli e di Sicilia, allora soggetti alla dominazione austriaca.

In virtù della politica dell’equilibrio che ispirava i trattati internazionali del XVIII secolo, dopo la vittoriosa campagna militare i due regni non tornarono ad essere vicereami della Spagna come nei secoli precedenti, ma riacquistarono l’antica indipendenza con il figlio di Filippo V e della seconda moglie Elisabetta Farnese, l’infante don Carlo, già duca di Parma, come primo sovrano della dinastia dei Borbone di Napoli.

Alla conquista seguirono tensioni con il papa Clemente XII, il quale – titolare di secolari diritti feudali sui due regni – concesse l’investitura a Carlo solo nel maggio 1738. Il riconoscimento internazionale nella nuova casa regnante avvenne a novembre dello stesso anno con il trattato di Vienna, al prezzo della cessione del Ducato di Parma e Piacenza agli Asburgo e del Granducato di Toscana ai Lorena.

La progressiva demolizione degli Stati sovrani europei, improntati allo stato sociale, dei loro confini e, addirittura, delle loro identità, ricorda il processo di unificazione voluto per gli stati preunitari italiani, che non fu solo glorioso e che non risparmiò la dinastia antica dei Borbone. Qui, un tratto di quel percorso, tratto da una tesi di laurea di Palmira Panedigrano.

[…] Arrivò il tempo delle idee massoniche in tutto il regno, ingrati verso i Borbone ed il loro governo, molti intellettuali predicavano queste nuove idee; in Calabria particolarmente operarono: Francesco Valitutti (Paola), Giovanni Labonia (Rossano), Giuseppe Logoteta (Reggio Calabria), l’abate Jerocades a (Pargherlia) e altri intellettuali calabresi che aderirono alle idee della massoneria.

A Parigi arrivava al potere Napoleone, esportando la rivoluzione in tutto il vecchio continente, all’arrivo delle truppe francesi, guidate dal generale Championnet, Ferdinando IV fu costretto a trovare rifugio in Sicilia, a Napoli venne proclamata la Repubblica Partenopea (Castel S. Elmo, 22 gennaio 1799).

Le truppe francesi entrarono a Napoli il 23 gennaio, ma avranno vita breve grazie all’eroismo di un cardinale calabrese.

Il cardinale Fabrizio Ruffo (San Lucido, 16 settembre 1744 – Napoli, 13 dicembre 1827), il 25 gennaio 1799 (giorno dell’insediamento di Ferdinando IV alla corte di Palermo), venne nominato vicario generale del regno.

Con sei persone, il cardinale sbarcò sulle coste calabresi (8 febbraio 1799), nei territori feudo della sua famiglia, sventolando una bandiera bianca, che diventerà il glorioso vessillo dell’Armata Sanfedista.

Il cardinale, incaricato dalla corte di Palermo, predicò l’insurrezione alle popolazioni calabresi, ancora poco contaminate dagli ideali massonici e rivoluzionari francesi: le parrocchie fecero suonare le campane per adunare la gente, la sollevazione diventò popolare, incontenibile.

Partì dall’attuale provincia di Reggio, organizzando meticolosamente la sua macchina bellica. Marciavano prepotentemente, ingrossavano le fila con nuovi arruolamenti, espropriò beni come quelli del fratello stesso a Bagnara, teneva infervoranti discorsi, piegava mano a mano i paesi a fede repubblicana, intanto riceveva piccoli aiuti spediti da Messina: come cannoni ed una macchina per stampare proclami; ormai era forte di 17.000 uomini, che divise in due colonne bene armate e bene organizzate.

Arrivò a Crotone dove trovò e sbaragliò l’ultima grande resistenza repubblicana, sostenuta da un contingente di soldati francesi, fu un massacro, infatti il cardinale Ruffo, per evitare ulteriore spargimento di sangue, mandò precedentemente tre suoi parlamentari a trattare con i repubblicani crotonesi che per tutta risposta fecero trucidare i tre parlamentari non preoccupandosi di suscitare una carneficina ai danni della popolazione crotonese.

Il cardinale, a malincuore, inviò una delle due colonne sulla città, non riuscendo ad impedire i saccheggi e le devastazioni da parte dei suoi uomini, che erano pieni di zelo antifrancese e religioso, specie i briganti del famigerato Panzanera.

I fatti sanguinosi di Crotone costarono al cardinale molte critiche che fecero vacillare il suo esercito, ma, poichè il consenso era ancora forte, riuscì a radunare di nuovo 7.000 uomini marciando alla volta di Napoli: stavano per aggiungersi ad un migliaio di galeotti, fatti sbarcare in Calabria dagli inglesi (in funzione anti francese), questi furono assegnati al comando di un altro brigante, Panedigrano (Nicola Gualtieri), che utilizzò i galeotti inglesi con ferrea disciplina.

Pane di grano (o Pan di grano). – Soprannome con il quale è noto il brigante calabrese Nicola Gualtieri (sec. 18°-19°), è del 1908 il ritrovamento, nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (ora in Carteggi vari 495.87), di cinque lettere di Maria Carolina d’Asburgo, regina di Napoli, indirizzate proprio al fedele “Don Nicola” e famoso Brigante. Ebbe parte nell’insurrezione calabrese, combattendo contro i Francesi per i Borboni dal 1799 al 1806. La sua storia di brigante inizia quando la sorella rimase vittima di un abuso. Il giovane Gualtieri si vendicò uccidendo lo stupratore e quindi si diede alla macchia. Dal punto di vista umano e, poi, militare, di figlio della terra calabrese, Nicola Gualtieri merita, anche oggi, di essere ricordato, ma non basterebbero le poche righe qui in calce. Nicola Gualtieri si trovava in prigione, a Messina, quando gli inglesi decisero di liberare tutti i condannati per arruolarli nell’Armata sanfedista approntata dal cardinale Fabrizio Ruffo per rimettere sul trono re Ferdinando IV di Borbone.

Panedigrano, sotto la guida del cardinale Fabrizio Ruffo, si fece notare per il suo coraggio e l’attitudine al comando. Nel 1799, con i suoi mille forzati, contribuì alla riconquista di molte città meridionali, tra cui Napoli e, quindi, alla restaurazione della monarchia borbonica.

Nel 1806, richiamato dalla regina Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, combatté in favore dei Borboni contro i francesi.

Durante il cammino da Crotone a Cassano, l’Armata gonfiò le sue fila arrivando ad oltre 16.000 uomini, composti da ex carcerati, truppe baronali, soldati irregolari, cavalieri, religiosi, contadini ed artiglieri.

L’Armata della Santa Fede raggiunse Napoli il 13 giugno, liberando la Capitale dai francesi nell’ultima battaglia al Ponte della Maddalena; i repubblicani superstiti della furia sanfedista, tentando un’ultima e disperata resistenza, si arroccarono nel Forte di Vigliena, facendosi in fine esplodere per evitare la cattura.

Si chiuse così la breve parentesi della Repubblica Partenopea.

Il cardinale Ruffo, sconfitti i francesi, tentò comunque di salvare i repubblicani napoletani dalle prevedibili repressioni, perché non voleva ulteriore spargimento di sangue, e contro il volere stesso dei Borbone, che da Palermo reclamavano la linea dura, sottoscrivendo un accordo con i comandanti inglesi, russi e polacchi (degli eserciti regolari che avevano partecipato all’assedio); tentò di fare fuggire i repubblicani con le truppe e le navi francesi in ritirata.

Ma, sotto pressione dei Borbone, il trattato non venne accettato dall’ammiraglio inglese Nelson, gli sconfitti andarono incontro al loro destino ed i Borbone tornarono al trono.

Nel 1801 le truppe borboniche, tentarono di raggiungere la Repubblica Cisalpina, ma furono sconfitte a Siena da Gioacchino Murat; seguì l’armistizio di Foligno (18 febbraio 1801) e subito dopo la pace di Firenze, che prevedeva tra l’altro l’amnistia per i repubblicani.

Il Regno rimarrà governato dalla dinastia borbonica fino al 1806, quando le truppe napoleoniche invaderanno Napoli, aprendo così una nuova parentesi francese, di circa dieci anni: il cosiddetto periodo “murattiano”.

Alla momentanea ricaduta borbonica, venne nominato re Giuseppe Bonaparte che, dopo la nomina a re di Spagna nel 1808, lasciò il trono al generale francese Gioacchino Murat.

In tutto il periodo, fino alla ricaduta dei francesi, la Calabria si confermò una terra ostile e ribelle, conquistò in tutta Europa notorietà perché ostinatamente antifrancese: tanto da essere paragonata e considerata alla stregua della mitica Vandea (Regione rivoltosa della Francia, che non accettò mai i valori della rivoluzione francese tanto da essere quasi sterminata).

Con forza e volontà inaudita, nell’ultima decade di marzo del 1807 scoppiò la rivolta popolare contro i francesi, partita da Soveria Mannelli, era il 22 marzo, quando venne infastidita una ragazza locale da parte di un soldato francese che comandava il drappello a presidio di Soveria, i compaesani della bella giovane accorsero alle sue grida massacrando il drappello composto da poche unità, l’insurrezione così dilagò in un attimo in tutti i comuni vicini.

I francesi per tutta risposta bruciarono villaggi ed impiccarono i rivoltosi; la repressione non servì a nulla, infatti, il 4 aprile a Maida i Francesi furono sconfitti dai rivoltosi, sostenuti da alcune truppe inglesi.

I francesi abituati a vincere in tutta Europa (con una situazione lontanamente simile alla Calabria solo nella Gallizia), reagirono in maniera molto dura per via degli umilianti colpi ricevuti dal così tenace popolo calabrese.

Il 31 luglio venne proclamato lo stato di guerra nella Calabria, fu avviato un provvedimento formale, a legittimazione delle pesanti e feroci azioni repressive che i Francesi inflissero alle popolazioni della Calabria; si tratta di un provvedimento di legittimazione che ha pochi esempi in tutta la storia.

Nonostante la reazione molto dura la Calabria rimase in guerra fino alla caduta dei francesi.

Il questi anni di governo francese, ben poco fu fatto per la regione, si cercò di abolire la feudalità per decreto (come se bastasse una formalità scritta), molto probabilmente per colpire i nobili calabresi più che per aiutare il popolo.

Si mise mano alla strada principale calabrese che fu costruita dai Borbone (attuale statale 19 – ex S.S. 7 strada delle calabrie), fu spostata la capitale della Calabria da Catanzaro a Vibo Valentia (allora Monteleone di Calabria), fatto che portò tuttavia il fiorire di molti mestieri e ripresa economica nella nuova capitale designata.

Ma la guerriglia della “Vandea italiana” continuava incurante di tali ed iniqui provvedimenti.

Arrivano i “cento giorni” e la sconfitta di Napoleone nella battaglia di Waterloo; è il tempo della restaurazione della monarchia, nel meridione d’Italia è quella di Ferdinando IV di Borbone con la soppressione del Regno di Napoli e Regno di Sicilia che erano divisi da due costituzioni diverse: tutto questo voluto dal Congresso di Vienna che durò dall’ 1 novembre 1814 all’8 giugno 1815 (curiosità: il congresso di Vienna abolì la tratta degli schiavi).

Gioacchino Murat cercò di ritornare da Rodi Garganico (dove s’era rifugiato) a Napoli con un pugno di fedelissimi per sollevarne la popolazione, ma il destino crudele volle che la sua nave dirottasse, a causa di una tempesta, in quella terra ostile che era la Calabria: fu arrestato e fatto fucilare nel Castello di Pizzo Calabro nell’ottobre del 1815 da un tribunale militare (oggi il castello porta il suo nome).

I titoli: Re Ferdinando IV (per il Regno di Napoli) e re Ferdinando III (per il Regno di Sicilia) diventarono un unico titolo re Ferdinando I, nasceva sotto la sua guida illuminata il Regno delle due Sicilie: era l’8 dicembre del 1816. […]

Ferdinando I di Borbone è stato re di Napoli dal 1759 al 1799, dal 1799 al 1806 e dal 1815 al 1816 con il nome di Ferdinando IV di Napoli, nonché re di Sicilia dal 1759 al 1816 con il nome di Ferdinando III di Sicilia.

Leggendo con interesse i più recenti scritti su Nicola Gualtieri, meglio conosciuto come “Brigante Panedigrano”, sono stata colpita dai molti e qualificati interventi e dalla ricchezza delle fonti archivistiche citate[1].

Ripercorrendo a ritroso la diffusa letteratura (negli anni apprezzato dalla propaganda filoborbonica e vilipeso da quella giacobine), mi sono soffermata su un interrogativo posto da Umberto Caldora, storico del Mezzogiorno, a proposito di alcune lettere di Maria Carolina d’Asburgo, regina di Napoli, indirizzate proprio al famoso Brigante.[2]

Partendo da questo interrogativo, è stata dalla sottoscritta avviata una ricerca tra fondi manoscritti della Biblioteca Nazionale di Firenze, ricerca che poi si è rivelata lunga e complessa ma che ha ripagato con il ritrovamento di cinque lettere della regina di Napoli al Panedigrano.[3]

Le lettere datate 19 maggio e 22 luglio 1806, 1 aprile, 19 luglio e 14 dicembre 1807, sono indirizzate quattro al brigante ed una al figlio Gennaro. Di esse, si pubblicano ampi stralci, per la prima volta in questo articolo.

La vicenda umana e militare di Don Nicola Gualtieri, detto Panedigrano, che alla causa borbonica immolò la vita di due figli, va collocata all’interno delle infelici condizioni in cui versava la Calabria tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento: una terra dove i baroni ed il clero detenevano un potere pervicacemente incontrastato e dove più esteso e più feudale era il latifondo.

Era nato in Conflenti, nel 1753, da una modestissima famiglia che lavorava una porzione di terreni di un signorotto del luogo, Don Ciccio Calabria. Si racconta che, volendosi egli affrancare dal duro lavoro a cui la famiglia lo aveva destinato, avesse imparato il mestiere del sarto. Ma la sua vita subì una svolta decisiva quando la sorella rimase vittima di un abuso. Il giovane Gualtieri si vendicò uccidendo lo stupratore e quindi si diede alla macchia. Dopo qualche anno in cui si rese colpevole di diversi omicidi e rapine, fu catturato e rinchiuso in carcere, da dove riuscì ad evadere, continuando a vivere nelle foreste del Reventino, protetto dalla gente del posto.

Nel 1798, approfittando del decreto emesso dal re Ferdinando IV che concedeva l’indulto a coloro che si fossero arruolati per liberare Roma dai Francesi, Nicola Gualtieri si arruolò e, per le capacità dimostrate sul campo, ottenne il grado di sergente.

Dopo una prima vittoria, l’esercito borbonico venne sconfitto dal Generale Championnet e i sovrani, e con essi Gualtieri, furono costretti a riparare in Sicilia. Quando poi, l’anno seguente, il cardinale Ruffo decise di organizzare una nuova offensiva contro i francesi, arruolando un esercito di volontari filoborbonici, Panedigrano, che si trovava ancora in Sicilia, si imbarcò immediatamente per la Calabria e giunto in Conflenti, in poco tempo riuscì a formare una nutrita banda formata da contadini, braccianti e noti capibanda. Anche in questa occasione, le capacità militari del sergente Nicola Gualtieri si mostrarono fondamentali nella riconquista dei paesi della Calabria ancora in mano francese. Ottenuti questi successi, seguì subito dopo il cardinale Ruffo e la sua armata della Santa Fede, oltre i confini calabresi, contribuendo alla capitolazione di Altamura ed alla riconquista delle città di Napoli, a metà giugno del 1799. Per aver partecipato con valore a tali imprese, venne ricompensato dai sovrani borbonici con la nomina a Maggiore dei Reali Eserciti e l’assegnazione di una rendita annua di quarantamila ducati, oltre a molti terreni e case. Tornato a Conflenti, divenne un punto di riferimento importante per la comunità e, con la nomina a Sindaco del figlio Gennaro, riuscì a garantirsi un indiscusso potere locale. Il periodo di tranquillità per il Maggiore Gualtieri non durò a lungo. Il 14 febbraio 1806 le truppe francesi occuparono nuovamente Napoli, vanificando così i tentativi disperati della regina Carolina che, pur di salvare il trono, aveva proposto a Napoleone perfino l’abdicazione del pavido consorte Ferdinando in favore del figlio primogenito. Sul trono di Napoli si insediò Giuseppe Bonaparte e il re fu nuovamente costretto a riparare in Sicilia. Le forze borboniche tentarono nuovamente di opporsi alla nuova occupazione francese, ma ai primi di marzo del 1806 subirono una grande sconfitta a Campotenese. Subito dopo, anche diversi territori della Calabria caddero in mani francesi.

Negli stessi giorni in cui Panedigrano scortava i principi reali Francesco e Leopoldo verso la Sicilia, venne catturato e giustiziato il più giovane dei suoi figli, di soli diciotto anni. la notizia della morte del ragazzo arrivò al padre quanto egli era oramai giunto in Sicilia. Immediatamente Panedigrano decise di imbarcarsi per la Calabria con l’intenzione di organizzare una nuova offensiva contro i francesi e vendicare così la tragica morte di suo figlio.

La regina Carolina era grata da tempo al fedele “Don Nicola” e, sicura delle sue capacità, appoggiò senza esitazione la nuova impresa. È del 19 maggio 1806 la missiva che di suo pugno la sovrana invia a Panedigrano, evidentemente perché si accordi con l’ammiraglio Sidney Smith in vista dello sbarco in Calabria: “Vi mando una lettera del buon Principe ereditario che tanto vi protegge, per portarla all’Ammiraglio inglese e nella quale vi raccomanda a lui. Continuate con zelo, fedeltà e contate sulla mia gratitudine. Carolina.”

Il 30 giugno Don Nicola sbarcò a Sant’Eufemia e da qui raggiunse subito Conflenti, dove il figlio Gennaro aveva già radunato una nutrita banda di volontari, chiamata Banda della Regina, in onore della sovrana Maria Carolina.

La prima vittoria contro i francesi venne riportata nella battaglia di Maida del 4 luglio, con il contributo fondamentale dei volontari, capeggiati da Panedigrano. Il 10 luglio il Maggiore don Nicola liberò Cosenza e decise quindi di proseguire per Catanzaro, alla testa di un vero e proprio esercito do volontari accorsi proprio per unirsi a lui.

I suoi successi non potevano non fare esultare la regina la quale, si racconta, fosse accecata dall’odio verso i giacobini francesi anche per l’uccisione della sorella Maria Antonietta di Francia.

“Don Nicola Gualtieri, così scrive Maria Carolina, siamo molto contenti delli servizi che rendete e dello zelo ed attaccamento con il quale agite, procurate sempre più farvi onore, di qual cosa non dubito, anzi ne siamo certo. Seguitate tuttavia a non farmi mancare delle notizie sempre che potete, giacché le ricevo sempre con sommo piacere. E credetemi sempre la vostra grata e Buona Padrona Carolina. Continuate coll vostro zelo ed attaccamento e non vi lasciate sgomentare dalle difficoltà. Cercherò tutte a dileguarle. Continuatemi le vostre nuove animate li bravi calabresi a restare nostri fedeli sudditi che le riguarderemo come ben amati figli ed contate sempre sulla mia costante Protezione.”

Entrato trionfante nelle città di Catanzaro, liberò via via tutta la Calabria e predisponendosi nel frattempo a dirigersi verso Napoli. Fu invece fermato dalla forte reazione dei francesi capitanati dal generale Massena e costretto di nuovo a riparare in Sicilia. Da qui si reimbarcò ai primi di gennaio 1807, tentando più volte di portare soccorso all’altro figlio, assediato dalle truppe francesi entro le mura di Amantea. Ma i suoi tentativi risultarono vani, anche per il mancato sostegno degli inglesi che nel frattempo si erano ritirati. Il 22 gennaio 1807, Panedigrano perse anche l’altro figlio, Paolo, perito anche lui per mano dei francesi. Il 7 febbraio, Amantea si arrese ai francesi.

Panedigrano, sempre convinto di poter sconfiggere gli odiati francesi continuava ad invocare massicci aiuti alla sovrana, la quale con la lettera del 1 aprile 1807 lo rassicura promettendogli di mandare tutti gli aiuti di cui abbisogna.

 Palmira Panedigrano

fonte

blog.associazioneeuropalibera

 

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[1] In particolare dagli studi di Vincenzo Villella: “I Briganti del Reventino, Panedigrano e le insorgenze antifrancesi in Calabria 1799-1814, Soveria Mannelli 2006 – “Il Brigante coccolato alla corte del Borbone” in Calabria a.XXIX n174 (luglio 2001) pp.48/53 – “L’incredibile storia di Panedigrano, da guardiano di porci a Brigante e poi confidente della regina Carolina” in Città, a.IV n.5 (1989) pp. 50/52 – “Panedigrano, il Brigante amico della regina Carolina” in Calabria Sconosciuta a.XI n.41 (1988) pp.81/85 – “L’Albero della Libertà: sanfedismo ed occupazione francese attraverso la storia del Brigante Panedigrano” Lamezia Terme, La Modernissima 1987. “La Calabria della rassegnazione”, Lamezia Terme, La Modernissima, 1986. Inoltre dal più recente contributo di Francesco Manfredi “Nicola Gualtieri, detto Panedigrano: storia della rivolta antinapoleonica nella Calabria dei Borboni”, Soveria Mannelli, Calabria Letteraria, 2007.
[2] Il Caldora, in una nota a pag.435 del suo volume Calabria Napoleonica 1806-191815, pubblicato nel 1960 , faceva osservare che le lettere della regina di Napoli e del Brigante Calabrese, menzionate dal F. Bevilacqua nell’opuscolo Maria Carolina regina di Napoli. Alcune sue lettere autografe al bandito calabrese Panedigrano. Vicende dal 1797 al al 1919” Perugia, Tip. Boncompagni e C., s. d., avevano date diverse e precisamente: 19.5 22.7.1806 e 1.4 e 14.2.1807, da quelle pubblicate da F.Guardione in uno scritto intitolato Maria Cristina d’Austria e la politica inglese in Sicilia, Acireale 1807, datate queste ultime 11 maggio, 30 luglio, 20 agosto, 11 ottobre 1807. Nell stessa nota, Caldora smentiva anche E. Borrello, che nel volume Martirano, Monografia Storica”, Milano 1958, asseriva di aver pubblicato cinque lettere inedite di Maria Carolina, dimostrando come le stesse erano state già pubblicate da F. Guardione nel citato articolo. Infine, il Caldora, osservando che l’articolo del Bevilacqua (conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze con segnatura Misc.8079/6) non riportava il testo delle lettere, si domandava: “Sono le stesse pubblicate dal Gaurdione e dal Borriello ma con date confuse, ovvero sono altre? Noi non lo abbiamo potuto accertare.” Con il ritrovamento delle cinque lettere negli archivi della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, si è potuto accertare che queste sono le stesse citate da Borriello e mai prima d’ora pubblicate, ponendo fine alla conclusione che si era protratta fino agli studi più recenti (si veda anche Vincenzo Villella “I Briganti del Reventino: Panedigrano e le insorgenze antifrancesi in Calabria 1799-1814, Soveria Mannelli 2006 – nota a pag. 100)
[3] La notizia della presenza di queste leggere nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze era comparsa sul “Bollettino delle pubblicazioni italiane ricevute per diritto di stampa” del giugno 1908 (num. 90pagg.XXII). in esso si leggeva che erano pervenute in Biblioteca come dono del bibliofilo Diomede Buonamici. La ricerca eseguita nei fondi manoscritti entro cui si poteva supporre la loro collocazione (Nuove accessioni e cataloghi vari) non aveva dato risultati. Solo una lunga e capillare ricerca tra le numerosissime raccolte di manoscritti da ordinare presenti nell’istituto le ha fatto venire alla luce. Si trovavano erroneamente collocate (probabilmente durante il trasloco della Biblioteca dalla vecchia sede degli Uffizi a quella attuale), avvenuto negli anni ’30 del novecento) in appendice ad una raccolta di manoscritti che non aveva nessuna attinenza con l’argomento delle lettere. La definitiva collocazione delle stesse è adesso: Carteggi vari 495.87.

 

 

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