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Canova e l’Antico, appunti a fine mostra

Posted by on Lug 5, 2019

Canova e l’Antico, appunti a fine mostra

Nessuna proroga. Il 30 giugno la mostra Canova e l’Antico, al Museo Archeologico di Napoli, ha chiuso. Si era aperta il 28 marzo scorso con grande battage pubblicitario e gli interventi d’importanti esponenti politici e istituzionali. È stata una mostra copiosa e costosa, arricchita dalle opere canoviane dell’Ermitage di Pietroburgo. Perché Canova fu ammirato e amato anche dalla Russia zarista e dalla sua zarina Caterina. In verità, lui fu ammirato e richiesto da tutti i potenti dell’epoca sua. Ora, a mostra conclusa, ci si presentano vari interrogativi e alcune certezze. Antonio Canova fu senza dubbio un importante esponente del Neoclassicismo. Quell’arte che, etimologicamente, significa un nuovo (neo) classicismo, cioè ritorno a quell’arte antica che è stata considerata dai critici di prima classe. In proposito possiamo osservare che, quando un forte potere “centralistico”, quello di un impero o di uno stato, tende ad affermarsi, promuove, generalmente, l’imitazione di quell’arte detta classica, che fu una delle espressioni dell’antica egemonica Atene e della Roma imperiale. Un’imitazione che fu adottata poi, appunto dalla Russia zarista e comunista come dal nazismo e dal fascismo. Perché il classicismo, con il suo rifarsi all’antichità (più romana che greca), con la sua vetustà, dona ai vari regimi un’allure di razionalità, d’imponenza e di sicurezza che ne rafforza la legittimità. Questa mostra all’Archeologico Napoletano prevede forse che vi sarà un ritorno al classicismo quale espressione di un Potere centralistico? Un ritorno impossibile, sebbene sempre più chiaramente si vada delineando l’affermazione di un centralismo globale, con la complicità della debolezza confusionaria dei poteri intermedi, tipo l’Europa. Perché il Neoclassicismo fu, come si sa, di matrice greco-romana e aveva dei principi, un’arkè, che coinvolgeva quei popoli, europei e americani, che da quella cultura erano stati formati. Possiamo anche notare che il Neoclassicismo si poté affermare dappertutto, non rappresentando specifiche realtà. Si può anzi dire che l’estetica neoclassica, programmaticamente, non tende a rappresentare la bellezza delle cose reali, né a cercarla nelle cose reali ma tende a inventare una bellezza astratta, da realizzare servendosi di queste.

Gli anni in cui visse Antonio Canova (1757/1822) furono quelli della Révolution, poi di Napoleone e infine del ritorno degli Stati nazionali. E fu un’epoca che poneva nella polvere quelli che aveva prima messi sull’altare e viceversa. Canova visse e si adeguò molto flessibilmente a questi mutamenti politici. Esempio ne è la statua di Ferdinando IV re di Napoli (III di Sicilia e poi, dal 1815, Primo Re delle Due Sicilie), che Canova, mentre la stava realizzando, tralasciò, a causa dell’affermazione dei Napoleonidi, e che completò soltanto dopo che questi furono eliminati. Cosicché finalmente la scultura di Re Ferdinando potette essere sistemata sulla scalinata del Museo Archeologico Borbonico, dove ancora si trova. Forse questa sua duttilità aiutò Canova a fare carriera. E certo è straordinario come un modesto ragazzotto di Possagno, partito da questo piccolo paese del trevigiano, sia stato in grado di conquistare i personaggi più importanti dell’epoca sua. Rappresentò in pieno l’estetica classicista, tanto da potersi definire alunno degli antichi e maestro dei suoi contemporanei. Molti lo imitarono. Perché il Neoclassicismo incontrava il gusto della società dell’epoca. Quella particolare limitata società, s’intende, fatta di nobili in decadenza e rampanti parvenus. Canova operava secondo un metodo che via via rese sempre più preciso. Dal modellino di creta fatto di sua mano, gli aiutanti ne ricavavano, ingrandito, il modello in gesso e da questo la scultura in marmo, rifinita, poi, dal Maestro. Una tecnica lenta, che si avvaleva di precise misurazioni numeriche, una concezione dell’arte come tecné, come tecnica. Poi, lentamente, l’ammirazione per lo stile canoviano si mutò in insofferenza e si criticò la freddezza, l’astrazione della sua arte, mentre si affermava, in una società diversamente e più ampiamente formata, la libertà della visione, l’espressione vitale del sentimento e dell’inconscio. Allora Canova fu considerato falso e retorico. Ma sincero fu in lui l’amore per l’antico, che conobbe soprattutto a Roma, a Napoli, a Paestum e nei Campi Flegrei.

E può sembrare acconcio il giudizio che di lui diede Stendhal. “Quel grande che a vent’anni non conosceva ancora l’ortografia ha creato cento statue, trenta delle quali sono capolavori”. Cioè più dei due terzi dei suoi lavori non sono nulla di eccezionale ma i restanti, meno di un terzo, sono da ammirare. Nella recente mostra napoletana il curatore, Giuseppe Pavanelli, con molta accortezza aveva posto le opere provenienti dal museo di Possagno, che, in verità, sono le meno suggestive, nell’atrio dell’Archeologico, dove erano a paragone con quelle copie romane di uomini importanti che risentono di una monotona accentuata schematizzazione. A bassa voce, possiamo anche osservare che alcune di queste opere canoviane rasentavano la goffaggine. “No good, no good!” esclamava una visitatrice della mostra al loro cospetto e, preferendo le opere antiche, si indirizzava verso le meravigliose antiche sculture contenute nell’attigua Sala del Toro Farnese. Le quali hanno una vitalità derivante dall’attenzione, il rispetto e l’esaltazione della natura e della realtà umana. Così le copie dipinte dal Canova, tempere su carta, delle danzatrici vesuviane, in mostra sulla parete di fronte all’originale, dimostravano la diversità e la modestia della loro concezione. Le danzatrici antiche danzano liberamente nel vasto e libero spazio indefinito della parete colorata. Quelle canoviane si mettono in posa orizzontalmente come su un palcoscenico. Ma certo destavano la dovuta ammirazione per la raggiunta bellezza alcune sculture di Canova, in genere provenienti dall’Ermitage, collocate nella Sala della Meridiana. Come la “danzatrice con le mani sui fianchi”, “Eros e Psiche”, e le famosissime “Tre Grazie”. Eppure qualcuno ha trovato da ridire sulla figura di Eros, che non avrebbe l’altezza fisica e alcun attributo tradizionalmente maschile che ne giustifichi la presenza. E criticate sono state finanche le “Tre Grazie”, non per la bellezza indiscutibile della loro composizione ma per – come dire?- il loro contenuto, lontano da quello dell’originale greco. Le Tre Grazie, infatti, sono un soggetto molto spesso trattato nell’antichità, che le ritrasse quali ragazze eleganti nella loro castigata e attraente bellezza, che hanno tra loro legami formalmente estetici. Mentre le Grazie canoviane sono accostate l’una all’altra in un abbraccio e sono state viste da alcuni come lesbiche impudiche. Forse questo perché, senza battage pubblicitario, la visione di un’opera d’arte diventa più sincera. Ma sarà la più vera?

Adriana Dragoni

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