Ci sono piatti che si possono mangiare solo in un posto, e non in altri. Perché, alla faccia della globalizzazione, solo là si può trovare quel certo ingrediente, insomma la sensibilità, ilterroirnecessario.
Il sartù di riso napoletano è una vera e propria prelibatezza, una ricetta che nasce con l’intento di fare accettare il riso a questo popolo così dedito a pasta, pane e patate. Venne importato dagli Aragonesi nel XIV secolo, ma non piaceva molto. Soltanto i medici lo apprezzavano, dandolo come ricetta in bianco alle persone con problemi intestinali. Fu Maria Carolina D’Austria a volerlo introdurre nella cucina reale. Suo marito, re Ferdinando I di Borbone, non accettava però le ricette proposte dai francesi, e chiamò i cuochi napoletani a raccolta per trovare gli ingredienti adatti a renderlo accettabile. Ebbene, ci riuscirono.
Sartù di riso napoletano
Ingredienti x 12
tracchiulelle 600 g
prosciutto crudo 300 g
muscolo di manzo 300 g
salsicce 5
braciole legate con spago 3 (farcite con pinoli, uva sultanina, parmigiano, aglio tritato, basilico, sale, pepe)
basilico fresco 1 fascetto
concentrato di pomodoro 150 g
pomodori pelati 3 kg
olio evo 40 cl
vino rosso secco 25 cl
cipolle ramate 2
sale
polpettine fritte (500 g di carne tritata)
riso carnaroli 1 kg
carne tritata 400 g
provola 300 g
fior di latte 300 g
parmigiano 100 g
piselli 300 g
uova 2
cervellatine 250 g
brodetto di ragù 2 l
cipollina 1
olio 1\2 bicchiere
vino bianco 1 bicchiere
sale doppio
burro
pangrattato
Preparazione
Oggi vedremo la ricetta del sartù di riso di Carmela Abbate del ristorante Zi Teresa. Cominciamo preparando il ragù. In una pentola capiente mettete l’olio con la cipolla e fatelo riscaldare, aggiungete tutta la carne (a parte quella tritata) e fatela rosolare a fuoco lento su tutti i lati. Quando tutto sarà ben dorato e il profumo diventa invitante è in quel momento che si alza la fiamma e si sfuma con il vino. Quando sarà ben evaporato abbassate la fiamma e fate cuocere ancora per 8 minuti, finché si creerà sul fondo della pentola una cremina. Aggiungete il concentrato di pomodoro e fate cuocere 4 minuti per poi aggiungere i pelati passati un po’ per volta nel giro di 10 minuti. Aspettate che incominci a bollire, abbassate ancora di più la fiamma, girate lentamente con un cucchiaio di legno almeno ogni 30 minuti, aggiungete il sale e dopo due ore togliete la carne e tenetela da parte.
Andate avanti così almeno per altre 7/ 8 ore, senza mai dimenticarvi di girare ogni tanto. Trascorso il tempo, in una padella fate soffriggere la cipollina con l’olio a fuoco basso, aggiungete il riso e tostatelo. Sfumate con vino bianco, aggiungete 2 mestoli di ragù e girate unendo mano mano il brodetto di ragù. Da parte saltate i piselli in padella, salate il riso dopo 5 minuti dalla cottura e aggiungete i piselli. Cospargete la teglia con burro e pangrattato, versate la metà del riso, quindi un mestolo di ragù, polpettine, fior di latte e provola, uova sode affettato, tutto a metà. Unite l’altra metà del riso e terminate gli ingredienti. Chiudete con il riso rimasto, parmigiano, pangrattato, burro, basilico. Fate cuocere a 140 gradi per 1 ora. Il sartù è pronto.
Come medicina lo troviamo citato in «Inventario di droghe ed altri utensili che esistono nella spizeria dell’illustrissimo signor barone Giofilo, fatto oggi 9 agosto 1769» a Mesagne. Cfr : http://www.alceosalentino.it/zafferano-il-sapore-giallo a cura di Nunzia Maria Ditonno, Santina Lamusta.
(Oria, 18 gennaio 1736 – Napoli, 11 novembre 1836) è stato un cuoco, filosofo e letterato italiano. Uomo di grande cultura, fu soprattutto grande gastronomo e uno dei maggiori cuochi che si distinsero tra il ‘700 e l’800 nelle corti nobiliari di Napoli, simbolo del suo tempo nella variegata realtà partenopea, fu una vera e propria “star dei fornelli” delle mense aristocratiche.
All’inizio del terzo millennio iniziò un’attenzione collettiva sul recupero della campagna identitaria e dei prodotti agro-alimentari autoctoni di ogni territorio della penisola italica che certamente è stata uno delle tante mode nate per scopi economici ben precisi, ma utile per il recupero di ricchezze che sarebbero andate perdute dando un impulso alle attività imprenditoriali agricole che sono nate in quel periodo. Catturato, anche io, da questa voglia di riscoprire prodotti e sapori che mi ricordavano l’infanzia, attraverso il web cominciai a scavare nell’immenso panorama dei prodotti agro-alimentari della Terra di Lavoro fino a quando arrivò il momento di ritrovare il famoso maialino nero casertano“chigl co gli scioccagli” e scoprire l’azienda agricola di Giuseppe D’Andrea sita a Caianello ai confini con Teano. Dopo un primo contatto telefonico arrivai in azienda e trovai allevamenti di bestiame rigorosamente autoctoni a vista d’uomo nel massimo della trasparenza collegati direttamente alla macelleria, proprio come si faceva una volta, e con la presenza di una fattoria didattica adibita per accogliere le scolaresche del territorio. Giuseppe mi appare con tutta la sua imponenza e salutandomi con un sorriso intenso, mi presenta alla sua gentile consorte, Stefania, per poi accompagnarmi con orgoglio a visitare la sua azienda, facendomi vedere come l’aveva organizzata e come vivevano gli animali nelle sue stalle nel pieno rispetto delle norme vigenti che regolamentano gli allevamenti non industriali. Mi fa vedere le sue produzioni agricole che grazie alla ricchezza del nostro territorio sono presenti in tutte le stagioni, se i Romani la chiamavano Campania Felix forse un motivo c’è, e dopo aver assaggiato la succolenta carne del maialino casertano nasce un legame che andava al di la semplice rapporto tra contadino e consumatore. Un’azienda a conduzione familiare nel pieno rispetto della tradizione dove tutti, dagli anziani genitori fino alle sue quattro figlie, hanno un ruolo per mandare avanti l’attività che come ben sappiamo ti da grande soddisfazioni ma sempre al costo di grandi fatiche nonostante oggi si usano attrezzi agricoli e non più le sole braccia. Mi ha fatto riscoprire “le sausicce di maialino nero sott ’a nsogna”, “’a vetresca”, ma altresì formaggi stagionati, prosciutti sempre del suino “con gli scioccagli” e la bontà del culatello che “po i annanz ‘ O RRE”. Per anni ho acquistato le “butteglie re pummarole” e quando decise di non produrle più per gli altri per non farmi rimanere senza, quell’anno mi fece una grande cortesia dandomi un numero consistente della sua produzione familiare. Grande onore mi diede quando invitò mia moglie Cinzia e il sottoscritto alla festa dei suoi 50 anni in una bellissima sera d’estate insieme alla sua famiglia e ai suoi amici più cari, come quando organizzammo una cena a tema al Ristorante Pepenero di Pino Persechinopresentando il Maialino Nero Casertanoe, in perfetto stile aristocratico tipico dei contadini del Regno Napoletano, fece una disquisizione tecnica con tale competenza e passione che alla fine chi pensava di scansare il prezioso “grasso” del suino laborino lo ha mangiato con gusto e piacere rimanendone folgorato. Ogni anno ha sempre omaggiato, con la sua presenza e con la sua azienda, il Premio Terra Laboris donando suoi prodotti ai vincitori contribuendo a dare lustro e nobiltà alla manifestazione. Purtroppo come alcune volte accade in questa nostra vita terrena, il circolo virtuoso della nostra esistenza si può interrompere come è accaduto aGiuseppeche aggredito dalla “brutta bestia” dopo pochi mesi di sofferenza e lotta ci ha lasciato per tornare alla casa di Nostro Signore che per un disegno a noi misterioso ha deciso di volerlo a se anzitempo. Giuseppe in questi drammatici mesi non ha mai perso la sua vitalità, la sua forza leonina affrontando la “brutta bestia” con grande forza e a testa alta. Giuseppe per come ha vissuto e per come ci ha lasciato è ancora qui in mezzo a noi e non andrà mai via, ci ha lasciato una eredità pesante tipica di uomini che hanno vissuto nell’onestà, nella lealtà, nel rispetto del prossimo, della vita e di Dio ma soprattutto ci ha donato cinque perle, cinque donne meravigliose Stefania la sua gentile donna, e le sue quattro figlie Cecilia, Daniela, Marianna e Giulia. Per quanto mi riguarda Giuseppe lo immagino vicino a Sant’Antuonoche insieme ai loro maialini vanno a spasso per i giardini fioriti del Paradiso e con umiltà gli chiedo di non abbandonarci e di pregare per noi comuni mortali perchè ne abbiamo tutti bisogno soprattutto in quest’epoca molto tormentata, ti abbraccio Giuseppe e grazie per tutto