Se vogliamo inquadrare un periodo simbolo per la fine del Brigantaggio Insorgente che ha avuto inizio nel 1799, per quanto riguarda il Regno Delle Due Sicilie, certamente bisogna legarlo all’agosto e all’ottobre del 1870 quando furono ammazzati Domenico Fuoco e Antonio Cozzolino detto Pilone.
Su Domenico Fuoco, che secondo il mio modesto parere, è l’unico che ha delle somiglianze con il numero 1, Michele Arcangelo Pezza alias Fra Diavolo, e se Alfredo Saccoccio è il numero 1 come ricercatore e narratore del mito Itrano certamente il più importante ricercatore e narratore di Domenico Fuoco è Maurizio Zambardi, tutti e 4 sono nati in alta Terra di Lavoro e mi fa piacere ricordarlo.
Sabato in quel di San Pietro Infine, che ha dato i natali sia a Fuoco che a Zambardi, è stato presentato l’ultima fatica di Maurizio sul suo più celebre concittadino, IL CAPOBRIGANTE DOMENICO FUOCO TRA STORIA E LEGGENDA, che ha visto la partecipazione di un folto pubblico con la presenza, sia tra i relatori che tra gli ospiti, di personalità di enorme spessore provenienti dall’alta Terra di Lavoro. Di seguito il video integrale di tutto il convegno
La musica nasce dal dolore e talvolta tocca pure il cuore di chi lo provoca. Pensate agli schiavi neri dei campi di cotone in Louisiana: dal loro patire sorsero gli spirituals; e da quelli, quasi tutto il resto. Sul quale, però, c’è qualcosa che ci riguarda. «Gli Stati Uniti dopo aver acquistato la Louisiana dalla Francia (nel 1803; nel 1812 divenne il diciottesimo Stato dell’Unione; N.d.A.) offrirono la terra gratis ai coloni. E molti si mossero dall’Italia. Ancora oggi, la più antica salsamenteria siciliana d’America è a New Orleans» racconta Renzo Arbore, che sulla città e la sua musica ha girato un sorprendente film-documento di un’ora e mezzo, per la regia di Riccardo Di Blasi. Fra il 1850 e il 1870, a New Orleans c’erano più cittadini nati in Italia, che in qualsiasi altra città degli Stati Uniti: con l’abolizione della schiavitù in America e l’estrema miseria a cui, dopo l’Unità d’Italia, fu ridotto il nostro Sud, arrivarono tanti meridionali, specie siciliani; presero il posto dei neri, nei campi di cotone: il rango di schiavo volontario era divenuto preferibile a quello di libero cittadino meridionale d’Italia. Quei contadini introdussero ed estesero coltivazioni specializzate, come le fragole, generarono ricchezza. Non fu l’unico campo in cui si fecero valere. «C’era una nave che faceva la spola fra Sicilia e New Orleans» narra Arbore «e quale che fosse, di volta in volta, il suo nome, la chiamavano Nave-Palermo: dall’isola portava agrumi ed emigranti; dall’America, cotone. Su quel bastimento salirono pure tanti musicisti; molti di Salaparuta.» Erano bandisti, avevano da raccontare, con la propria, la fuga e la disperazione di un popolo che non si era mai mosso dalla sua isola, e fu ridotto in condizioni tali, dopo il 1860, che un siciliano su tre se ne andò. A New Orleans incontrarono altri musicanti, nati lì da genitori italiani. La città era feroce con i nostri connazionali: «Gli individui più abietti, più pigri, più depravati, più violenti e più indegni che esistano al mondo. Peggiori dei negri, più indesiderabili dei polacchi» secondo il sindaco. La più seria crisi diplomatica di sempre, fra Stati Uniti e Italia, durata anni, con il ritiro del nostro ambasciatore, si ebbe allora, per il linciaggio di undici connazionali, avvenuto in carcere, a opera di migliaia di “onesti” e impuniti cittadini, delusi per l’assoluzione degl’italiani accusati dell’uccisione dello sceriffo (amico e forse qualcosa più, di mafiosi siciliani tesi alla conquista del controllo delle operazioni di carico e scarico nel porto). E quei nostri musicanti, quasi tutti siciliani, considerati come i neri, come i neri suonavano e i neri sfidavano, nella mitica Congo Square. E fu così che, improvvisando, improvvisando, inventarono il jazz. «Avevano nomi… pensa, c’era pure un Riina» mi dice Arbore «e Leon Rappolo, Salvatore Sbarbaro, Frank Signorelli, Tony Massaro, Louis Prima (quello di Bonasera, segnorina, bonasera…), Peter Rugolo. Si facevano chiamare, magari, e bada che non vado in ordine cronologico, Eddie Lang o Tony Scott, al secolo Antonio Sciacca, o Jack “Papa” Laine, ovvero George Vitale. Il primo al mondo a usare la chitarra per il jazz fu Salvatore Massaro, di origine molisana; con lui capitò, chissà come, uno di Bergamo, Joe Venuti: fu il primo violinista jazz. Ho avuto il piacere di suonare con lui. Erano tanti, una settantina e anche più, in band diverse. Ma il più famoso fuNick La Rocca, trombettista e cornettista geniale, dal difficile carattere, leader della Original Dixieland Jass (solo in seguito divenne Jazz, per impedire, pare, con ass, “culo”, sconci giochi di parole) Band. Il primo disco jazz della storia è suo: facciata A Livery Stable Blues, facciata B Dixieland Jass Band; è suo Tiger Rag, un classico. Gli Stati Uniti hanno sottaciuto l’apporto italiano alla nascita del jazz, per far risaltare di più il proprio. E qualcuno si stupisce, quando sente dire che il jazz italiano è ancora oggi il primo o il secondo del mondo. Per forza, sono stati loro a inventarlo, con i neri di Congo Square, a New Orleans!» Renzo ha ricostruito l’epopea di quei nostri musicisti emigrati e ripercorso i luoghi della loro impresa, da studioso del tema (e praticante con la sua Orchestra Italiana) e da pellegrino identitario; in Italia non li conosce quasi nessuno, ma nel cimitero di New Orleans le tombe dei terroni che fecero il jazz sono onorate. «Lo stesso Louis Armstrong, nella sua biografia, scrive che uno dei modelli a cui si ispirò, per diventare il Grande Satchmo, fu Nick La Rocca» ricorda Arbore. Di quei disperati che (specie dopo il 1870) fuggivano da un Sud reso invivibile dalla violenza con cui fu trattato, l’Italia sembra non voglia sapere nemmeno i successi. Immaginate cosa farebbero i francesi (e ce n’erano che suonavano a Congo Square), se il jazz avesse avuto padri marsigliesi o bretoni. Ma pure questo, nel generale moto di recupero della propria storia, viene riscoperto e rivalutato. A Salaparuta, da dove mossero molti di quei musicisti, ogni anno, organizzano una festa-concerto. «Il figlio di Nick La Rocca, 70 anni, trombettista, è degno di cotanto padre» assicura Arbore «e io vado a suonare con lui.» Renzo ama proporsi come uno scanzonato adolescente a vita, ma lo avete capito tutti che non è così, vero? La storia del suo paese e del Sud la conosce bene, ne cerca le eccellenze. E si è fatto ambasciatore della musica che nacque da quei meridionali costretti a emigrare: dal primo jazz dei neri di Sicilia, alle melodie dei napoletani sradicati («Ma i due italiani più amati degli Stati Uniti erano pugliesi: Rodolfo Valentino, di Castellaneta, Taranto, e Fiorello La Guardia, di Foggia, primo sindaco italiano di New York, figlio del direttore della banda dell’Aeronautica, originario di Cerignola. Fu lui a finanziare la costruzione dell’ospedale di San Giovanni Rotondo, voluto da padre Pio. Con i soldi dei fedeli americani, dissero. Ma, allora, del frate con le stimmate, non sapevamo niente noi, a Foggia, figurati a New York. Poi venne fuori che l’ospedale avrebbe dovuto servire ai militari della nato e degli Stati Uniti, in caso di guerra con l’Unione Sovietica: il più importante aeroporto militare intercontinentale, Amendola, è a soli 10 chilometri da San Giovanni Rotondo.»). C’è un dettaglio che sembra fatto apposta per collegare l’esperienza canora partenopea di quegli anni a quella, distantissima, dei siciliani di New Orleans. «Il jazz» spiega Renzo «nasce per evoluzione degli spirituals, dei gospel, ma la sua fonte primaria furono i calls, i richiami “di lavoro” cantati nei campi di cotone. Come quelli degli acquaioli, a Napoli, per dire, dei venditori d’acqua (’a fronn’e limone) e non solo. Le elaborazioni di quei richiami potevano portare, e lo fecero, a risultati impensabili. Il personalissimo stile di Sergio Bruni, per esempio, derivava da quelli.» In particolare, a partorire il genere e la tecnica era «la vierola,» spiega Citarella «che è la modulazione di chiusura dei richiami degli ambulanti. A fare i pignoli, trattasi della “espressione declinante del vibrato”». Capito, sì? Gli acquaioli a Napoli e i neri in Louisiana. Fra i valori persi dal nostro Paese con la diaspora dei meridionali, metteteci pure questo. Anche se la musica nasce con un passaporto, ma diventa apolide, di tutti. «Un pugliese, di nome Eugenio, emigrò a Nizza. Faceva un lavoro poverissimo: raccattava e legava fascine al mercato dei fiori. Ma era un grande suonatore di mandolino; e nel 1886 fondò un’orchestra di mandolini. Ancora oggi, a Nizza, c’è la più grande scuola per mandolinisti: ce ne sono circa 150.000, nel solo quadrilatero Nizza-Arles-Marsiglia-Bordeaux» narra Citarella, in partenza per un concerto, proprio lì.
Nel campo delle scienze positive sono
state avanzate diverse ipotesi aventi per oggetto d’indagine il mondo fisico.
Tali ipotesi, verificate nel tempo, hanno portato alla formulazione di leggi e
principi, come il così detto effetto
farfalla ( che ha studiato l’intima connessione fra tutti i fenomeni di un
sistema ) e il principio di Huygens (che
ha avuto per oggetto il fenomeno della propagazione delle onde ), i quali hanno
dimostrato che una perturbazione prodotta in un qualunque punto dello spazio
produce effetti fin nelle sue parti più estreme. Contemporaneamente l’ effetto Kirlian ( relativo all’aura che
contorna i corpi ) e le leggi di Planck,
Wien e Stefan – Boltzmann ( relative all’emissione di raggi infrarossi da parte
di corpi ed oggetti ) hanno dimostrato che, anche abbandonando progressivamente
un determinato punto dello spazio, una nostra traccia – più o meno visibile a
seconda del calore del corpo e della relativa lunghezza d’onda – rimane per un
certo tempo nello spazio proprio a testimoniare il nostro passaggio. I dati
emergenti da questi fenomeni, da queste leggi portano a vedere una grande
analogia tra essi e quel tenace ma invisibile filo che lega fra loro i vari momenti
della storia ( anch’essa – in ultima analisi – prodotto di corpi in movimento ),
in modo che un qualsiasi momento è la naturale conseguenza di quello che l’ha
preceduto, ed esso stesso, a sua volta, costituirà l’ antecedente del momento
successivo. Sicché, proprio come per le
leggi e gli effetti appena citati, una qualunque situazione che ci interessa
oggi è la naturale conseguenza di una serie di eventi verificatisi anche molto tempo addietro,
ovvero “ La storia non è cosa passata, ma
è il passato che raggiunge in modo vivo il presente”[1].
E’ indubbio, pertanto, che la situazione che viviamo oggi è la diretta conseguenza
di tutti i momenti storici precedenti, e conseguentemente è indubbio che la
frenesia che assalì i liberali nel 1860 affonda le proprie radici negli eventi
che nel 1799 interessarono la nostra penisola ; eventi, a loro volta, originati dalla ideologia della precedente “epoca dei lumi”,
e così via. Noi, dovendo non senza
timore esprimere una timida opinione sul resoconto del Petromasi “Storia della
spedizione dell’Eminentissimo Cardinale D. Fabrizio Ruffo”, prenderemo le mosse dagli eventi del 1799,
dato che costituiscono il momento temporalmente più vicino al tema che
interessa queste righe. La prima cosa
che salta agli occhi dalla lettura del libro è l’obiettività con cui vengono
registrati gli avvenimenti. Un’obiettività che non ha bisogno di alcun
aggettivo per rafforzarne il significato. Ogni pagina del resoconto, infatti, è assimilabile al fotogramma di una
videoregistrazione, per cui, alla fine, tutte le pagine possono essere paragonate ad
una pellicola cinematografica, la quale, però, è priva del sonoro per il
semplice fatto che non ce n’è bisogno. I giudizi espressi col sonoro per
accompagnare le varie azioni/fotogrammi, infatti, avrebbero potuto fuorviare lo
spettatore. Allora, proprio per scongiurare tale pericolo, si è fatto ricorso
al sistema del “muto”, in modo che le immagini parlassero da sole, mostrando
azioni che non debbono essere interpretate,
ma solo viste. In tal modo se un “repubblicano”
si comporta correttamente le sue azioni non possono essere equivocate da chi “repubblicano” non è, perché il fotogramma,
volutamente, non consente di essere
frainteso. E così per l’altra parte.
Un tal
modo di registrare la storia fa grande onore all’autore, perché, nonostante
membro della spedizione e cronista degli avvenimenti, è riuscito a non peccare mai di partigianeria. Quando,
infatti, le circostanze richiedevano che ci fosse da fare un apprezzamento per la parte avversa,ciò
è avvenuto puntualmente e senza far ricorso
ad un uso scorretto della lingua, cercando di presentare la cosa in modo che ognuno la potesse vedere come più
gli faceva comodo. La stessa correttezza è stata adottata quando si trattava di
redarguire o criticare comportamenti
della parte “amica”, come nel caso del saccheggio di Crotone : << … Non
deesi in quest ’occasione passare sotto silenzio l’indicibile saccheggiamento
fattovi per parecchi giorni dalle Truppe Calabresi; e tanto meno meritevole,
quanto il popolo s’impegnò, ad onta di qualche ribelle,disserrare la parte
della Città, e rendersi del tutto ubbidiente>>.
Ovviamente se riteniamo il Petromasi degno
di credito quando condanna il comportamento scorretto di alcuni componenti
dell’armata di cui egli stesso fa parte, non possiamo dubitare della sua
sincerità quando invece ha l’occasione di registrare – senza intento
celebrativo – avvenimenti ai quali solo i posteri possono attribuire importanza
per il fatto di avere a disposizione materiale di confronto che permette loro di esprimere giudizi sul succedersi degli avvenimenti
e sul modo in cui sono stati presentati. Per dare poi un’idea della correttezza
di fondo della spedizione ( che non era nata per depredare, ma per
riconquistare ), spedizione di cui il Petromasi è stato spettatore e comprimario,
citiamo qualche riga del suo resoconto. Arrivati a Pizzo (ma questo si verificava in
tutte le città e i paesi che venivano gradualmente riconquistati alla corona),
<<… Si sistemano frattanto i politici
affari di quel Paese, non solo col richiamare al possesso degli stessi Regj
impieghi, chi n’era stato deposto da quel Repubblicano Governo, ma con pubblica
giornaliera udienza si ascolta chiunque dall’Eminentissimo Vicario Generale, ed
ognuno pago rimane di quella giustizia, che gli si comparte. Un tal sistema non
si lasciò di praticarsi per l’intero corso della Campagna, onde le popolazioni
tutte del Regno fossero servite nel miglior modo che si dovea, e poteano
permetterlo le circostanze del tempo>>.
Ora dobbiamo spiegarci perché l’Armata
della Santa Fede ebbe dal popolo un’accoglienza ben diversa da quella delle
truppe francesi . Differenza di comportamento che – non analizzata con la lente
dei pregiudizi ideologici – non può che avere un’unica spiegazione : il favore
e la simpatia di cui godeva l’Armata ; favore e simpatia spontanei originati in
primis dal fatto che i componenti dell’Armata erano quasi tutti di provenienza
popolare e, quindi, con gli stessi problemi
quotidiani ; e poi da considerazioni più dolorose. Infatti gli
atteggiamenti di apparente favore e simpatia verso le truppe francesi possono ascriversi certamente al particolare
momento di disordine ed alla situazione di paura nutrita nei riguardi
dell’esercito invasore, di cui era tristemente noto il “biglietto da visita”
allorquando riusciva ad entrare nelle città vinte : immediata e perentoria
richiesta pecuniaria come tassa di guerra, saccheggi, rapine, violenze, atti
sacrileghi, ad onta delle affermazioni di sostanziale identità tra gli ideali
repubblicani ed i principi del Vangelo, con cui imbonivano le masse. Oltre a
subire violenze di tale natura, le popolazioni delle città occupate dovevano
provvedere anche al sostentamento delle truppe, il cui numero talvolta era
superiore a quello degli abitanti. E sicuramente questa ulteriore violenza non
poteva incontrare il favore delle vittime.
L’altra spedizione, invece : l’Armata del
“Cardinale mostro” – per usare uno degli epiteti con cui lo definì la Pimentel
– (cardinale su cui il distorto modo di “fare storia” ha inventato una nuova
menzogna, sostenendo che, arrivato a
Palmi, il Ruffo si fosse spacciato addirittura per il papa [2])
già dall’inizio si differenzia da quella francese. Il Ruffo, infatti, chiede
insistentemente al re ( senza, però, ottenerlo ) il denaro sufficiente al
mantenimento della truppa per evitare qualunque atto di violenza. Queste le sue
parole : << … denaro indispensabile
se vogliono conservarsi quieti ed affezionati alla buona causa i vassalli di S.
M., i quali altrimenti sarebbero vessati dalla truppa senza che potesse
impedirsi così grave inconveniente>>. Ispirandosi ad una tale
correttezza di fondo, la spedizione non poteva che godere delle simpatie,
dell’appoggio e della più totale solidarietà da parte delle città che man mano
venivano “realizzate”. Non potette evitare, però, il Cardinale che ogni tanto
alcuni gruppi di briganti che, per “ripulirsi la fedina”, si erano aggregati
alla spedizione, si abbandonassero al saccheggio, come avvenne per il Panzanera ( al secolo
Angelo Paonessa ) durante l’assedio di Crotone.
C’è da dire – sempre a difesa del Ruffo,
ma lontano da piaggeria – che la banda del Panzanera ( e stiamo parlando di briganti! )si
limitò unicamente a rubare tutto quello
che le era possibile, risparmiando le persone – e in particolare le donne –
proprio per il timore della giustizia del Cardinale, che era molto rigorosa per
i reati contro le persone. Altro che “Cardinale mostro”, diavolo, Satana o
altro!Questo dovrebbe essere il
vero modo di “fare” storia, conformandosi semplicemente agli accadimenti di cui
si è testimoni e ai quali ci si riferisce, senza decadere nell’ideologia, che,
per far quadrare il tutto secondo la propria visione, mistifica la realtà,
arrivando a creare dei veri e propri miti, che non hanno più nulla a che vedere
con la storia, diventando un coacervo dove
gli indegni divengono eroi e i veri eroi perdono addirittura il diritto
di essere ricordati.
Partendo da queste premesse stupisce
veramente, per dirla col Riccardi, che buona parte della storiografia abbia
definito questa “memorabile impresa … un’azione
barbara e ripugnante”[3]
. E, per ritornare alla mitopoiesi di
protagonisti e momenti storici particolari, si noterà certamente il diverso
modo con cui gli stessi storiografi hanno consegnato alle pagine della storia
altre “spedizioni” : quella dei fratelli Bandiera(1844), quella di Pisacane
(1857), e quella di Garibaldi (1860). E’ noto come queste ultime siano state
studiate per privare un legittimo sovrano dei suoi possedimenti, ma, ciononostante,
sono state tramandate per imprese degne di memoria e come eroi i suoi
protagonisti, mentre la seconda, che
aveva il solo scopo di recuperare ciò che subdolamente era stato portato via, è
passata come l’ azione di un’orda barbarica, quasi satanica, ad onta
dell’insegna della Croce sotto cui il Cardinale aveva messo quell’esercito
improvvisato, che, pur non comandato da ufficiali sfornati da prestigiose accademie
militari , riuscì tuttavia ad aver ragione
di un vero esercito sotto la guida di famosi generali ed ufficiali superiori. E
pensare che il primitivo nucleo della spedizione del Ruffo, in cui credeva poco
anche Ferdinando IV, era composto da appena sette persone : il Cardinale
Fabrizio Ruffo, l’abate Lorenzo Spanziani, il marchese Filippo Malaspina e
quattro servitori. Partiti da Palermo per Messina il 27 gennaio 1799,
ricevettero qui altre due adesioni : quella del sacerdote Annibale Caporossi e
quella di Don Domenico Petromasi. Il 13 febbraio l’armata sanfedista si avvia
verso la capitale del Regno e man mano che attraversa i vari territori fa
sempre nuovi proseliti. Il numero esorbitante di adesioni raccolte dal Ruffo è
il chiaro indice di una situazione socio – politica. Se, infatti, quell’enorme massa
di persone che, senza essere forzata o obbligata, andò ingrossare le file dei sanfedisti si fosse
trovata bene sotto la nuova forma di governo, sicuramente non avrebbe
ingrossato le file dei sanfedisti, ma ne avrebbe ostacolato in tutti i modi
l’avanzata. Se invece le cose andarono diversamente, la spiegazione non può
risiedere se non nel fatto che un esercito sceso in Italia solo per depredare,
saccheggiare, trucidare ed uno stato fantoccio come quello della Repubblica
Napoletana, non riconosciuta nemmeno dall’ideale madre-patria, imposti con la
forza e con le armi, non erano ben visti dal popolo, che, quindi, non li appoggiò,
andando ad ingrossare le file dei crocesegnati e decretando con la sola forza
del loro numero e del loro coraggio la fine del predatorio e tirannico regime
francese e dell’effimera Repubblica Napoletana.
La
storia registrava ancora una volta un fenomeno che gli storici poco obiettivi
continuano pervicacemente ad ignorare : il ruolo del popolo, definito, a
seconda delle circostanze, volgo, plebaglia, lazzari o briganti. I quali quando sono veramente
interessati rappresentano una forza di cui nessun esercito può essere sicuro di
aver ragione. A dimostrazione di tale affermazione basti prendere in considerazione
un momento della storia a noi molto vicino : quello delle “Quattro giornate” di
Napoli, dove poveri, disarmati e sprovveduti popolani ebbero ragione della più
organizzata e sanguinaria macchina di guerra che la storia ricordi.
Castrese Lucio Schiano
[1] J.Lortz,
Storia della Chiesa considerata in
prospettiva di storia delle idee – Ed. Paoline, Roma 1980, Vol. I, pag.12
[2] Ognuno
giudichi se queste parole del Ruffo – come i fotogrammi riportati ad esempio –
possono dare adito al minimo equivoco : << … Bravi e coraggiosi
calabresi, un’orda di cospiratori settari dopo aver rovesciato in Francia
altare e trono, dopo aver con sacrilego attentato fatto prigioniero ed
asportato in Francia il Vicario di Gesù Cristo, nostro santo pontefice Pio VI …
sta facendo tutti gli sforzi per involarci (se fosse possibile) il dono più
prezioso del Cielo, la nostra Santa Religione …>>
[3] F.
Riccardi, Saggio introduttivo alla “Storia della spedizione …” pag.54
�
Sui processi politici nel bearne delle Due Sicilie
NAPOLI
STAMPERIA DEL FIBRENO
1851
Scrive Salvatore Mandarini, giudice della
Gran Corte Criminale di Napoli e socio di varie accademie scientifiche e
letterarie, in uno dei primi opuscoli di parte borbonica che contestò le
lettere del reverendo Gladstone:
“Il fervore con cui taluni de’ giornali stranieri
han pubblicato o contentato con maligno compiacimento due lettere
dell’onorevole sig. Gladstone al Conte Aberdeen sui processi di Stato nel Reame
delle due Sicilie, ha eccitato un giusto sentimento di ansietà per sapere se
gli straordinarii fatti in esse allegati abbiano alcun che di veridico e di
reale. Imperocché narransi di tali e tanti dolori cui soggiacciono nelle
napoletane contrade gl’imputati per reati politici, di un così esagerato ed
incredibile numero di essi, di tali arbitrarie forme nel giudicarli, e di sì
dure pene loro inflitte, che anche coloro i quali ignorano gl’interni
ordinamenti del reame, ed il modo secondo cui vi si amministra la giustizia,
non possono facilmente condursi ad aggiustar fede alle notizie con tanta leggerezza
spacciate come vere dal predetto scrittore, ed alle fosche descrizioni che ne
va delineando nel suo lavoro.”
Ovviamente
le contestazioni di parte borbonica non sortirono alcun effetto – dilagarono
quelle a sostegno delle lettere, prima fra tutte quella del Massari a Torino.
Copia delle lettere del Gladstone furono diffuse in tutte le ambasciate e
circoli culturali d’Europa.
Il destino delle Due Sicilie iniziava a delinearsi e marciava speditamente
verso il crollo del Reame.
Si tratta di un testo noto, anche noi
lo pubblicammo diversi anni fa – nel 2006 – ora lo ripubblichiamo completo di
appendice – la edizione è datata Livorno 31 dicembre 1861 – ma a noi pare
improbabile, dovrebbe essere successiva.
Uno stralcio dal testo:
“Fu necessità salire su’
monti a trovar la libertà. É quasi un anno che combattiamo nudi, scalzi, senza
pane, senza tetto, senza giacigli, sotto i raggi cocenti del sole, o fra’ geli
dell’inverno, entro inospitali boschi, sovra sterili lande, traversando fiumi
senza ponti, traversando muraglie senza scale, affrontando inermi gli armati,
conquistando con le braccia le carabine e i cannoni, e strappando pur su’ piani
campi di Puglia e di Terra di Lavoro la vittoria a superbissimi nemici.”.