Posted by altaterradilavoro on Feb 13, 2019
Intanto lo spirito pubblico si commuoveva
vieppiù; non pochi delusi nella loro aspettativa, dubitavano della lealtà del Principe; gli atti del governo erano
continua prova di mal consiglio; si lavorava operosamente a vantaggio della
rivoluzione, pronta ad irrompere ad un primo cenno che venisse dall’Italia del
Nord: insomma si aspettava Garibaldi.
Essendo le cose a tal punto, che facilmente
facevano prevedere prossimi avvenimenti, sorse la voce di un personaggio della
Reale Dinastia, che si fece udire dal giovane Monarca. Era la voce dello Zio di
lui, il conte di Siracusa. Questo Principe che aveva legami d’intimità ed
amicizia con molti uomini del partito liberale, scrisse il 3 Aprile 1860 una
lettera al Re, nella quale mentre gli additava i mezzi per salvare la
Monarchia, in verità, altro non faceva che tramare contro di essa. Noi qui ne
registriamo il testo.
Sire
«Il mio affetto per voi, oggi augusto capo della nostra famiglia; la più lunga
esperienza degli uomini e delle cose che ne circondano; l’amore del paese, mi
danno abbastanza il dritto presso V. M. nei supremi momenti in cui volgiamo, di
deporre ai piedi del trono devote insinuazioni sui futuri destini politici del
Reame, animato dal medesimo principio, che lega voi o Sire alla fortuna dei
popoli.
Il principio della nazionalità italiana, rimasto per secoli nel campo delle
idee, oggi è disceso vigorosamente in quello dell’azione. Sconoscere noi soli
questo fatto, sarebbe cecità delirante, quando vediamo in Europa, altri
aiutarlo potentemente, altri accettarlo, altri subirlo come suprema necessità
dei tempi.
Il Piemonte per la sua giacitura e per dinastiche tradizioni, stringendo nelle
mani le sorti dei popoli subalpini e facendosi iniziatore del novello
principio, rigettate le antiche idee municipali, oggi usufruita di questo
politico concetto e respinge le sue frontiere sino alla bassa valle del Pò. Ma
questo principio nazionale ora nel suo svolgimento, com’è naturale cosa,
direttamente reagisce in Europa e verso chi l’aiuta e verso chi lo accetta e
chi lo subisce.
La Francia dee volere che non vada perduta l’opera sua protettrice e sarà
sempre sollecita a crescere d’influenza in Italia e con ogni modo per non
perdere il frutto del sangue sparso, dell’oro prodigato e della importanza
conceduta al vicino Piemonte; Nizza e Savoia lo dicono apertamente.
L’Inghilterra, che pure accettando lo sviluppo nazionale d’Italia, dee però
controporsi all’influenza Francese, per vie diplomatiche si adopera…..In tanto
conflitto di politica influenza, qual’è l’interesse vero del popolo di V. M. e
quello della sua dinastia?
Sire, la Francia e l’Inghilterra per neutralizzarsi a vicenda, riuscirebbero
per esercitare qui una vigorosa azione, e scuotere fortemente la quiete del
paese ed i diritti del trono. L’Austria cui manca il potere di riafferrare la
perduta preponderanza e che vorrebbe rendere solidale il governo di V. M. col
suo, più dell’Inghilterra stessa e della Francia, tornerebbe a noi fatale;
avendo a fronte l’avversità nazionale, gli eserciti di Napoleone III e del
Piemonte, la indifferenza Brittannica,
Quale via dunque rimane a salvare il paese e la dinastia minacciati da cosi
gravi pericoli?
Una sola. La politica nazionale, che riposando sopra i veri interessi dello
stato, porta naturalmente il Reame
Anteporremo noi alla politica nazionale uno sconsigliato isolamento municipale?
— L’isolamento municipale non ci espone solo alla pressione straniera, ma
peggio ancora; ché abbandonando il paese alle interne discordie, lo renderà
facile preda dei partiti. Allora sarà suprema legge la forza; ma l’animo di V.
M. certo rifugge alla idea di contener solo col potere delle armi quelle
passioni che la lealtà d’un giovane Re può moderare invece e volgere al bene,
opponendo ai rancori. l’obblio: stringendo amica la destra al Re dell’altra
parte d’Italia e consolidando il trono di Carlo III sopra basi, che la civile
Europa, o possiede, o domanda.
Si degni la M. V. accogliere queste leali parole con alta benignità, per quanto
sincero ed affettuoso è l’animo mio nel dichiararmi novellamente.
di V. M.
Napoli 3 Aprile 1860.
Affezionatissimo Zio
Leopoldo Conte Di Siracusa.
Fu giudizio di non pochi questa lettera non essere del tutto intempestiva e poter giovare ancora agl’interessi della dinastia; la quale opinione molti e i più schivi di cose liberali reputarono non essere senza fondamento, quantunque gli unitari, per le loro arti, avessero fatto sì grandi passi che difflcil cosa era di rattenerli nel loro cammino. Nondimeno sembrava che restasse ancor qualche speranza in favore della Real dinastia, se si fossero posti in opera provvidi espedienti, analoghi alla condizione dei tempi, per togliere ogni pretesto alla rivoluzione.
Ma ciò non poteva andare a sangue di chi con ipocrisia consigliava il Re in privato, mentre cospirava alla rovina del suo Signore, che avevalo arricchito e ricolmato dì favori e distinzioni d’ogni sorta.
Il linguaggio dunque del Conte di Siracusa, fu censurato ed Egli poco poi lasciava i domini del suo Augusto Zio per istanziarsi altrove.
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Posted by altaterradilavoro on Feb 11, 2019
Con il decreto n° 100 del 16 luglio 1860, Giuseppe Garibaldi, comandante in capo delle Forze Nazionali in Sicilia, autorizza sè stesso a costituire una Legione Ungherese composta di fanteria e cavalleria affinchè partecipasse attivamente alla “conquista” del Regno delle Due Sicilie.
Il brigante Alessandro Arena ci fornisce copia del decreto n° 100 del 16 luglio 1860 che potete visionare in allegato.
Riportiamo, inoltre, i riferimenti di alcuni tra i soldati che combatterono in questa legione.
La legione Ungherese fu coinvolta nelle peggiori atrocità commesse durante l’invasione del Regno delle Due Sicilie; ebbe parte attiva nelle stragi di Auletta, di Montemiletto e Montefalcione e fu utilizzata per incendiare paesi e fucilare all’istante chi veniva trovato con le armi in pugno.
I soldati della Legione Ungherese, per le atrocità commesse nella risalita del Regno, possono essere paragonati ai contingenti marocchini durante la seconda guerra mondiale.
Questo brano è scritto ad uso e consumo di chi crede ancora che l’Unità d’Italia sia stata fatta grazie all’avanzata pacifica ed indisturbata di 1000 valorosi in camicia rossa guidati dal generale alto biondo e dal bianco destriero.
Francesca Di Pascale – Briganti
fonte http://briganti.info/garibaldi-e-la-legione-ungherese/
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Posted by altaterradilavoro on Feb 11, 2019
Un genocidio che nessuno commemora – 11 Maggio 1860, mille avanzi di galera, comandati da un bandito, sbarcarono a Marsala – 158 anni fa iniziava lo sterminio del popolo Duosiciliano!
154 ANNI
FA INIZIAVA LO STERMINIO DEL POPOLO DUOSICILIANO
11 Maggio
1860 – Mille avanzi di galera sbarcarono a Marsala.
Non erano
neanche mille, ma 702 e per di più… Violenti e malfamati!…
Ma non erano
affatto soli!… e neanche isolati !…
Anzi,
proprio al contrario, erano molto ben protetti militarmente dalla flotta
inglese, finanziati, assistiti e guidati dalla massoneria mondiale ebraica e il
loro mandante era niente di meno che Rothschild!
Ancora oggi,
dopo 158 anni, le cose non sono cambiate, Rothschild, la massoneria mondiale
ebraica, ed oltre a quella inglese, anche la flotta Usa, la Nato, Israele, etc.
sono i potenissimi mandanti, finanziatori e protettori diretti ed indiretti di
terroristi, tagliatori di teste e cannibali come quelli dell’Isis, di Al Qaeda,
di Boko Haram ed altri ancora che, seppur
apparentemente
pochi, con l’appoggio perfino di portaerei, e delle forze aere e missilistiche
di Israele, Usa, Francia, Inghilterra, Italia, etc. hanno invaso, abbattuto e
conquistato tutto o parte di Stati come la Libia. la Siria, l’Iraq,
l’Afghanistan, il Mali, etc.
Quegli avventurieri
di allora, sostenuti dalle maggiori potenze mondiali di allora, avevano a capo
un Criminale di nome Giuseppe Garibaldi, ladro di cavalli, a cui avevano
mozzato le orecchie in Argentina perché beccato in flagranza di reato.
Ma allora,
oltre ad essi che avanzavano da sud, subito dopo, a scoccorrerli ulteriormente,
un’orda barbarica, dunque, scese dal Piemonte. “Parlavano una strana lingua e
bestemmiavano in continuazione! Donne stuprate, uomini e bambini uccisi e
trucidati! Interi paesi bruciati e rasi al suolo!
Come oggi
negli Stati sopraccennati, allora nell’Italia del Sud, ogni ricchezza venne
saccheggiata…” i crimini commessi da detta legione straniera dei massonici
ebraici rothschildiani avventurieri provenienti dal Piemonte, dalla Lombardia,
ma anche da Inghilterra, Francia, Ungheria, Polonia, Stati Uniti, Canadà e
perfino Turchia, contro il popolo meridionale, sono INENARRABILI: e furono
talmente EFFERATI che ancora oggi vengono taciuti.
Altro
che fratelli d’Itaglia!… Fisicamente e soprattutto moralmente, sia i nostri
antenati e sia noi, non siamo nemmeno parenti alla lontana con simili canaglie.
Quante
menzogne, quanti massacri… e quanto sangue e quante lacrime hanno versato i
nostri antenati ed i nostri padri, le nostre madri e quante ne stiamo versando
ancora oggi per questa “Italia” falsa, bugiarda e criminale, che è
completamente all’opposto della vera nostra Italia.
Tu che
conosci la verità sei pregato di divulgarla, e di farla conoscere a tutti.
Cerca le
verità sepolte e riportale alla luce e falle rivivere nella mente e nel cuore
tuo e di tutti i tuoi cari.
Divulgale a
chi le ignora.
Il Regno
delle due Sicilie era il terzo Stato più ricco ed avanzato al mondo.
L’Unità
massonica ebraica rothschildiana d’Italia distrusse la vera e migliore Italianità
ed il buon rapporto fra tutti gli stessi Italiani di buona volontà.
Prima di
detta falsa Unità, da noi vi era il miglior tenore di vita del mondo e la
migliore qualità di vita del mondo, proprio perchè si abitava in quelle terre
che per la dolcezza del loro clima, per l’amenità e bellezza dei paesaggi e per
la fertilità dei suoli… ed in quelle incantate città che per i loro splendidi
palazzi, per le loro magnificenti chiese e per le svariate e meravigliose opere
dell’arte: della musica, della pittura, dell’architettura e della cultrura in
generale, ed anche dei cibi, dell’ospitalità, dell’equità, moderazione e
giustizia delle istituzioni e per il fascino delle usanze popolari… erano di
fatto riconosciute come le più belle, salutari, accoglienti ed amabili del
mondo in assoluto ed erano conosciute, visitate, ammirate, esaltate ed
invidiate da tutta Europa e dal mondo intero!
Francesco II
di Borbone profetizzò che non ci sarebbero rimasti neanche gli occhi per
piangere.
Infatti è
stato, è e sarà così finché durerà questa maledetta falsa Unità, per i nostri
avi, per noi e per le generazioni a venire.
Il Regno
delle Due Sicilie e la Serenissima Repubblica di Venezia, distrutti nel 1861,
insieme alla Sardegna. La Dalmazia e l’Istria distrutte alla fine del secondo
conflitto mondiale, l’italianissima Corsica data in pasto alla ferocia degli
aguzzini
massonici
ebraici rothschildiani francesi, Briga e Tenda e la Contea di Nizza cedute alla
stessa Francia. L’isola di Malta assoggettata alla massoneria ebraica inglese.
Tutto ciò dimostra che la classe dirigente massonica, ebraica rothschildiana,
in Italia, come in Inghilterra, come in Francia e come in tutto il resto del
mondo, allora come adesso e come sempre, ha seminato, semina e seminerà solo
morte e desolazione. Fece, fa e farà sempre versare tanto sangue innocente per
i suoi malvagi e criminali interessi.
A suo tempo,
l’Invasione armata distruttrice, la conquista militare violenta e lo
sfruttamento coloniale e schiavistico portarono al disastro ed allo sterminio
la buona parte del Popolo Duosiciliano:
Infatti, su
quasi 7,5 milioni di abitanti di allora:
– Dal 1860
al 1875, quasi 50.000 giovani e forti, la meglio gioventù del Sud, militari del
Regio Esercito del Regno delle Due Siicilie, furono sterminati non soltanto sui
campi di battaglia, ma, ancor più numerosi, nei feroci campi di concentramento
e sterminio come Fenestrelle, e tantissimi altri situati per lo più in
Piemonte, ma sparsi anche per tutto il resto d’Italia!
–
Inoltre, dal 1860 al 1980, nel giro di 20 anni, con la guerra al brigantaggio
furono massacrati, passandoli per le armi e carcerandoli brutalmente più di
100.000 civili.
Complessivamente
fu sterminato 1,2 milioni di persone, per fame, freddo, malattie e persecuzioni
causate soprattutto con:
– La legge
marziale, che spesso veniva proclamata per intere regioni, e che impediva alla
gente di uscire anche solo per procurarsi da vivere e, o recarsi al lavoro
fuori paese o anche solo fuori casa.
– La legge
Pica, tirannica e sanguinaria, che istigava ad uccidere anche per semplici
sospetti, contadini, pastori, vecchi, donne e bambini, impedendo loro di
recarsi liberamente a procurarsi da vivere lavorando nelle campagne o sulle
montagne. Non si poteva più andare fuori casa portando armi, anche
insignificanti, come coltelli da cucina per tagliare il pane, falci, tridenti
ed altri arnesi simili da lavoro. Era vietato perfino portare con sé anche
cibo. Chi veniva sorpreso con vivande al seguito, veniva fucilato senza
processo, col pretesto che detto cibo fosse per i briganti. I boscaioli, ad
esempio, non potevano usare neanche asce e accette per i loro soliti lavori
– La
coscrizione militare obbligatoria che aveva sottratto, al sostentamento delle
famiglie, i giovani che erano indispensabili per i lavori di ogni genere nei
campi e nelle officine, costringendoli a 5 e 10 anni di ferma sotto le armi,
tenendoli semincarcerati nelle caserme o impegnati sul terreno nella barbara
guerra senza fine contro i propri conterranei che si erano dati al
brigantaggio. e facendo morire tanti e tanti giovani del Sud a decine di
migliaia nelle varie guerre e controguerre irredentiste, imperialiste e
coloniali in Italia e dappertutto nel resto del mondo.
– La
criminale ed affamatrice “tassa sul macinato” che aveva portato i prezzi delle
granaglie e delle altre derrate alimentari più popolari, come il pane, a
livelli proibitivi per la popolazione sempre più artificiosamente impoverita e
ridotta in miseria ed alla fame vera e propria.
– Tutto
l’oro e l’argento del Banco di Stato di Napoli e del Banco di Stato di Sicilia,
che per un valore di circa 450 milioni di ducati d’oro e d’argento, fu
confiscato, razziato senza rimborso, portato ed utilizzato solo per gli
interessi dei boss massoni ebrei rothschildiani nel triangolo industriale di
Torino,Milano-Genova, creato “ex novo” nel nord Italia, dove prima non c’era
assolutamente nessunissima attività economica industriale ed avanzata
– Le
industrie di stato minerarie, estrattive, siderurgiche e militari di Mongiana,
Ferdinandea e Bivongi, le industrie di stato meccaniche e ferroviarie di
Pietrarsa, le industrie dei cantieri navali statali di Castellammare di Stabia,
furono chiuse, smontate, rubate, razziate, portate via per essere poi rimontate
più a Nord, specie a Terni, La Spezia, Genova, Torino, Milano, Brescia e
Bergamo sempre nell’interesse dei pochissimi che se ne erano impossessati con
la prepotenza e l’inganno.
– I beni
della chiesa che ammontavano allora a circa due terzi di tutti i beni immobili
del paese, furono confiscati e svenduti ad una borghesia avida e senza
scrupoli, che a differenza della chiesa stessa che si accontentava al massimo
di piccole decime, sfruttava invece i contadini ed i pastori fino al midollo,
senza neanche dar loro la possibilità di avere di che mangiare per sè e per la
propria famiglia.
– La
maggior parte del popolo, che lavorava la terra, da proprietario divenne colono
e schiavo, proletarizzato dal nuovo dittatoriale Stato tirannico, che si
chiamava Regno d’Italia, ma che era, ed è ancora adesso, il principale nemico
del Popolo Italiano, in particolare del Popolo dell’Italia del Sud.
– In
sostanza di fronte a tanta miseria, a tante morti, a tante persecuzioni ed
odiose angherie, la scelta che il nuovo e tirannico Stato massonico ebraico
rothschildiano, in accordo criminale con la massoneria ebraica rothschildiana
globale, diede al Popolo Duosiciliano fu solo questa scelta: << o
Brigante!… o Emigrante!…>> per cui…
– Dal 1860
fino al 1875 andarono via dalla nostra terra 4 milioni di persone.
– Dal 1860
fino al 1914 ne andarono via 18 milioni.
– Dal 1860
fino ai nostri giorni ne sono andate via 36 milioni. e stanno continuando ad
essere costrette da politiche volutamente antipopolari ad emigrare ancora adesso
a centinaia di migliaia ogni anno,
Si tenga
presente che la popolazione meridionale attuale ammonta a 35 milioni in Italia,
di cui una parte notevole vive anche al nord.
In
conclusione, questa particolare Unità d’Italia, voluta nell’esclusivo e fazioso
interesse di una classe dirigente massonica, ebraica, rothschildiana,
criminale, usuraia, estorsiva, razzista, assassina e nemica del Popolo Italiano
in generale e del Popolo Italiano Meridionale in particolare, è stata un vero e
proprio crimine contro l’umanità, tale e quale come l’attuale Unione Europea
che, guarda caso, viene portata avanti a presente proprio dalle stesse
identiche forze massoniche, ebraiche rothschildiane del 1860 e di quasi tutti i
periodi successivi e di tutto il mondo che arrivano fino ai nostri giorni ed
intrigano e complottano in tutto il mondo con gli stessi metodi diabolici e
criminali suoi caratteristi di ieri, di oggi e di sempre.
La lotta
contro l’attuale dittatura e tirannia antipopolare massonica ebraica
rothschildiana che adesso si spaccia per “europea”, tale quale come una volta
si spacciava per “italiana”, è in realtà una lotta contro lo stesso nemico
principale di sempre dei nostri antenati e di tutti i popoli d’Europa e del
mondo intero, ad eccezione, ovviamente, dell’unico e solo “divino popolo
eletto” del satanico Rothschild!
Vi è
quindi un’importantissima ed essenziale continuità di identità culturale,
sociale, etnica e storica massonica, ebraica e rothschildiana tra la classe
dirigente che oppresse e sterminò i nostri padri ed i nostri antenati dal 1860
in poi e quella classe dirigente attuale, contro cui dobbiamo fare i conti
ancora adesso proprio noi, perché anche a presente essa di nuovo vuole invadere
con nuove e peggiori orde barbariche, opprimere e sterminare non solo noi
stessi, ma anche i nostri figli, nipoti e pronipoti per tenere il mondo tutto
per sé e per la propria “divina eletta progenie”.
Questa
cognizione allora, della lotta senza tregua che si è svolta e si svolge e si
svolgerà sempre di generazione in generazione tra noi ed i nostri tradizionali
talmudici e diabolici nemici principali di sempre, deve spingerci ad essere più
preparati idealmente e materialmente per potere resistere e contrattaccare in
maniera più adeguata contro il nemico principale di sempre, senza più
commettere le ingenuità e gli errori dei nostri pur amatissimi padri ed
antenati, onde potere finalmente vincere e ribaltare positivamente e
completamente una volta per tutte, o per lo meno per un bel pezzo, la nostra
situazione e quella del nostro popolo nel suo complesso.
(salvatore
brosal – duccio mallamaci)
Qualche
ricordo:
Angelina
Romano, nata il 5 novembre 1853, morta fucilata il 3 gennaio del 1862 a
Castellamare del Golfo, perché accusata di brigantaggio. Vittima innocente
della repressione sabauda. Questo è quanto risulta dall’archivio storico
militare. Questo e tanto altro ancora la “storia ufficiale” non ha mai
raccontato. Angelina era una bambina siciliana, che camminava scalza per le vie
del suo paese. Aveva un faccino bello e pulito. La sua vita fu interrotta
perché così vollero i predoni di quell’orda barbarica, che scese dal Piemonte
per devastare, massacrare, violentare, rapinare, distruggere…
La bella Michelina De Cesare fu stuprata, seviziata,
violentata dai piemontesi il 30 agosto 1868. Fu tanto impavida quanto
bella, con il suo formidabile intuito riuscì più volte a prevenire attacchi ed
imboscate dei piemontesi. Il 30 agosto 1868 la banda del Guerra fu massacrata e
Michelina ne seguì la stessa sorte. Il suo corpo fu spogliato ed esposto nella
piazza del paese suscitando ire, risentimenti e scandalo. Dopo la sconfitta
della squadra di cui faceva parte, Michelina De Cesare fu catturata dai
piemontesi e sottoposta a tortura. Morta a causa delle atroci sevizie subite,
fu spogliata ed esposta nella piazza del paese come monito alle popolazioni
“liberate”. Ma l’effetto sulla gente inorridita dall’efferata vendetta fu
opposto a quanto sperato dalle truppe d’occupazione: infatti l’accaduto generò
nuovi risentimenti che rivitalizzarono l’affievolita reazione armata
antiunitaria. Michelina De Cesare nacque a Caspoli, frazione del
comune di Mignano, il 28 ottobre 1841.
Ninco
Nanco, all’anagrafe Giuseppe Nicola Summa, nacque ad Avigliano 12 aprile 1833,
fu ammazzato a tradimento dai piemontesi a Frusci il 13 marzo 1864. Dopo essere
stato ammazzato fu anche sadicamente fotografato.
Le reali Ferriere ed Officine di Mongiana (Calabria)
furono distrutte dal nuovo Stato unitario – Regno d’Italia – nel 1881. –
Le industrie di stato minerarie, estrattive, siderurgiche e militari di Mongiana,
Ferdinandea e Bivongi, le industrie di stato meccaniche e ferroviarie di
Pietrarsa, i cantieri navali statali di Castellammare di Stabia, furono chiuse,
smontate, rubate, razziate, portate via per essere rimontate più a Nord, specie
a Terni, La Spezia, Genova, Torino, Milano, Brescia e Bergamo sempre
nell’interesse dei pochissimi che se ne erano impossessati con la prepotenza e
l’inganno.
Tratto da: http://ondasud.blogspot.it/2015/05/11-maggio-1860-inizia-lo-sterminio-del.html
fonte http://www.complottisti.info/11-maggio-1860-mille-avanzi-di-galera-comandati-da-un-bandito-sbarcarono-a-marsala-158-anni-fa-iniziava-lo-sterminio-del-popolo-duosiciliano/?fbclid=IwAR0dFK-HjzHyqs6FEIM41U3NC-7mewLvg6I-RHTBiKOupX-emfe_Z5d0b3c
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Posted by altaterradilavoro on Feb 10, 2019
Lo sbarco dei Mille a Marsala, l’11 maggio
1860, venne immediatamente considerato da tutte le
Potenze europee come me un fattore di grave destabilizzazione dello status quo
internazionale.
Non solo Austria, Prussia, Russia furono fermamente
contrarie a un’impresa che rischiava di creare un focolaio rivoluzionario nel
Mediterraneo .Anche l’Inghilterra nutrì forti perplessità per una vicenda dai
contorni indefiniti e dagli esiti incerti e si dichiarò disposta a collaborare
con la Francia di Napoleone III per negoziare una tregua tra il governo
napoletano e gli insorti, con l’obiettivo di arrestare l’irresistibile avanzata
delle camicie rosse.
Il 4
giugno Cavour prendeva atto che il Regno Unito
«pur dimostrandosi prodigo di simpatie platoniche per la causa italiana non è
disposto a muovere neanche un pollice per venirci in aiuto e che anzi la sua
azione è volta a conservare la Sicilia ai Borboni e a ostacolare l’annessione
del Mezzogiorno al Regno di Sardegna».
La posizione di Londra mutava radicalmente, il 12 giugno, con l’avvento del
gabinetto liberale guidato da Palmerston.
Il 26 luglio, quando Garibaldi, impadronitosi
dell’isola, si preparava a passare lo stretto di Messina, il ministro degli
Esteri Lord Russell inviava un dispaccio (ora conservato nei National Archives
di Londra) all’ambasciatore a Parigi, comunicandogli il rifiuto di aderire alla
proposta francese di attuare un blocco navale congiunto per impedire il
passaggio dei volontari sul continente.
Un’azione
militare avrebbe, infatti, contraddetto
«quel principio generale del non intervento che il Governo di Sua Maestà era
deciso a non abbandonare».
Con grande ipocrisia, Russell, pur sapendo che gli alti comandi della marina
delle Due Sicilie si erano venduti agli agenti piemontesi, aggiungeva
«che se la flotta, l’esercito e il popolo napoletano fossero restati fedeli al
loro re, Garibaldi sarebbe stato sconfitto senza difficoltà, ma se al contrario
si
fossero dimostrati disposti ad accoglierlo il nostro intervento avrebbe
costituito un’interferenza negli affari interni del Regno di Francesco II».
La
linea politica decisa da Palmerston e Russell non era però condivisa dalla
Regina Vittoria animata da una personale antipatia per Garibaldi da lei
definito una specie di «gangster sudamericano».
A superare l’ostilità della sovrana, interveniva un’abile e spregiudicata
manovra di Cavour, verosimilmente concordata con il governo inglese.
Ai primi di agosto, Russell riceveva e faceva
prontamente tradurre una lettera di Garibaldi inviata, il 27 luglio, a Vittorio
Emanuele (anch’essa depositata negli archivi del Foreign Office).
In
quello scritto il generale, mentre ribadiva la sua intenzione di raggiungere la
Calabria, dichiarava che al termine della sua missione, egli avrebbe
abbandonato i poteri provvisoriamente assunti per deporli ai piedi del monarca
sabaudo. In realtà quel messaggio era stato personalmente dettato da Cavour, il
quale aveva ordinato ai suoi emissari di fare scrivere all’Eroe dei due Mondi
che
«egli pieno di devozione e di reverenza per il Re avrebbe voluto seguire i suoi
consigli di non abbandonare le coste siciliane ma che i suoi doveri verso
l’Italia non gli permettevano di impegnarsi a non soccorrere i napoletani».
Con queste poche parole la spedizione dei Mille
perdeva i suoi connotali di avventura rivoluzionaria e rientrava nell’alveo del
programma moderato, liberale, costituzionale perseguito da Cavour che era grado
di dissipare i timori di Buckingham Palace.
Il 18 agosto Garibaldi poteva così approdare
indisturbato nei pressi di Reggio Calabria e iniziare la sua travolgente marcia
verso Napoli, grazie alle dichiarazioni di Palmerston dove si rendeva noto che
un intervento ostile della squadra francese sarebbe stato considerato un
attentato contro gli interessi strategici inglesi. In questo modo l’Italia
compiva la sua unificazione da Torino a Palermo.
Londra si assicurava, invece, un vero e proprio
protettorato sul nuovo Stato mediterraneo che, da quel momento, per
l’estensione stessa delle sue coste, sarebbe restato esposto al ricatto della
potenza navale britannica.
Eugenio Di Rienzo
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Posted by altaterradilavoro on Feb 9, 2019
altro non era che una elite aristocratica (meridionale) che da
parecchie generazioni impersonificava un feudalesimo stagnante, ossia una
“casta” (si direbbe oggi) costituita da “non veri” rappresentanti della
dinastia borbonica.
Dopo
alcuni anni di studio sull’epoca borbonica, pare sempre più verosimile avallare
(è una mia ipotesi) che, a
differenza di quanto avveniva nel resto del Regno delle Due Sicilie, l’elite
locale del Salento di inizi ‘800 abbia mantenuto uno stile parassitario ai
danni delle comunità locali; un feudalesimo mai
terminato che si è perpetuato all’ombra dei re di Napoli. Questa ipotesi può
essere una chiave di lettura (nuova per alcuni) per spiegare il sorgere e il
dilagare delle sette segrete e carbonare della Terra d’Otranto, nate l’indomani
la sconfitta di Napoleone a Waterloo e il Congresso di Vienna (1815) e in
seguito al conseguente avvio della Restaurazione dell’Ancien
Régime; con quest’ultimo si avviava la ricostituzione del
vecchio ordine feudale, riportando sul trono gli stessi sovrani spodestati da Napoleone.
Essi vollero ripristinare gli antichi diritti – quelli dell’Ancien règime
appunto. Concluso il Congresso di Vienna, si ricostituì il “Regno borbonico” in
“Regno Delle Due Sicilie” (9 maggio 1815). Il re si fece nominare Ferdinando I.
Ma
con il ritorno al potere delle antiche dinastie regnanti e delle
precedenti leggi, costumi, guardie nazionali (…), nella Terra d’Otranto la
popolazione paventava un ritorno a quello stile simil feudale con il quale le
aristocrazie meridionali avevano oppresso le genti sino ad allora. Infatti nel
tacco d’Italia e sulla scia del onda di libertà dell’esempio francese, si
diffusero i nuovi fermenti rivoluzionari e non casualmente si costituirono le società
segrete, le quali ebbero il favore di molti elementi della
borghesia cittadina (come artigiani e mercanti), che non avevano perdonato al
sovrano borbonico la sua politica favorevole ai grandi proprietari terrieri.
In
questa chiave di lettura, direi che nel sud (e anche nel Salento) l’opposizione
all’Ancien Regime era indirizzata genericamente alla dinastia dei Borbone, ma
concretamente era rivolta ai loro rappresentanti locali; ossia quella elite aristocratica
meridionale che da parecchie generazioni impersonificava un feudalesimo
stagnante. Quindi una “casta” si direbbe oggi
(costituita da “non veri”
rappresentanti della dinastia borbonica), la quale tornava a tormentare e ad
opprimere le poveri genti. Lo scontro e la reazione diveniva irreparabile. Ecco
quindi una lettura del perchè particolarmente nel Salento di inizio Ottocento,
dilagarono sette segrete e carbonare.
Già
sin dal 1700 il
governo dei Borbone aveva posto attenzione al problema del Feudalesimo in Terra
d’Otranto. In quel secolo studiosi come il Giuseppe Palmieri e altri, con
la concezione Illuministica dello Stato, avevano tentato di opporsi al regime
del baronaggio feudale, che perdurava ancora nel XVIII sec. Questo regime
(feudale) fu inteso come “regime
mostruoso e il più opposto all’armonia sociale”. Cfr : V. Valsecchi
L’Italia nel Settecento (1714.1788), vol VII, 1° ed. Milano 1959, pag 760-761.
Difatti il baronaggio del 1700, conservava delle prerogative che “usurpavano il potere allo Stato, che facevano del feudo un
piccolo stato nello stato. Rimane il diritto di esercitare la giustizia e di
esigere tributi, che sottopone i sudditi all’arbitrio del feudatario. Tutti
residui di una concezione politica e sociale ormai superata, che andavano
eliminati”.
E’
sorprendente e anche “illuminante” (…) dare una consapevole rilettura al volume
più noto di David Winspeare, la Storia degli abusi feudali del 1811,
notizie sul feudalesimo in Terra d’Otranto, nel quale si ha
un’ampia e dettagliata documentazione; il questo volume si stabilì che in poco
meno di tre anni, vi furono ben 1.395 vertenze in ordine ai diritti feudali,
oltre a quelli di cui godeva in tutto il regno, cioè i diritti sulle persone e
sulle proprietà private. Qui è anche efficacemente delineata la storia e la
struttura del sistema feudale, il
quale, a detta dell’autore, aveva promosso all’interno della società e in tutte
le parti dell’ordinamento statuale un’accesa e deleteria rivalità. E,
soprattutto nel contesto del Regno di Napoli,
esso si era sviluppato in modo artificioso, non spontaneo, passando di dinastia
in dinastia, per provare «l’esperimento dei mali di tutte le nazioni»,
generando guerre intestine, rozzezza nei costumi e nella cultura, nonché contrasto
alla giustizia. Il sistema feudale per Winspeare era «semplicemente come un “mostro”, uscito dalle foreste dei
barbari ed allevato dalla ignoranza e dagli errori di tredici secoli»,
che era stato sconfitto solo con l’avvento dell’Illuminismo.
Non
a caso già nel 1817 i
Borbone inviarono in Terra d’Otranto il marchese di Pietracatella Giuseppe Ceva Grimaldi,
nella qualità di “Intendente della Provincia”, nel suo “viaggio dell’Intendente borbonico da Napoli a Santa Maria
di Leuca“, col delicato compito di conoscere ed eventualmente sedare
le azioni violente di gruppi di carbonari e di briganti.
Ma
quello del feudalesimo era un problema che si trainava di dinastia in dinastia
e che aveva generato decenni di povertà e pressione tali da esplodere con la
Restaurazione dell’Ancien Régime
quando, a mio avviso, sfociò la rabbia repressa negli anni precedenti dalla
maggior parte della popolazione meridionale (e salentina); e questa rabbia trovava sfogo nel grido di libertà offerto dai
moti rivoluzionari di inizio del XIX secolo quando, tra la fine degli
anni ’10 e gli inizi degli anni ’20, sorsero per l’appunto le svariate sette
carbonare e massoniche della Terra d’Otranto, nelle quali confluivano varie
correnti; non solo esponenti del popolo
(gente dal basso), ma anche aristocratici (sia
filo-borbonici, sia anti-borbonici), ma anche gente del clero (sia
filo-borbonici, sia anti-borbo nici), o la classe borghese …
ma anche confluirono in queste sette “vili
ladri di galline” diranno alcune cronache contemporanee. Con
l’esempio dei moti carbonari francesi quindi, nel Salento sorse in quel
peridodo di inizio ‘800, la coscienza della necessità di crerare un progetto
carbonaro fra le province, quale unica soluzione per togliersi dal giogo
oppressivo imposto dalla maggior parte delle aristocrazie locali (…) lontane
fisicamente e ideologicamente dai Borbone in Napoli. Nella Terra d’Otranto
queste sette carbonare videro l’adesione di masse contadine e non solo; tutti
volevano un nuovo governo e riforme radicali; pretendevano la distribuzione
delle terre e la riduzione delle tasse, come quella sul sale. La necessità di
rivendicare i diritti basilari era divenuta la priorità. Il quadro complessivo
pertanto, era abbastanza frastagliato. La ricerca della libertà e
dell’autonomia portò all’aggregazione in sette di professionisti, artigiani,
commercianti, ufficiali dell’esercito, rappresentanti del basso clero, e dei
piccoli proprietari terrieri. I borghesi (la nuova classe dirigente di quei
tempi) erano contro la vecchia aristocrazia feudale; e ad esempio la nascente
società segreta dei Filadelfi si batteva
per la Costituzione ma anche per l’instaurazione della Repubblica rivendicando
la riforma agraria, l’abolizione della proprietà privata delle terre e la loro
distribuzione ai contadini.
Ad
esempio la setta dei Filadelfi ad Andrano (Le) del 1821.
Se da un lato questa setta si opponeva ai ricchi possidenti locali, dall’altro
essa riuscì anche a intimorire anche l’intera popolazione.
Altro
sulle SETTE CARBONARE E LIBERALI DI TERRA D’OTRANTO
Altro
su SISTEMA FEUDALE IN TERRA D’OTRANTO
Ricerche a cura del dott Giovanni Greco;
dott in Conservazione dei Beni Culturali, con laurea in archeologia industriale, è studioso e autore di numerose ricerche sul Salento, Erasmus in Germania nel 1996, ha viaggiato per venti anni in Italia e in Europa, ha lavorato un anno in direzione vendite Alitalia nell’aeroporto internazionale di Francoforte, ha diretto per cinque anni la sezione web di un giornale settimanale cartaceo italiano a Londra, libero professionista, videomaker, artista raku, poeta, webmaster, blogger, ambientalista, presentatore, art director, graphic designer, speaker radio, giornalista freelance Internazionale iscritto presso l’agenzia GNS Press tedesca, collabora come freelance con diverse realtà sul web e sul territorio locale. Dal 1998 è direttore responsabile della rivista on line “BelSalento.com – arte, storia, ambiente, politica e cultura della Terra dei Due Mari – Servizi di Fruizione Culturale”.
Giovanni Greco
fonte http://belsalento.altervista.org/terra-dotranto-1800-feudalesimo-mai-terminato-allombra-dei-borbone/
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Posted by altaterradilavoro on Feb 7, 2019
L’epoca seconda di
queste memorie non sarà creduta da’ posteri. Io racconterò fatti incredibili,
ma veri.
Ora cominciano le diserzioni dei soldati e degli uffiziali, la viltà e le
inesplicabili ritirate de’ Generali, ove non si vogliano chiamare
vergognosissimi tradimenti.
Un’anima nobile e
dignitosa rifugge da queste rimembranze: è troppo tristo ricordare come una
prode armata di circa 100,000 uomini fosse stata distrutta non già dal nemico,
ma da varii dei capi stessi, i quali disonorarono il proprio paese, e quella
divisa gallonata, che con tanta burbanza indossavano.
La striscia di sangue
che bagnò la via da Boccadifalco a Gaeta sgorgò solamente dalle vene de’
soldati, i figli del popolo, e dell’ufficialità subalterna e se non fosse stato
per questi, l’onor militare del disgraziato Regno di Napoli sarebbe rotolato
nel fango.
Gli scrittori
garibaldini descrissero pugne omeriche; ma la storia imparziale dirà, che le
bande garibaldine sarebbero valse meno delle bande siciliane, se non fosse
stata l’ignavia, la viltà, e il tradimento di alcuni duci napoletani. I fatti
che racconterò saranno una splendida prova del mio asserto.
Dopo le vicende guerresche di aprile, la truppa era
rientrata ne’ quartieri, e riprendea le sue abitudini, e tutto sembrava quieto.
Il 13 maggio, corse voce, che Garibaldi fosse sbarcato in Marsala con 600
uomini di truppa piemontese.
Questa notizia fu
tenuta per una favoletta, una spiritosa invenzione. Tutti dicevano: l’hanno
detta assai grossa.
Conciosiachè le
relazioni diplomatiche tra Torino e Napoli fossero cordiali, e quindi non era
da supporre che quel Governo volesse tentare un’invasione in un Regno amico,
senza alcuna ragione, almeno apparente, e senza intimazione di guerra, come si
usa ne’ paesi civili.
Tuttavia la sera di
quel giorno 13, la notizia venne confermata ufficialmente, ma corretta in
questo modo: che Garibaldi fosse sbarcato in Marsala con più di 1000 volontari
vestiti con camicia rossa: che i legni di guerra napoletani, cioè la fregata
Partenope, e i due vapori Stromboli, e Capri, non avessero potuto impedire lo
sbarco di quei volontari, perché protetti da due legni di guerra inglesi,
l’Intrepido e l’Argo, partiti due giorni prima dalla rada di Palermo: che
Garibaldi non venisse in Sicilia a far la guerra per ordine del Governo Sardo,
ma per aiutare la rivoluzione siciliana.
Queste notizie furono
accolte con entusiasmo dalla truppa; tutti desideravano essere condotti a
Marsala per combattere Carlobardi, così i soldati chiamavano Garibaldi farsi
onore ed ottenere decorazioni e gradi militari. Vi era pure un certo dispetto,
che uno straniero si venisse ad immischiare nelle nostre lotte politiche.
Garibaldi, in Marsala,
non trovò cordiale accoglienza. Il Municipio andò via, i marsalesi agiati
fuggirono, le vie erano deserte. Di che fortemente indignato fece occupare le
porte della città dai suoi volontarii, e dichiarò lo stato di assedio.
È necessario qui
notare, che Garibaldi appena toccata la terra siciliana, che dovea redimere
dalla schiavitù, per primo atto del suo inqualificabile potere dichiarò lo
stato di assedio in una città non ostile, ma riservata e indifferente alla
libertà e redenzione che volea largirle.
Il 14 maggio, Garibaldi
ed i suoi volontarii partirono per Salemi, paese 20 miglia dentro l’isola, ove
fu incontrato dal celebre padre Pantaleo di Castelvetrano, frate de’ Minori
osservanti, oggi ammogliato e libero pensatore.
Alcuni duci gallonati
di Palermo invece di attendere ed arrestare la marcia di Garibaldi, si
bisticciavano tra loro: aveano perduta la bussola prima di mettersi in mare.
Nondimeno dovendosi decidere a qualche cosa, si decisero pessimamente, cioè
mandarono il generale Landi a combattere Garibaldi. Il Landi era stato
comandante del 9° cacciatori, ed io non avea inteso buone notizie intorno alla
sua delicatezza amministrativa e capacità militare.
Landi partì per Alcamo;
il 14 maggio radunò in quella piccola città più di 3000 uomini di truppa
scelta, avidissima di battersi: avea cannoni, cavalleria, e tutto quello che fa
di bisogno ad un piccolo corpo di esercito in campagna. Il contenersi del
Generale in Alcamo era come se si trattasse di una passeggiata o parata
militare, in che riuscivano mediocri non poca parte de’ duci napoletani. Landi
non prendeva alcuna precauzione, non dava quegli ordini che si richiedevano,
avendo il nemico quasi di fronte: stava inoperoso.
Spinto dagli ordini
urgenti del Luogotenente Castelcicala, si partì d’Alcamo per Calatafimi. Il 15
maggio anche Garibaldi con i suoi volontari, e le squadre siciliane, che avea
raccolte, si spinse verso Calatafimi.
BATTAGLIA DI CALATAFIMI
Garibaldi si fermò prima di giungere a Calatafimi, e
sembrava incerto di ciò che si dovesse risolvere. Vedendo la truppa di fronte,
cercò scansarla; lasciò la via e prese i monti.
Landi per mostrare di far qualche cosa, prima che comparisse Garibaldi, avea
spinto verso Salemi il maggiore Sforza comandante l’8° cacciatori, ma con
quattro sole compagnie, per fare una ricognizione militare, e se attaccato,
ritirarsi.
Giunto lo Sforza non
più lungi di un tiro di fucile da’ garibaldini, vide che lasciavano la via e
prendevano i monti per evitare un combattimento. A questo i soldati non si
contennero e si diedero a gridare che volevano battersi ad ogni costo. Il
comandante Sforza protestò che avea altri ordini dal Generale, ma lo scambio
delle fucilate cominciava, e lo Sforza finì di secondare il desiderio de’ suoi
soldati, spingendosi alla loro testa ed attaccò vigorosamente i garibaldini.
La mischia fu
terribile: i garibaldini si erano appiattati a terra, ed in quellaposizione
facevano un fuoco ben nutrito. Prevalse però la bravura e disciplina delle quattro
compagnie, e le bande rosse furono sgominate ed inseguite.
Menotti Garibaldi che
portava una magnifica bandiera tricolore, venne ferito ad un braccio, ed
obbligato di consegnarla ad uno de’ suoi compagni. Questi fu ucciso da un
soldato napoletano di nome Angelo de Vito, il quale s’impadronì della bandiera
che poi fu portata a Palermo. Era certa la disfatta di Garibaldi; de’ suoi, chi
fuggiva, chi combatteva in disordine.
Il Landi, che
certamente tutto vedea ed osservava da lungi, invece di spingere altri
battaglioni che avea disponibili per compiere la non dubbia vittoria, diede
l’ordine della ritirata, e cominciò a retrocedere verso Alcamo, senza avvertire
il maggiore Sforza, il quale inseguiva i garibaldini. Costui avvertito che la
colonna si ritirava verso Alcamo, non volle crederlo; quando poi si accertò con
i suoi propri occhi, credè prudente anch’egli di ritirarsi, chè già cominciava
a difettare di munizioni.
I garibaldini vedendo quella inesplicabile ed inattesa
ritirata della colonna Landi, presero animo: coadiuvati dalle squadre siciliane
che non aveano preso parte in quel combattimento, diedero addosso a’ regii, e
la scena cambiò totalmente.
In quella disordinatissima ritirata della truppa cadde una mula che portava un
obice. I soldati lo buttarono in un burrone, e di colà fu poi raccolto da’
garibaldini che ne menarono gran vanto.
Nella ritirata di Landi
fu grandissima confusione. I battaglioni disorganizzati marciavano alla
ventura, mischiati con carri, artiglieria o cavalleria: vi era un caos! Giunti
ad Alcamo furono attaccati da’ ribelli che tiravano fucilate dalle finestre e
da’ balconi: i soldati risposero con incendiare molte di quelle case ove si
facea fuoco vivissimo. Lo stesso avvenne al passaggio di Partinico.
Il Landi fuggiva alla testa di quella truppa che avea
disorganizzata, e demoralizzata, e cambiava strada appena avea notizia di
qualche piccola banda che lo inseguiva.
Fu il primo ad arrivare a Palermo, ove fu seguito poi dalla sua colonna in
massimo disordine ed affamata.
Garibaldi a Calatafimi
perdette centodieci volontari. Se le sole compagnie dell’8° Cacciatori,
equivalenti a meno di cinquecento uomini, lo sbaragliarono e gli fecero quel
danno, qual sarebbe stata la fine della temeraria impresa del futuro dittatore
delle Due Sicilie, se Landi si fosse battuto con tutti i suoi?
Ma Garibaldi avea forse
certezza che il duce napoletano si sarebbe condotto come realmente si condusse,
ove si volesse ammettere come vera la notizia non mai smentita, e che io come
semplice cronista riporterò: cioè che Landi avesse ricevuto da Garibaldi per
prezzo della sua condotta, una fede di credito di quattordicimila ducati, che
il Banco di Napoli trovò poi falsa, cioè, era di soli ducati quattordici; e che
ne morì di dolore sorpreso da un colpo apoplettico.
Il fatto d’armi di
Calatafimi segnò la caduta della Dinastia delle Due Sicilie; imperocchè il
generale Landi non fu chiamato a dar conto della sua vergognosissima condotta,
ed inesplicabile ritirata; ma quello che fa più meraviglia si è, che rimase al
comando della brigata che avea disorganizzata e demoralizzata. Questo esempio
incoraggiò i duci, o vili o traditori, a tradire impunemente.
INSEGUIMENTO DI
GARIBALDI
Dopo Calatafimi,
Garibaldi ingrossando sempre le sua bande di nuovi rivoluzionari, marciò per
Alcamo, Partinico, e fece alto in un piccolo villaggio detto il Pioppo, tre
miglia incirca sopra Monreale, meno di sette da Palermo, ove si trovavano
ventimila uomini di buona truppa, e benissimo equipaggiata.
Dopo il fatto d’armi di
Calatafimi il Luogotenente Castelcicala si dimise dall’alta sua carica e partì
per Napoli. Corse voce nell’armata che si sarebbe recato a Palermo con l’alter
ego il Conte generale Giuseppe Statella. Questa notizia fu accolta con
entusiasmo, dapoichè il nome degli Statella era popolarissimo in tutta
l’armata.
Quel Generale nato da
una famiglia assai distinta, e di una antichissima aristocrazia siciliana,
oltre di essere sufficientemente istruito, avea quelle qualità che si
richiedevano alle condizioni dell’Isola: fedeltà incrollabile a’ Borboni,
ereditaria nella famiglia Statella, un coraggio da reggere a qualunque prova,
attivissimo, una fermezza di carattere ammirabile, severissimo per la
disciplina militare: del resto uomo semplice e cordiale.
Era un uomo che non
sarebbe venuto meno in qualsiasi difficoltà militare o diplomatica, perché in
que’ casi avrebbe operato sempre alla soldatesca; oso affermare che avrebbe
disubbidito al proprio Sovrano, se costui gli avesse dato un ordine da
compromettere la Dinastia, o la dignità militare. Lo Statella si sarebbe fatto
condannare da un alto consiglio di guerra anzichè eseguire un ordine
pregiudizievole al Regno, alla sua dignità di gentiluomo e di Generale.
Oh! se il generale
Statella fosse andato a comandare l’armata di Sicilia con pieni poteri, oggi
Garibaldi non si chiamerebbe da’ suoi ammiratori liberatore e redentore
dell’Italia Meridionale. Ma la setta che circondava il giovine sovrano, invece
di mandare in Sicilia uno de’ pochissimi Generali che avrebbe salvata la
Dinastia e il Regno, scelse il generale Lanza, che finì di uccidere l’armata di
Palermo.
Il 20 maggio giunse in
Monreale il colonnello Won Meckel col 3° cacciatori esteri, detti svizzeri, ma
erano un’accozzaglia di svizzeri, francesi, boemi e bavaresi, de’ quali molti
aveano combattuto sotto Garibaldi nel Varese.
Giunsero altri
battaglioni e si formò una brigata sotto il comando di Meckel con i seguenti
battaglioni: 3° esteri, 2° cacciatori, comandato dal maggiore Murgante, 9°
cacciatori comandato dal maggiore Bosco, quattro compagnie del 5° di linea
comandate dal maggiore Marra, quattro cannoni di montagna, pochi cacciatori a
cavallo, e la compagnia d’armi di Palermo comandata dal capitano Chinnici.
Tutti incirca quattromila uomini. In Monreale rimasero altri tre battaglioni
sotto il comando del colonnello Buonanno.
Il 21 maggio la brigata
Meckel marciò sul Pioppo. Sopra la Casina di Buarra trovammo gli avamposti di
Garibaldi, erano bande siciliane. Appena cominciò il fuoco coteste bande si
ritirarono sopra la montagna. Io vidi due soldati esteri che conducevano, anzi
strascinavano un prigioniero, un’uomo già disarmato, e tra loro vi era un
diverbio animatissimo.
Temendo che quel
prigioniero patisse qualche sinistro, chiamai due soldati napoletani e corsi ad
incontrare que’ tre. Il malcapitato era un uomo su’ 30 anni, senza cappello, in
gran disordine. Gli aveano strappato il fucile, e se l’avea preso uno dei
soldati esteri:gridava come un energumeno, dicendo: vili satelliti della tirannide,
lasciate libero un cittadino che combatte per la libertà della sua patria, ed
altre parole diceva, contro i soldati e contro il Sovrano.
Fortuna per lui che i
soldati esteri neppure intendevano l’italiano, sebbene i due soldati napoletani
capivano benissimo il dialetto siciliano, ed uno di questi alzò il fucile per
darlo in testa al prigioniero: io lo contenni. Seppi che quel prigioniero
faceva la professione di notaio in un paese vicino, ebbi a pregarlo e
minacciarlo perché tacesse. Egli cercava di convertire i soldati e me con essi:
io gli dissi di nuovo di tacere, altrimenti l’avrei abbandonato al suo destino,
perché i soldati napoletani cominciavano a mormorare contro di me. Persuasi i
soldati esteri a cedermi il prigioniero, lo ricondussi alla retroguardia
raccomandandolo ad un uffiziale mio amico. Forse altri direbbe, quel notaio
prigioniero essere un gran patriota, ed io affermo ch’era un gran fanatico, un
gran pazzo da catena.
La brigata Meckel si
avanzava baldanzosa contro il Pioppo. Una compagnia di cacciatori, comandata
dal capitano Giudice, spiegata da fiancheggiatori, era giunta sopra l’alta
collina che domina il Pioppo. Io vidi che i garibaldini fuggivano in disordine
verso Partinico, e vidi che più di 50 carri di equipaggi aveano presa la stessa
via. In quella sento la nostra tromba battere a ritirata. Io non volea credere
né ai miei occhi, né a’ miei orecchi. Ritirata…! e perché? Vedo venire Bosco
con una faccia che mettea paura: martirizzava il cavallo su cui montava, era al
colmo dell’irritazione. Io che non era soggetto alla disciplina militare quanto
erano soggetti gli uffiziali, ed avendo molto confidenza col Bosco, gli dissi:
ritirarci, e perché? mi rispose con parole sdegnose ed inintellegibili e passò
via.
Non ho avuto mai sicura
certezza della vera causa di quella inesplicabile ritirata. Il Meckel non potea
esser sospetto né di viltà né di tradimento; quindi non si parlò che di un
ordine superiore venuto da Palermo, cui tutti attribuivamo quella ritirata che
sembrava inesplicabile.
Intanto i soldati
mormoravano e cominciavano a profferire la parola tradimento, e non si faticò
poco a farli ritornare alla volta di Monreale.
Il capitano del Giudice
mi dicea: dal sommo della collina, ove mi trovavo, avrei potuto distruggere la
metà de’ garibaldini, facendo scorrere delle grosse pietre sopra di loro, ed
avrei potuto benissimo tagliar la ritirata sopra Palermo: ma fu necessità
ubbidire e ritirarmi.
Si giunse in Monreale;
e lasciato tranquillo il nemico più pericoloso, che ormai avevamo nelle mani,
si risolvette di mandare il capitano del Giudice con la sua compagnia a
sorvegliare la valle di S. Martino ch’è dietro i monti di Monreale al Nord-Est.
Costui giunto in quella valle fu assalito da una moltitudine di bande siciliane
guidate da Rosolino Pilo, il quale fu ucciso in quel conflitto.
Garibaldi al Pioppo
aspettava la rivoluzione di Palermo, e vedendo che non iscoppiava, come gli
aveano promesso, trovandosi seriamente minacciato da’ regii, la notte del 21
maggio, riunì i suoi già dispersi per la paura che aveano avuta del tentato
attacco della colonna Meckel, prese la via de’ monti a destra e marciò
versoParco, piccolo paese fabbricato a metà della costa di una gran montagna,
dirimpetto Monreale dalla parte del Nord-Est.
Fece una divisione in due colonne, una comandata da
lui accampò sull’alta montagna in un luogo detto Pizzodelfico, l’altra
comandata dall’ungarese Turr occupò Parco.
In Monreale era molta truppa e stava in ozio, perché si attendeano gli ordini
da Palermo. Intanto i soldati erano condannati a stare a bracciarmi in quella
che vedeano i garibaldini a Parco o su la montagna, occupati pacificamente alle
manovre militari.
Le mormorazioni de’
soldati cominciavano ad inquietarci, e non avvenne una rivolta militare perché
né Bosco, né Meckel poteano cadere in sospetto di tradimento. Questa condizione
di cose durò tre lunghi giorni. Se quello fu un tempo prezioso per Garibaldi,
io lo lascio pensare a quelli che conoscono i raggiri della setta, e l’attività
del duce nizzardo.
ENTRATA AL PIOPPO E IN
PARCO
Finalmente la sera del
23 venne l’ordine da Palermo di attaccare i garibaldini. La brigata Meckel
marciò la mattina seguente per la via di Renna per prendere i garibaldini di
rovescio. Il generale Colonna partì da Palermo con un’altra brigata per
attaccarli di fronte. Verso le 6 del mattino i soldati di Meckel avevano
raggiunto Pizzodelfico, e si scagliarono contro i garibaldini, ma questi non
opposero che piccola resistenza, e fuggirono inseguiti sulla cima della
montagna, ove soffersero non poco danno a causa de’ luoghi alpestri e scoscesi:
i soldati erano avvezzi a quelle marce, vantaggio che non aveano i nemici.
Un grosso distaccamento
entrò in Parco dalla parte dell’ovest: Turr e i suoi fuggirono sulla montagna.
Il generale Colonna era intanto alle mani con le bande siciliane fortificate
nella semipianura sotto Parco, dalla parte di Palermo; dopo di avere fugate
quelle masse di gente armata che combattea da dentro le case di quella
campagna, si avanzò su Parco, ove non trovò più nemici da combattere.
In cambio d’inseguire
un nemico che fuggiva in disordine, e tanto più che le bande siciliane
cominciavano a sciogliersi, e dar la volta verso i loro paesi, si diede ordine
che la truppa restasse lì ove era; e così il nemico ebbe il tempo di riaversi e
riordinarsi. Si vide che il generale Lanza che comandava da Palermo non volea
far davvero.
Io entrai in Parco, e
trovai che il paese era stato manomesso da’ garibaldini e dalle bande
siciliane. La maggior parte degli abitanti erano fuggiti all’arrivo de’
garibaldini. Le povere donne e i fanciulli rimasti si erano rifugiati nelle
Chiesa madre, altre donne e fanciulli nell’unico monastero che vi era in quel
paese.
Mi diressi a quelle
poche persone che incontrai, e seppi ove si erano rifugiate le donne ed i
fanciulli. Mi recai alla Chiesa, trovai uno spettacolo tristo: il sacro tempio
era gremito di quegli infelici spaventati e piangenti. Io feci di tutto per
confortarli, e li persuasi a seguirmi, assicurando loro che li avrei ricondotti
nelle proprie abitazioni. In fatti mi convenne far molti viaggi per condurli in
diversi punti del paese. Le povere monache mandarono una persona a pregarmi che
mi recassi subito al monastero, ove trovai un’altra scena desolante. La maggior
parte di quelle donne, riparatesi nel monastero, erano ammalate, quali svenute,
tutte spaventate.
Molte di quelle donne
mi seguirono, ed io le condussi alle proprie case. Però le derelitte monache
stavano sempre in gran paura, perché la sera precedente si era tentato scalare
le alte mura del monastero. Io a volerle difendere da qualunque aggressione, me
ne andai subito a pregare il comandante Bosco che mi assegnasse un
distaccamento di soldati da me scelti per guardare quel monastero, per quietare
la paura delle monache. Il Bosco non se lo fece dire, mi diede subito 30
soldati, ed un sergente di mia fiducia, i quali si posero a far la guardia
intorno al monastero.
Ne’ tre giorni che i
garibaldini dimorarono in Parco, furono scassinati non pochi magazzini, in
particolarità quelli che conteneano vino, e tutto era stato messo a saccheggio.
Ladri del paese, garibaldini e squadre siciliane, tutti aveano saccheggiato,
chi più chi meno.
Qui debbo avvertire che
i soldati della brigata Colonna, i quali rimasero nel paese commisero azioni
indegne non solo di chi veste una divisa militare, ma di chi è nato in paesi
civili. Quei soldati istigati da’ ladri del paese, e sommamente digiuni, perché
la truppa tante fiate restava digiuna per la incuria de’ comandanti, finirono
di saccheggiare magazzini già saccheggiati, e ne saccheggiarono altri.
Alcuni compagni d’armi
rubavano pure nelle case deserte de’ proprietarii. La sera del 24 maggio il
Parco era un disordine indescrivibile. I soldati della brigata Colonna erano
quasi tutti ubbriachi, e non sentivano più né preghiere né minacce. Io mi
rivolsi a molti uffiziali perché mi aiutassero a mettere a dovere i soldati, ma
nulla ottennero. Il male lo fecero i duci, i quali lasciarono così affamata la
truppa in un paese mezzo saccheggiato. Io non credo di errare se dico, che
alcuni duci napoletani fomentassero indirettamente que’ disordini per
disonorare la causa del proprio sovrano, che fingevano di difendere.
Fortuna per le povere monache che il distaccamento
datomi da Bosco, vegliò intorno al monastero per tutta quella infausta notte.
Io addolorato e vergognoso di que’ disordini che vedea, e che non potea impedire,
uscì dal paese salì un poco la montagna, e mi recai al Camposanto, ov’era
accampato il 9° cacciatori, ed ivi passai la notte coricato sopra le sepolture.
La mattina del 25 di
buon’ora battè la generale, e tutti partimmo per la piana de’ Greci. La truppa
si riunì tutta sulla montagna, cioè tra le due brigate di Meckel e l’altra di
Colonna, e da lì marciò in ordine di battaglia.
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