Alta Terra di Lavoro

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CAVOUR (sesta parte)

Posted by on Lug 28, 2017

CAVOUR (sesta parte)

cavour, il tessitore freddo e calcolatore

A mezzanotte, in un incontro a Monzambano, Cavour fu informato, in un tempestoso colloquio, dei risultati degli incontri che avrebbero portato, di lì a pochi giorni, alla firma dell’armistizio di Villafranca l’11 luglio del 1859 che concluse la guerra franco piemontese all’Austria. A questo colloquio assistette il solo Costantino Nigra, suo protetto e collaboratore preferito, il quale non si risolse mai a mettere per iscritto l’intero resoconto dei fatti.

Il caldo era soffocante; il re, in maniche di camicia, comunicò a Cavour, con grande imbarazzo, i risultati della sua diplomazia personale. Cavour era paonazzo per la rabbia e respirava a fatica. Doveva soffrire di quello che Hudson, l’ambasciatore inglese, era solito chiamare “uno dei suoi consueti afflussi di sangue alla testa”. Il conte Arrivabene, inviato speciale del Daily News di Londra, che li aspettava fuori della porta, notò, quando uscirono, il colore apoplettico di Cavour: il presidente del consiglio aveva perduto il controllo di sé e “sembrava quasi uscito di senno”. È a questa circostanza che il re dovette riferirsi quando in seguito parlò di Cavour con Sir James Hudson. “Qualche volta Cavour – disse Sua Maestà – nell’impeto della rabbia ha preso a calci tutte le sedie di questa stanza. Mi ha chiamato traditore e anche peggio, ma io attribuivo questi eccessi al suo temperamento collerico, e in tali momenti me ne stavo tranquillamente seduto, prendendo appunti sull’argomento che lo aveva portato al parossismo, e quando si calmava gli leggevo i miei appunti. Dopo questi scoppi di rabbia era solito ricomporsi e riacquistare la calma. Credo che in quei momenti smarrisse l’uso della ragione, perché dopo sembrava non ricordarsene; di conseguenza mi sono spesso domandato se Cavour poteva rappresentare per noi una sicura guida politica”. Dopo le dimissioni di Cavour, in seguito all’armistizio di Villafranca, il sovrano commentava: “È un pasticcione che mi caccia sempre in qualche guaio; è un matto, e gliel’ho detto spesso che era matto; sguazza nei pasticci, come in Romagna e Dio sa dove! Ha fatto il suo tempo: mi ha servito, ma adesso non può più continuare a servire” (VE).

la tela del tessitore

La storiografia ufficiale ha individuato i quattro punti nodali dell’azione diplomatica del Cavour: la guerra di Crimea, la pace di Parigi, i colloqui di Plombières e la capacità diplomatica di costringere l’Austria alla guerra. La storiografia ufficiale elogia il genio di Cavour che con la spedizione di Crimea avrebbe messo le premesse dell’aiuto inglese e francese per l’ingrandimento territoriale piemontese nella pianura padana, scacciando gli austriaci dall’Italia, cosa che puntualmente avvenne cinque anni dopo, quando Napoleone III conquistò la Lombardia e la regalò al Piemonte. Come vedremo più avanti, tutto questo era credibile perché verosimile, infatti gli interessi dei Savoia e di Napoleone coincidevano ed anche perché Napoleone III era interessato alla diminuzione dell’influenza austriaca in Italia come era parimenti interessato a distogliere l’attenzione dei francesi dalla politica interna ed era, infine, interessato a riportare la Francia alla preminenza tra le nazioni europee, come era sotto il suo predecessore Napoleone I. Dalla partecipazione alla guerra di Crimea e dalla partecipazione alla conferenza di pace di Parigi sarebbero nati gli accordi segreti del 10 dicembre 1858 tra il Piemonte e la Francia, sulla base dei colloqui di Plombières, con la conseguente guerra all’Austria. Vediamo.

la guerra di crimea

Durante la guerra russo turca che si sviluppava in oriente, il 26 gennaio 1855 il Regno di Sardegna sottoscrisse un trattato con la Francia e l’Inghilterra, alleate dei turchi contro i russi, in base al quale si impegnava a fornire 15 mila uomini, un reggimento di cavalleria e 36 cannoni. La guerra, cosiddetta di Crimea, si concluse con la sconfitta dei russi, con la morte di oltre 2 mila piemontesi e con i Savoia che si sedettero al tavolo della pace che fu sottoscritta a Parigi il 30 marzo 1856.

mazzini sulla crimea

“Quindici mila fra di voi – scriveva Mazzini in un appello ai soldati che stavano per partire per la Crimea e in una lettera aperta al Cavour – stanno per essere deportati in Crimea. Non uno forse tra voi rivedrà la propria famiglia. Per servire un falso disegno straniero, le ossa vostre biancheggeranno calpestate dal cavallo del cosacco” (MC). Considerazioni: Con il senno di poi, molti storici ufficiali hanno visto nella partecipazione del Piemonte alla guerra di Crimea, la sagacia di Cavour. Un’altra interpretazione, invece, chiarissima ai contemporanei, è quella per cui il Piemonte non facesse altro che continuare la sua tradizionale politica mercenaria. Mi dilungherò su questo argomento poiché è stata questa la vicenda che ha dato al Cavour fama di grande politico e fine diplomatico. Le cose probabilmente [sicuramente] non stanno così.

armate inglesi e francesi in crimea

Il 14 settembre 1854 sbarcarono sulla costa occidentale della penisola di Crimea 28 mila francesi, 29 mila inglesi e 7 mila turchi. Fino alla fine delle ostilità la Francia inviò 309 mila uomini e l’Inghilterra 96 mila (R3), La Gran Bretagna, i cui punti di forza erano la marina, la diplomazia e la finanza, ma non l’esercito di terra, fu costantemente, nel corso di tutta la guerra, alla ricerca di truppe da inviare in Crimea. Dall’ottobre 1854 all’aprile del 1855, su una forza media in campo di 28.939 uomini, l’esercito inglese ne perdette 11.652, di cui 10.053 per malattia (R3). Alle conseguenze militari di questo stato di cose si aggiungevano i gravi danni che esso recava al prestigio internazionale della Gran Bretagna e alle relazioni con l’alleato francese, che finiva per assumere la supremazia sul teatro delle operazioni, non senza, per di più, qualche dubbio sull’impegno dell’alleato insulare (R3). Il 23 dicembre 1854 la regina Vittoria sanzionò una legge che autorizzava l’arruolamento di mercenari stranieri, vecchia pratica, questa, da parte britannica, fino a un massimo di 10 mila uomini. Subito dopo ebbe inizio una intensa attività di reclutamento in questa direzione, che avrà qualche successo in alcuni Stati tedeschi, in Svizzera e nel regno sardo. Gli arruolati piemontesi nel gennaio 1856 arrivarono a 2 mila (R3). Anche gli arruolamenti nella milizia territoriale inglese erano lontani dal raggiungere le previsioni, e alla fine di aprile 1855 il corpo contava solo 25 mila uomini, mentre si era contato su 60 mila reclute nel corso dell’anno. I proprietari terrieri inglesi erano decisamente contrari all’arruolamento, a tempo indeterminato, dei loro dipendenti, che riduceva le disponibilità di manodopera, lasciando per di più le famiglie a carico della tassa dei poveri; e d’altra parte le notizie che dilagavano sulle sofferenze dei soldati in Crimea contribuivano drasticamente a raffreddare gli entusiasmi (R3).

la gran bretagna chiese truppe al piemonte

Il 15 novembre 1854 il primo ministro Palmerston richiamava l’attenzione del collega Russell sulla impossibilità che i progettati arruolamenti all’estero potessero fornire truppe pronte all’impiego prima dell’estate: e suggeriva di prendere al servizio britannico “some ready made and disciplined force” “delle forze già pronte e disciplinate”, da mettere subito agli ordini di lord Raglan: 6 mila portoghesi, 10 mila spagnoli, 10 mila piemontesi. Russell scriveva a Hudson “to ascertain whether Piedmont would give us 10 or 15.000 men in our pay to be placed under our Commander in Chief in the East” “di accertarsi se il Piemonte volesse fornirci 10 o 15 mila uomini pagati da noi da mettere sotto il nostro comandante in capo nell’Est” (R3). Il governo di Torino, rifiutata la proposta di inviare truppe al soldo dell’Inghilterra, accettava di aderire all’alleanza e di inviare non 10 ma 15 mila uomini comandati da un generale agli ordini di lord Raglan; chiedeva però un prestito, non sussidio, britannico di due milioni di sterline al 3 per cento, rimborsabili alla pace a condizioni da stabilire; chiedeva inoltre l’ammissione della Sardegna ai negoziati di pace e l’impegno da parte degli alleati a ottenere dall’Austria la revoca dei sequestri dei beni dei lombardi esuli in Piemonte, e a prendere in considerazione la situazione italiana a fine della guerra. L’impegno alleato sui due ultimi punti doveva essere consacrato in due articoli segreti. Il consiglio dei ministri inglese rigettò tutte le condizioni piemontesi: la partecipazioni del regno di Sardegna ai negoziati di pace veniva rifiutata, e gli articoli relativi ai sequestri e alle condizioni dell’Italia dopo la guerra, parimenti esclusi. Altrettanto negativo l’atteggiamento del governo francese. Drouyn de Lhuys, ministro degli esteri francese, temeva soprattutto di scontentare l’Austria, della cui alleanza era a Parigi il più strenuo fautore, specie in quel momento delicatissimo, alla vigilia dell’accordo franco austriaco di reciproca garanzia in Italia; e riteneva le proposte piemontesi inaccettabili. L’ambasciatore inglese a Torino, Hudson preparò allora un documento nel quale ammorbidiva le richieste del Piemonte (R3). Si attendeva, per la decisione, il ritorno dell’inviato francese, duca di Guiche, a Torino. Il duca però era convinto che la stessa concezione liberale di stampo britannico, professata da Cavour, nasceva in buona parte da studi e pregiudizi teorici che la conoscenza della realtà inglese non era bastata a raddrizzare: ed essa gli sembrava “un mélange batard des istitutions belges et des doctrines de Cobden” “una mistura bastarda tra le istituzioni belghe e le dottrine di Cobden” che non aveva “rien de commun avec le véritable gouvernement de la Grande Bretagne” “niente di comune con il vero governo inglese”. Le crescenti difficoltà incontrate dal regime liberale piemontese a partire dalla seconda metà del 1853 incrinarono il suo iniziale apprezzamento delle capacità politiche del conte che nell’agosto 1854 egli giudicava “un despote au petit pied et un homme qui fait tout a demi” “un despota senza alcuna base ed un uomo che fa tutto a metà”; senza, tuttavia, che altri gli apparissero migliori, perché “il n’y a pas ici un seul homme d’état”, “non esiste neanche uno statista”. La conclusione da lui ricavata era che di fatto il vero ed effettivo potere a Torino risiedeva nelle mani del ministro di Francia: sia che si volesse continuare a servirsi degli strumenti ortodossi della politica e della diplomazia, sia che si decidesse di imboccare la via rivoluzionaria. Su questo atteggiamento di fondo erano destinate a naufragare le ultime speranze del ministro degli esteri Dabormida in una favorevole accoglienza delle richieste piemontesi da parte degli alleati (R3). Da parte piemontese si diede allora notizia che il governo aveva deciso di inviare il ministro della guerra presso le corti alleate: ma ciò provocò una violenta reazione del duca di Guiche, che nell’iniziativa dichiarò di vedere una prova di sfiducia nei rappresentanti alleati che rasentava la scorrettezza, e si spinse fino a dire che La Marmora sarebbe stato “mal ricevuto”. Aggiungeva che la Sardegna restava liberissima di conservare la sua neutralità. Era un ricatto. Ma Cavour sapeva che la rottura del negoziato avrebbe segnato la fine del regime liberale in Piemonte: e dunque, facendo forza ai suoi sentimenti personali, fu egli stesso ad accettare le proposte anglo francesi, senza condizioni. La sera del 10 gennaio veniva sottoscritto il verbale in cui erano incluse le formule, in verità abbastanza anodine, ottenute da Cavour, e con esso i progetti dell’atto di accessione alla alleanza e della annessa convenzione militare. I testi definitivi dei tre documenti furono firmati a Torino il 26 gennaio 1855. Gli accordi militari, con le relative clausole finanziarie, diedero anche luogo a un seguito importante delle trattative. Alla iniziale proposta piemontese di un prestito di due milioni di sterline, si era replicato, da parte britannica, che, in mancanza di precise stipulazioni per il rimborso, non di un prestito si trattava ma, in realtà, di un sussidio; che un interesse ragionevole non poteva essere inferiore al 4 per cento; che un corpo di 15 mila uomini costava all’Inghilterra, dove la spesa era mediamente più elevata, 600 mila sterline l’anno, e che dunque una somma annua di un milione avrebbe largamente coperto i costi che la Sardegna doveva affrontare per il suo corpo di spedizione. In seguito però ai rilievi del cancelliere dello scacchiere Gladstone e di altri esponenti del governo britannico, e per evitare che alla Camera dei Comuni si parlasse di sussidio mascherato, si aggiunse l’obbligo per la Sardegna di mantenere il corpo di spedizione in numero con adeguati rinforzi, e si regolarono i pagamenti sardi in ragione del 4 per cento (R3). Considerazioni: Il Piemonte, orgogliosamente, non accettò che i suoi soldati fossero pagati come mercenari, voleva fornirli da alleato. Unico problema: non aveva come mantenerli, quindi chiese in prestito i soldi. Solo che, invece di chiedere in prestito la somma che occorreva a mantenere i soldati, 600 mila sterline, cioè 15 milioni di lire, ne chiedeva due milioni, cioè 50 milioni di lire. Il giornale Armonia (19, 20, 30 gennaio 1855) sostenne che l’alleanza fosse avvenuta a condizioni “non troppo onorevoli”, che da essa vi erano da attendersi solo “umiliazione, guerra e debiti”, e che alla sua origine v’era la disperata situazione finanziaria, la quale soltanto aveva indotto Cavour a “vendere” 15 mila soldati piemontesi per “un imprestito di 25 milioni” (R3).

Carmine De Marco

Fonte brigantaggio.net

(dal libro Revisione della Storia dell’Unità d’Italia)

 

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