Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Che cosa dice l’opera che si racconta? di Adriana Dragoni

Posted by on Apr 12, 2018

Che cosa dice l’opera che si racconta? di Adriana Dragoni

Gli ampi girali dei larghi viali d’accesso alla Reggia-Museo di Capodimonte suggeriscono il passeggiare lento e contemplativo di un mondo che fu. E un modo diverso di vivere. E da vivere, a volte, anche ora, se si potesse. Questo giardino da favola ci conduce al settecentesco palazzo borbonico. Dove, all’interno, al primo piano, c’è la sala numero Sei.

Un luogo un po’ defilato, un posto raccolto, dove è in mostra un’opera sola, la quale, attraendo l’esclusiva attenzione del visitatore, si fa guardare e racconta di sé: della sua arte, del suo autore e del suo tempo. “L’opera si raccontaè un’iniziativa museale giunta alla terza edizione.

Per la prima edizione, vi era stata in mostra La parabola dei ciechi di Pieter Bruegel il Vecchio (1525/1569), una sorta di amara parabola  del progressismo. Poi, per la seconda edizione, uno stupendo dipinto di Antoon Van Dyck (1599/1641): la crocifissione di un Gesù, che, spingendo verso l’alto il suo spasimante bellissimo corpo greco, scivolava via dalla croce, verso il Cielo.

Ora lo sostituisce un altro antico dipinto religioso. È una Sacra Conversazione. Si tratta di un gruppo di Santi. Sono riuniti in una chiesa, in uno spazio grigio, stretto, sviluppato in altezza, che slanciate membrature gotiche spingono verso l’alto e due file laterali di sottili colonne costringono verso il fondo. Le colonne sulla sinistra vi vanno quasi d’infilata; a destra, invece, quasi inavvertite spezzature fanno virare il colonnato e, storcendolo, restringono lo spazio. Che offre, nel porticato, oscure aperture verso un tortuoso cammino.

Vi si muovono, lontano, sperdute, un paio di figurine sbiadite. L’atmosfera è inquietante. Sulla parete destra, in alto, si scorgono dei pallidi rilievi dalla cornice ondulata, che sembrano allontanarsi dalla loro ombra grigia, come fantasmi. E, sulla stessa parete, stranamente appoggiato, sporge un oggetto (un organo?), dipinto di rosso, che può suggerisce l’assurdo surrealismo di un Salvador Dalì, e richiama, con il suo colore, quello della gonna della Madonna in primo piano. Qualcosa di misterioso vibra nello spazio della chiesa. Una visione intrigante. Una composizione spaziale dalla logica dubitativa, nella quale l’autore del dipinto sembra esprimere l’angusto arzigogolare di un’incerta anima religiosa. Il suo nome, ufficialmente, è Konrad Witz. (1400/1445).

Il dipinto  è della prima metà del Quattrocento. E testimonia appunto il tempo in cui la Chiesa viveva, con il Grande Scisma d’Occidente, un periodo incerto, travagliato e inquietante. C’erano stati tre papi e ognuno di loro era stato contro gli altri due. Fin quando un Concilio (1414/18) li eliminò tutti e tre, elesse un nuovo papa e condannò alla morte sul rogo Jan Huss (1369/1415) e il suo maestro, il teologo britannico John Wyclif (1330/1384), il quale, essendo già morto, fu scavato dalla fossa e, secondo legge, fu buttato anche lui tra le fiamme.

E non finì qui. Vi furono altre beghe.

Il Concilio si tenne nella città di Costanza, nella Germania meridionale. Appunto il luogo dove nacque e trascorse la sua prima giovinezza Konrad Witz.

Il suo dipinto è tipico della cultura artistica dell’Europa nordica del tempo. Che – è stato osservato – era molto diversa dalla contemporanea cultura italiana.

Infatti, mentre nel Nord Europa lo spazio si stringeva e complicava, proprio allora, a Firenze nasceva, con Masaccio (1401/1428), la  prospettiva toscana, che creava uno spazio più largo, più chiaramente delineato, stabile e sicuro. Nel frattempo, nel Sud Italia ci si attardava, fin quasi al Cinquecento, (come nei magnifici polittici napoletani dell’ignoto Maestro di San Severino e del semisconosciuto Francesco Cicino da Caiazzo) a dipingere il fondo d’oro: uno spazio pieno di luce, libero da limiti prospettici, in cui vivono volumetriche figure già rinascimentali, ricche di pathos e di umanità.

A Napoli, nel Quattrocento, c’era anche Colantuono (1420/1465), il maestro di Antonello da Messina, che dipingeva, nel San Girolamo nello studio, il curvo spazio raccolto e accogliente di una stanza affollata da oggetti di vita quotidiana. Con quella resa realistica delle cose che era anche nelle opere dei tanti suoi allievi e che è stata attribuita all’influenza di pittori fiamminghi. Ma che può essere considerata anche locale eredità della molto più antica pittura magnogreca.

Però è molto più interessante notare, in proposito, un’altra opera di Colantuono, San francesco che dà la regola, perché le pieghe spigolose delle vesti delle monache in questo dipinto sono molto simili a quelle dell’ampia veste della Madonna nella Sacra Conversazione di Witz. Sono considerate di scuola borgognona. A testimonianza del fatto che Colantuono era sempre attento agli apporti che artisti da tutto il mondo portavano nella capitale del Regno. Mentre Witz – è stato detto- aveva appreso i modi pittorici borgognoni durante un suo soggiorno nelle terre di Borgogna.

Il mondo dell’Europa centro-nord e quello mediterraneo, pur così diversi, tuttavia anche allora comunicavano tra loro.

E non è da dimenticare che questi mondi erano tra loro uniti da quel cristianesimo che, secoli prima, aveva, con San Pietro, attraversato il mare ed era approdato nel continente europeo. E proprio a Napoli – sembra – come attestano molte prove (e alcune altre le ho trovate anch’io).

Era l’epoca, quella di Konrad Witz, in cui il nostro continente era attraversato da mercanti, artisti e cavalieri erranti. Mentre, con il commercio, si sviluppavano le città. Che offrivano, a fronte dei travagli in cui la Chiesa si dibatteva, una più ottimistica visione della vita.

Insieme ai viaggiatori, viaggiavano anche i codici miniati, che così diffondevano i modi pittorici e le mode, anche quella delle vesti, nelle case dei ricchi committenti.

Ne troviamo testimonianza proprio nella Sacra Conversazione di Witz. Infatti, nella chiesa rappresentata c’è, sulla destra, un uscio che porta, saliti pochi gradini, all’aperto, a una quotidiana vita cittadina, che ha la luce naturale del giorno. Un’atmosfera rasserenante, tranquilla, di un colore chiaro, come i volti dei personaggi in primo piano: una Madonna, che si china verso il Bambino sul suo grembo, un san Giuseppe un po’ defilato e due Sante, forse aggiunte in un secondo tempo nel dipinto. Ebbene, i ricami sulla veste di una di queste Sante sono gli stessi  osservati in miniatura.

Appunto per illustrare il rapporto tra le miniature e le pitture dell’epoca, sono stati messi in mostra, nella sala numero Sei, alcuni codici miniati. Sono preziosi, bellissimi oggetti che, nelle lettere accuratamente disegnate a mano, realizzano l’unione tra pittura e letteratura. È una pittura dai vivaci colori e dalla linea variamente curva, la loro, che ingentilisce il mondo della natura e quello degli oggetti e delle figure umane.

Spesso, nei quattro angoli delle pagine, sono dipinti, con il rosso minio, con l’oro e anche con polveri di pietre preziose, elementi naturali e fiori. Più spesso, una vera e propria scena, dipinta in piccolo (in miniatura, ora si dice), orna la lettera iniziale, ingrandita, di un capitolo. Tra i codici miniati in mostra ci sono i “libri delle ore”, che  scandivano le ore con le diverse orazioni canoniche. Sono pure stati digitalizzati.

Le loro pagine scorrono sullo schermo digitale come girate dal vento. C’è anche un codice Chigi che riporta le note di una musica di Johannes Ockenghem, un musicista contemporaneo di Witz. E la musica dolcemente severa di un Ecce Ancilla Domini, ripresa dal codice Chigi e registrata, ora diffonde nella sala numero Sei il suono e il sapore di quel tempo passato. Storia e tecnologia.

Ma in questa mostra c’è anche dell’altro. C’è la stampa di un’opera di Konrad Witz, che rappresenta una rispettosa Maria Maddalena e un’altezzosa Santa Caterina. Inaspettatamente, questo dipinto sembra avere uno stile diverso da quello della Sacra Conversazione. L’atmosfera non vibra e la composizione non è così intrigante.

 

Gli elementi architettonici sono più grossi, l’altare sembra un cassone, le gonne delle due Sante sono eccessivamente ampie, ridondanti, hanno i panneggi inutilmente gonfi e le pieghe troppo innaturalmente realizzate. Le figure, poi, pur nella loro compostezza, hanno un che di forzato. E l’opera risulta meno raffinata, sia nell’esecuzione che nella immaginazione spaziale. Insomma il Konrad Witz autore di quest’opera in stampa sembra essere diverso dall’autore dell’originale in mostra.

Chi è, allora, il pittore della nostra Sacra Conversazione? O, meglio, qual è il suo vero nome?

p.s. Tutte le opere citate sono nel museo di Capodimonte.

Adriana Dragoni

fonte

agenziaradicale.com

 

 

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.