Alta Terra di Lavoro

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Dante e l’islam

Posted by on Mar 14, 2018

Dante e l’islam

E solo, in parte, vidi ’l Saladino»: nel canto IV dell’Inferno, verso 129, Dante incontra Salh-al-Din, sultano d’Egitto, Siria e Mesopotamia, fiero oppositore dei Crociati, ma stimato per le sue virtù guerriere e cavalleresche. Non è l’unico maomettano, che si ritrova nel Limbo: al suo fianco troviamo anche Avicenna ed Averroè, due filosofi persiani che Dante conosceva in traduzione.

Questa semplice presenza assieme a tanti spiriti nobili, ma non credenti e quindi esclusi dalle gioie del Paradiso (nel Castello degli spiriti magni dimorano i maggiori poeti dell’antichità, compreso lo stesso Virgilio; filosofi greci e condottieri romani; donne dell’antichità esemplari per virtù) ha scatenato la fantasia di chi vorrebbe Dante ammiratore dell’islam e non delle semplici virtù militari e cavalleresche del Saladino o della scienza di Avicenna e di Averroè, esaltato perché ammiratore di Aristotele (come Stazio viene esaltato in quanto ammiratore di Virgilio).

Inoltre, nella prima metà del Novecento, il gesuita Miguel Asín y Palacios (1871-1944) attraverso il suo studio L’escatologia musulmana nella Divina Commedia, sostenne la dipendenza della Divina Commedia da fonti islamiche, in particolare dal viaggio mistico di Maometto nell’aldilà (Mi’rāj), descritto nel Libro della Scala, che Dante avrebbe potuto conoscere in traduzione. Dopo di lui, molti altri hanno divulgato l’idea che la maggior parte dei contemporanei di Dante ammirassero la cultura, se non la religione, islamica e si è diffusa anche la leggenda – definitivamente confutata solo di recente da Sylvain Gouguenheim – che la filosofia medioevale fosse debitrice ai commentatori arabi addirittura della “scoperta” di Aristotele.

In realtà la stessa struttura linguistica dell’arabo avrebbe impedito una corretta trasmissione del pensiero filosofico, nato non a caso in Grecia, cioè in una terra che utilizzava un linguaggio ben più complesso e preciso, che impediva confusioni interpretative. Inoltre, una semplice lettura del Libro della Scala, scritto imitativo dell’Apocalisse cristiana, rende conto della distanza abissale tra il preteso archetipo arabo e il capolavoro dantesco.

 Maometto all’Inferno

Al di là di tali questioni filologiche e letterarie, rimane però il fatto – peraltro abbastanza ovvio – che, per ammirare l’islam, è necessario ammirare e rispettare anche la figura del suo fondatore, Maometto. Vediamo dunque come ce lo descrive Dante, che lo incontra non nel castello degli spiriti magni, bensì in Malebolge, per la precisone nella nona e penultima bolgia, dove sono puniti gli scismatici ed i seminatori di discordia, maciullati da un demonio con pesanti colpi di spada: il disgustoso («il modo della nona bolgia sozzo») spettacolo del carnaio cui viene costretto ad assistere, sostiene il Poeta, non sarebbe immaginabile neppure riunendo tutti i feriti gravi delle tante battaglie, che hanno insanguinato l’Italia meridionale dai tempi dei Romani fino alle recenti guerre tra Svevi ed Angioini.

Tra i tanti dannati, che pagano con il contrappasso di continui fendenti cui non possono opporsi e che li tagliano profondamente sempre nello stesso punto («fessi così») l’aver seminato divisioni in famiglie, Stati e religioni, il primo che si avanza verso il Poeta è proprio Maometto, paragonato ad una botte («veggia») che ha perso una doga centrale («mezzule») o laterale («lulla»): a dir poco cruda la descrizione dello squartamento a cui è sottoposto il Profeta, seguito dal nipote Alì.

Solo Miguel Asìn Palacios poteva vedere una «particolare benevolenza» in questa descrizione, per il fatto di porre Maometto non tra gli eretici, ma “solamente” tra gli scismatici (riducendolo, in tal guisa, alla vera religione). In realtà, egli avrebbe dovuto considerare come il metro di Dante consista nel porre le colpe peggiori più in basso: di conseguenza, essere puniti nel VI cerchio (come gli eresiarchi, appunto) equivale ad una condanna meno grave che esserlo nell’VIII, per di più quasi alla fine di esso. Se poi si confronta la nobiltà di un eretico come Farinata al disgusto che proviene dalla punizione inflitta a Maometto, se vi fosse qualche dubbio sul giudizio dantesco, esso verrebbe del tutto fugato.

Tanto è vero che, con buona pace degli entusiasti di un “Dante islamico”, proprio in virtù di questa apparizione di Maometto, nei Paesi musulmani il canto XXVIII dell’Inferno viene sempre espunto nelle traduzioni o addirittura, come avviene in Pakistan, l’intero poema viene vietato.

Nessuna influenza islamica

Ciò nonostante, altri due elementi vengono portati in favore della tesi filoislamica: l’idea stessa del contrappasso, si sostiene, proverrebbe da testi islamici e la presenza di Maometto nell’unico canto in cui questa parola viene esplicitata e sottolineata sarebbe una sorta di “segnale”. In realtà, come si può leggere direttamente, la figura maciullata di Maometto è descritta utilizzando termini di una durezza tale – si pensi alla descrizione delle viscere che fuoriescono dalla profonda ferita, alla circonlocuzione per definire lo stomaco («il tristo sacco»), alla lunghezza del taglio – da esser poco adatta al fondatore di una religione, ad un patriarca che si voglia realmente rispettare, se non addirittura onorare.

La linguista Maria Corti, nell’ultimo periodo della propria esistenza, avallò assurdamente la teoria delle fonti islamiche della Divina Commedia, tra l’altro facendo notare l’uso dell’arabismo meschite (donde moschea) per case, ad indicare le dimore dei diavoli in Inferno, VIII, 24. In realtà, già Tommaseo, nel suo Commento del 1837 lo aveva notato. Ma ne aveva dato un’altra – peraltro ovvia – interpretazione: «Meschite chiama quelle d’Inferno; come se le moschee fosser cosa diabolica».

Insomma, Dante, che da uomo del suo tempo ammirava le Crociate e riteneva che dovessero essere proseguite, che lamentava la caduta di Acri come un evento gravissimo per l’intera Cristianità e che chiudeva il suo capolavoro facendo recitare una toccante preghiera mariana a San Bernardo da Chiaravalle – cioè proprio lo stesso mistico delle Crociate, che nel suo celebre De Laude Novae Militiae definiva «malicidio» e non «omicidio» l’uccisione dei mori – non poteva che condividere pienamente la posizione del Santo a proposito dell’atteggiamento da tenere nei confronti dei nemici della Fede.

Le vere fonti di Dante

Sulle reali fonti del poema dantesco si è invece chiaramente ed irrevocabilmente espresso uno dei massimi dantisti italiani, Giorgio Petrocchi: «Le due vere “fonti” del poema sono l’Eneide di Virgilio, come costante ricordo d’una grande esperienza letteraria di descrizione di una discesa agl’Inferi, e la Bibbia, come somma di visioni profetiche, come grande costruzione mistico-visionaria. Accanto alle due “fonti” vere e proprie si colloca un’intensa lettura di classici pagani e cristiani, dall’Etica nicomachea e dalla Retorica di Aristotele al De officiis di Cicerone, dagli elementi morali insiti in Virgilio e in Stazio alle visioni mistiche dei Padri della Chiesa Occidentale, per giungere a sant’Alberto Magno, a san Bonaventura a san Tommaso d’Aquino: testi del tutto ignoti o comunque non operanti negl’indotti autori di poemi e poemetti duecenteschi». In sintesi, Bibbia ed Eneide, nonché cultura classica e civiltà cristiana medioevale.

Luigi Vinciguerra – Radici Cristiane

 

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