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Dominique Vivant Denon, il padre del Louvre, e Napoleone, razziatori di opere artistiche

Posted by on Giu 27, 2017

Dominique Vivant Denon, il padre del Louvre, e Napoleone, razziatori di opere artistiche

Uno straordinario individuo, a cui sono stati dedicati infiniti saggi e non pochi libri, è stato Dominique Vivant Denon, un uomo che aveva molto gusto e poche preferenze. Gusto, è vero, ma anche conoscenza, saggezza, curiosità. Il letterato e libertino, collezionista, seguì Napoleone in Egitto e in Europa (lo aveva conosciuto ancora giovane generale) realizzando per lui il museo più grande dell’età moderna. In nome della dea ragione e in nome e per conto della repubblica dei tagliateste e degli inventori della libertà e della fraternità, vennero inviati i gendarmi della cultura ad esigere i tesori artistici e a trasferirli a Parigi, dove riempiono tuttora le sale del Louvre. Un’nfinita teoria di dipinti, di bronzi, di marmi, lasciarono le sponde del Mediterraneo per convergere sulla Senna.

Quella buona lana di Napoleone, durante le campagne d’Italia, arricchì il nascente museo parigino di migliaia di opere e di oggetti artistici predati dai suoi eserciti, con la giustificazione che solo la libertà può offrire ai capolavori i progressi dell’arte e la protezione. Lui stesso accumulò circa 20 milioni, che verranno saggiamente ammministrati dal fratello maggiore, Giuseppe. Dei 50 milioni, frutto del primo sacco d’Italia, il Direttorio ne vide meno di dieci.

L’opera maggiore de Denon fu la riorganizzazione del Museo del Louvre, con le migliaia di statue e di quadri rastrellati dagli eserciti francesi in tutta Europa, principalmente in Italia. Goering e i nazisti furono timidi, i russi in Germania degli angioletti, in paragone di questo gigantesco saccheggio che il neobarone trasformò in vetrina della gloria imperiale. Si fa fatica ad immaginare quel che fu questo accumulo di capolavori, tra il 1802 e il 1815.Il

“Laocoonte”, l”Apollo del Belvedere”, la “Venere dei Medici” di Firenze, per le statue, e, per la pittura, i più illustri dipinti di Roma, di Venezia, di Firenze, di Bologna,  dalla “Santa Cecilia” di Raffaello Sanzio al “Concerto” del Tiziano, dalla “Deposizione” del Caravaggio alla “Santa Famiglia” di Andrea del Sarto, dalla “Leda” del Corregio alla “Madonna dal lungo collo” del Parmigiano, che festa in riva alla Senna!

E’ lì che il giovane Stendhal, senza doversi spostare, prese l’idea e il materiale per la sua “Storia della pittura in Italia”, il suo libro più scandalosamente trascurato. A Denon riconosciamo anche l’audacia (che non ebbe Stendhal, affascinato solo dal Cinquecento e dal Seicento) di considerare i “primitivi” (Cimabue, Giotto, Fra’ Angelico, Masaccio) come “l’epoca dello splendore delle arti in Italia”.  “Le nozze di Cana” del Veronese, tela troppo vasta per essere rimpatriata senza danni, sono restate al Louvre, il resto tornò in Italia o in Germania, dopo la disfatta della Francia. Del più favoloso museo di tutti i tempi, le ricchezze si dispersero, quando i vittoriosi Alleati ebbero ottenuto la restituzione dei loro beni. Che pensò Denon di questa seconda Waterloo? Si hanno queste righe, di suo pugno (che stile, per qualcuno che non era scrittore di professione!) : “Delle circostanze incredibili avevano innalzato un monumento immenso; delle circostanze non meno straordinarie vengono a rovesciarlo. Era occorso vincere l’Europa per formare questo trofeo; è occorso che l’Europa si unisca per distruggerlo.”

E lui, nel suo cuore, come giudicò l’ultima peripezia del suo destino? Riuscita malinconica di un’impresa effimera ? Bilancio deludente di una vita, la cui più alta ambizione fu annientata ? O gioiosa, trionfale constatazione che niente dura, che occorre prendere tutto come un gioco, essendo la cosa principale di stare in gamba, di battersi per le cause alle quali si crede, con l’elegante convinzione che, alla maniera delle avventure galanti, le avventure dello spirito non hanno “domani”.

Raimond Aron diceva : “I Francesi si ostinano a trattare da eroi Luigi XIV e Napoleone ai quali mancarono soprattutto saggezza e misura. “ In fondo, per il suo spirito di conquista, Napoleone non è un anacronismo in una Europa dove già trionfa, da Montesquieu, lo “spirito commerciale”.

La forza e il talento di Napoleone è di riuscire a terminare la rivoluzione e di rianimare questo potere caduto molto in basso. Il Bonaparte dota nello stesso tempo la Francia di uno Stato efficace, particolarmente grazie alla centralizzazione. Egli crea un Codice civile, impone le sue “masse di granito”.  Taine dirà che ha “fatto la Francia moderna”. Tutto ciò è da mettere a credito di Napoleone. Però quest’uomo carismatico, secondo la concezione di Max Weber, va ad essere, poco a poco, soverchiato dal potere, che è tanto più fragile in quanto ingrandisce. Queste sono le due facce di Napoleone. Il suo genio della riconciliazione, attraverso il Concordato, il ritorno degli emigrati, la pace di Amiens (1802), eccetera, ha per rovescio un ebbrezza del potere, quel “sole nero della potenza”, che fa che la caduta è inscritta nelle difficoltà dell’avventura.

La storia mostra che Napoleone è condannato al fallimento, ma, se si esaminano i fatti da vicino, ci si accorge che egli ha mal negoziato alcune svolte essenziali e ha probabilmente sovrastimato la capacità reale della Francia a dominare, da sola, l’Europa. In economia, nelle finanze, in diplomazia e in geopolitica, Napoleone  cede, in un certo senso, alle illusioni dell’iperpotenza. Quello che lo perde è la sconnessione tra la sua visione personale e la realtà politica del Paese e dell’Europa.  Jean-Claude Casanova dice talora che Napoleone ha risolto i problemi del XVIII secolo, mentre gli inglesi risolvevano i problemi del XXI secolo. E’ molto giusto.

Molte cose si spiegano con la precarietà del potere, che, sin dall’origine, trascina il Corso in una fuga in avanti. Questa fragilità è sorprendente sin dal colpo di Stato del 18 Brumaio e dalle due cospirazioni  del 1800 e del 1804 (che conduce all’esecuzione del duca d’Enghien). Quest’uomo di potere resta un uomo fragile. Egli ha paura. Queste lacune di legittimità lo conducono a due rilanci: il primo, è la scelta dell’eredità con la consacrazione del 1804 e, il secondo, la scelta della conquista istituita con il Blocco continentale (1806), con il quale Napoleone prova a “conquistare il mare grazie alla potenza terrestre”, come disse lui. In mancanza di poter condurre direttamente in Inghilterra, Napoleone tenta di isolarla dal continente. Egli diviene aggressore, quando la Francia, a Marengo, ad Austerlitz o a Iena, era stata l’aggredita. Il potere cambia la natura. Napoleone si è tagliato fuori dalla Rivoluzione nel 1804 e si è tagliato fuori dall’Europa nel 1806. Un malinteso fondamentale si instaura in questo momento  tra quest’uomo e la società francese, che aspira più che mai alla pace.

Questa politica di conquista si giustificherebbe con la legittimità fragile

di Napoleone?

La legittimità non è una questione teorica per Napoleone, ma è un soggetto

che l’ha assillato, perchè è accaduto in un momento della storia in cui non si sa più dov’è la legittimità. Quella del Bonaparte sta nel fatto che egli l’ha spuntata su Sieyès, ma basterebbe che  giunga un altro uomo provvidenziale perché  l’avventura si concluda. E’ per questo che Napoleone si vedrà assieme nazionale, monarchico, nuovo Carlomagno e rappresentante della nazione, eccetera. Al bivio delle legittimità, il Bonaparte scelse tutte le strade assieme. Ed infine egli non sarà mai sicuro di conservare il potere. Certamente Napoleone perde piede dopo il 1807; egli perde anche il senso della misura. Però, prima di questa data, l’ambiente internazionale non gli è favorevole. Le vecchie ambizioni diplomatiche, lo scontro secolare tra la Francia e l’Inghilterra, questa “seconda guerra dei Cento Anni”, come diceva Gaxotte, ritornano in primo piano. Fino al 1807, il Bonaparte non è ancora l’elemento centrale del gioco, perché, dopotutto, se fosse stato, a questo punto, il nemico dell’Europa, questa non avrebbe atteso il 1813 per creare una coalizione generale contro di lui. Fino al 1807-1808, Napoleone è ancora utile a molti in Europa, perché permette una buona distribuzione delle carte. E probabilmente il suo errore è che, in questi momenti-cardine, egli non sa cogliere l’occasione.

L’Europa non comprende immediatamente la minaccia rappresentata da Napoleone. Lo stesso Bonaparte crede di rassicurare l’Europa con la consacrazione. C’è dunque un malinteso in partenza. Crediamo che, in materia di legittimità, occorre  accogliere la straordinaria ambizione di Napoleone. Egli intende riconciliare l’Ancien Régime e la Rivoluzione. E’ questo che spiega la sua bulimia riformatrice. Napoleone sovrappone le legittimità, quella del capo di guerra, con la quale si impone, ma anche la legittimità politica. Con la consacrazione del 1804, accumula il globo del Sacro Romano Impero  Germanico, la corona di alloro di Cesare, il sacro crisma dei Borboni, Carlomagno, il giuramento costituzionale, eccetera. Egli ha anche la volontà di aggiungervi la sovranità  popolare, attraverso il plebiscito nel 1804. Però questa legittimità politica si logora molto presto. Infine, è con la conquista che Napoleone va a provare a restaurare la sua originaria legittimità. “La conquista mi ha fatto quello che sono, dice il Bonaparte. La conquista sola può mantenermi.” Però il potere è allora sospeso alla vittoria. Da ciò questa fuga in avanti e questa metamorfosi dell’uomo, partendo dal Blocco. A questa svolta maggiore del regno corrisponde d’altronde il mutamento fisico e morale dell’Imperatore. I suoi lineamenti si appesantiscono, egli diviene impaziente ed odioso, una sorta di depressione si impadronisce di lui. Napoleone si chiude, si isola nella sua corte.

Nulla obbligava il Bonaparte a creare una corte, ma lo spirito di corte, con i suoi calcoli, i suoi complotti e le sue bassezze, esiste ben prima della creazione della corte imperiale. Sin dalla partenza, Napoleone ha provato a dominare le ambizioni di tutti gli attori del suo tempo, quelli che hanno guadagnato i loro galloni sul campo di battaglia come quelli che rientrano dall’emigrazione. Egli crede di poter tenere in sospeso con le vanità. Però le vanità, una volta soddisfatte, si stancano del rischio. Lo spirito di conservazione uccide allora lo spirito di conquista. L’esempio dell’esercito è eloquente. Nel 1814 Napoleone ha l’esercito con lui, ma non ha più i marescialli…Pensiamo che, se c’è una lezione da trarre dall’esperienza, è che la corte è intimamente legata al potere. Essa si trasforma secondo i regimi. Lo spirito di corte è ancora più pericoloso dopo la rivoluzione, poiché è più sotterraneo. Tocqueville diceva che “le repubbliche democratiche mettono lo spirito di corte alla portata del più gran numero e lo fanno penetrare in tutte le classi”. Occorre, quando si ha coscienza di questo pericolo, tentare di arginare questo spirito, particolarmente con il volontarismo politico.

In ultima analisi, possiamo dire che l’impresa napoleonica è votata al fallimento, perché essa non è riuscita a stabilire rapporti armoniosi tra il potere e la società.

 

  Alfredo Saccoccio

 

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