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Eschilo, La vita e le opere

Posted by on Lug 21, 2017

Eschilo, La vita e le opere

Eschilo nacque nel 525 a.c. a Eleusi, presso Atene, da una famiglia aristocratica. Iniziò giovane l’attività di poeta tragico (499 a.c.) e vinse per la prima volta un agone poetico nel 484 a.c.

Partecipò alle guerre persiane combattendo nell’ esercito cittadino a Maratona (dove suo fratello Cinegiro si distinse cadendo mentre inseguiva i nemici) e dieci anni più tardi, nel 480, a Salamina. Dopo la rappresentazione dei Persiani (nel 472 a.c.), venne invitato a Siracusa presso la corte del tiranno Ierone, per il quale compose una tragedia (Le Etnee) allestendo nel contempo una ripresa dei Persiani. Trascorso poco tempo, tornò in patria, ma, dopo la rappresentazione dell’Orestea (458 a.C.), si trasferì definitivamente in Sicilia e mori a Gela nel 456 a.C. Sulla sua tomba di poeta e guerriero venne inciso un epigramma, che sembra avesse dettato egli stesso: «Questa tomba in Gela ricca di messi racchiude Eschilo figlio di Euforione: il suo nobile valore lo potrebbero raccontare il bosco di Maratona e il Persiano dalle lunghe chiome che l’ha sperimentato» (da un’anonima Vita di Eschilo).

 

Ottenne tredici vittorie negli agoni teatrali, e il suo favore presso il pubblico ateniese rimase inalterato anche dopo la morte, tanto che i suoi drammi ottennero un onore eccezionale per il secolo V: quello di essere riportati sulla scena anche postumi e di ottenere altre quindici vittorie. Di Eschilo sono noti i titoli di settantanove opere, fra tragedie e drammi satireschi; ne sopravvivono sette – fra cui una trilogia completa, l’Orestea – oltre a vari frammenti di tradizione indiretta o papiracea: Persiani del 472 a.C., Sette contro Tebe  del 467 a.C., Supplici circa del 465-460 a.C., Prometeo incatenato  di data incerta e la trilogia dell’Orestea (458 a.C.), costituita da Agamennone, Coefore ed Eumenidi.

 

  1. Eschilo poeta

La forma della trilogia

Le tragedie di Eschilo devono essere considerate nell’ottica della trilogia, all’interno della quale ciascun dramma non rappresenta che una fase. A ciò si deve la scelta del poeta di portare sulla scena saghe mitiche di ampio respiro, sviluppate per esteso nei tre drammi della trilogia; il tutto si compone in un’ architettura complessa, dove l’energia intellettuale e artistica dell’ autore si dispiega con una grandiosità che sarà caratteristica della più elevata tradizione tragica. I drammi di Eschilo hanno la solenne rigidezza dello stile arcaico; sono opere in cui l’azione procede lentamente, con un linguaggio ricco di invenzioni verbali: neologismi, epiteti complessi, metafore, scarti di pensiero quasi visionario. La scenografia ha un’incisività e un’imponenza pittorica; a Eschilo – che fu regista e per lungo tempo attore dei suoi stessi drammi – si attribuivano tra l’altro varie innovazioni nel campo della messinscena e della danza coreutica, in particolare l’introduzione del secondo attore.

 

Personaggi a una sola dimensione

I suoi personaggi sono stilizzati, come grandi statue parlanti ancora ammantate dalla grandezza arcaica del mito, ciascuna chiusa nel suo mondo impenetrabile: caratteri inflessibili che si scontrano senza mai piegarsi e affrontano sino alle estreme conseguenze il proprio destino. Gli eroi di Eschilo non sono dunque psicologicamente realistici, nel senso moderno della parola, ma nemmeno – come talvolta è stato detto – si riducono a pure funzioni dell’azione drammatica. Essi sono personaggi «a una sola dimensione» perché presentano, amplificato sino al parossismo, un solo lato della loro personalità, percorso da passioni talmente assolute e totali da apparire scolpito in forme definitive. Mancano certo agli eroi di Eschilo il lavorio del dubbio, l’incertezza interiore, la capacità di evoluzione psicologica. Il suo è un mondo ancora sovradeterminato in cui i personaggi, per quanto animati da una fortissima volontà di autoaffermazione, si scontrano con una rete di forze invisibili che ne limitano l’autonomia: la maledizione che si propaga all’interno di una famiglia come un contagio; il destino che si presenta implacabile a reclamare i suoi debiti; l’azione degli dèi che intervengono a ristabilire l’equilibrio alterato dalle azioni criminose degli uomini.

 

Una psicologia primitiva

Le pulsioni psicologiche che si agitano all’interno di un individuo vengono sempre tradotte in termini oggettivi, secondo il principio arcaico che attribuisce gli impulsi interiori a un sistema di interventi esterni (demoni e forze maligne), che a ogni passo ostacolano l’uomo conducendolo verso il baratro della colpa e della sciagura. Queste energie – hybris, “violenza”, ate, “accecamento”, e il mondo sotterraneo delle Erinni punitrici o del demone che sconvolge la mente di una persona e la perseguita portandola alla rovina – formano il tessuto culturale su cui s’innesta il sistema di valori dei personaggi di Eschilo e del suo pubblico. Al di sopra dello spazio umano c’è il mondo sereno degli dèi olimpici, chiamati a garantire la giustizia; il teatro di Eschilo si sviluppa quindi su tre piani sovrapposti (cielo-terra-mondo sotterraneo) che fanno parte di un medesimo sistema religioso e teatrale e collegano tra loro in un nesso saldo gli uomini con le loro vicende e il mondo delle forze invisibili, sia divine sia demoniche, che li accompagnano passo dopo passo.

 

Il tema della giustizia

In questo quadro diventa centrale il tema della “giustizia” (dike) e del suo operare nelle vicende umane; su questo punto Eschilo è erede di quei poeti-pensatori arcaici, come Esiodo e Solone, che avevano posto il problema della giustizia divina al centro delle loro opere. Il concetto non assume tuttavia in Eschilo lo stesso valore: la giustizia non regola i rapporti sociali e la vita pratica, ma assume un carattere più astratto e religioso (nel senso greco del termine): è la grande legge che gli dèi impongono al mondo, la forza universale che spiega l’ apparentemente inesplicabile casualità degli avvenimenti e regola con bilance esattissime la colpa e la punizione. La grande sfida intellettuale di Eschilo è appunto la rivisitazione del mito, con il suo groviglio di violenze e crudeltà, alla luce di questa idea moralmente più evoluta.

 

Eschilo e le strutture di pensiero di un mondo in declino

I temi fondamentali delle tragedie eschilee si collocano, in buona parte, al di fuori dell’individuo. Essi sono da inquadrare piuttosto nelle strutture sociali del mondo greco arcaico: la vendetta, il conflitto tra diritto familiare e diritto della polis; l’uomo nei suoi rapporti con la collettività, la politica, la giustizia divina, il legame delittuoso che unisce inestricabilmente un individuo alla sua famiglia e alla comunità in una catena di odio, secondo l’arcaico principio della contaminazione collettiva che si estende da una generazione all’ altra come un contagio. La rivisitazione dei miti avviene nella prospettiva della città ateniese poiché, qualunque sia il luogo in cui viene ambientato il dramma, è verso Atene che innanzitutto il tragediografo rivolge lo sguardo.

 

Fra mondo arcaico e Atene classica

Eschilo non appartiene dunque pienamente all’epoca classica, ma rappresenta piuttosto l’ultima espressione della cultura arcaica, con il suo rigido sistema di valori, non ancora percorsa dalle forze dell’ «illuminismo» greco del secolo V. Nella sua opera domina l’elemento del visionario: fantasmi, spettri, demoni operano all’interno dello spazio drammaturgico dove agiscono personaggi dotati di un’emotività così animata da generare situazioni di acceso patetismo.

 

  1. Lingua e stile

Il fondatore del linguaggio tragico

La lingua di Eschilo è il prodotto anch’essa di una concezione elevata della tragedia; in realtà, Eschilo può essere considerato il vero fondatore del linguaggio tragico, che con lui acquista una forma specifica e un timbro originale. E un linguaggio «straniato», lontano dalla quotidianità per scelta lessicale e strutture sintattiche, oltre che per l’organizzazione del pensiero. C’è in Eschilo una fortissima tendenza all’invenzione verbale, quasi che la lingua ereditata dalla tradizione poetica risultasse inadeguata alle necessità della nuova forma letteraria: neologismi in numero straordinariamente ampio (varie centinaia di parole mai prima attestate), ricerca di metafore ardite sino al visionario, epiteti composti, spesso accumulati in serie.

 

Eschilo adotta le forme tipiche dello stile arcaico (come la composizione «ad anello»), con una forte densità espressiva nelle parti corali, con metafore e immagini che si accumulano.

 

  1. L’Orestea

Una trilogia della maturità

La trilogia dell’Orestea fu rappresentata nel 458 a.C. nell’ambito di un concorso drammatico in cui ottenne fra l’altro la vittoria: essa appartiene dunque alla fase più matura della produzione eschilea. La vicenda si sviluppa in tre drammi che affrontano ciascuno un momento della saga degli Atridi: l’arrivo di Agamennone da Troia e il suo assassinio per mano della moglie Clitemnestra, con la complicità di Egisto (Agamennone); il ritorno in patria del figlio Oreste, che per ordine di Apollo vendica il padre uccidendo la madre ed Egisto, ma che per questo delitto viene assalito dalle Erinni (Coefore); la fuga di Oreste ad Atene dove, sottoposto a un processo presieduto da Atena e Apollo, viene infine assolto, mentre le Erinni si placano e divengono Eumenidi, le “benevole” (Eumenidi).

 

Le trame

Agammenone

Troia è stata espugnata e, dopo dieci anni di assenza, Agamennone sta per tornare a casa. La notizia è accolta a palazzo in un’atmosfera di angosciosa attesa in cui sono evocati fatti luttuosi (tra cui l’uccisione di Ifigenia) e vengono espressi funesti presentimenti. Quando Agamennone sbarca, la moglie Clitemnestra lo accoglie con gioia simulata. Al seguito del re, come sua concubina, è Cassandra, la figlia di Priamo a cui Apollo ha dato il dono della profezia; con parole ambigue Clitemnestra attira lo sposo nella reggia, facendolo passare su un tappeto di porpora che lo condurrà però non verso il trionfo, ma verso la morte. Poco prima di entrare nella reggia, Cassandra, lasciata sola, evoca in una visione tutti gli orrori della stirpe degli Atridi e predice il dramma che sta per compiersi dentro la casa. Si avvia quindi rassegnata incontro al proprio destino. Si ode a questo punto il grido di Agamennone che viene pugnalato a tradimento. La porta del palazzo si apre e lascia vedere il suo cadavere nudo disteso su un lenzuolo insanguinato, con accanto quello di Cassandra; sopra di loro sta Clitemnestra, con una scure gocciolante sangue. È la regina stessa – e non un messaggero, come normalmente avviene in questi casi – a narrare il delitto, e il punto di vista soggettivo conferisce al breve racconto una connotazione di ferocia persino voluttuosa, in quella descrizione dei colpi vibrati e ripetuti e della fontana di sangue che sprizza dal corpo di Agamennone. Ora finalmente Clitemmnestra può rivelare senza ambiguità il suo odio, covato dal tempo in cui il suo amore materno era stato oltraggiato dal sacrificio di Ifigenia. Una donna ha vendicato una donna, come in seguito un uomo (Oreste) vendicherà il padre. Ecco ora apparire Egisto circondato da un gruppo di armati. La scena finale mostra finalmente insieme i due complici, ai quali si contrappone in un agitato scambio di battute il coro, inorridito per l’enormità del delitto. L’alterco è interrotto da Clitemnestra, calma e padrona della situazione. E le sue parole finali chiudono come un circolo l’azione, annunciando che in questa reggia «non bene come un tempo amministrata» è tornato un – sia pure diabolico e crudele – ordine.

 

Le Coefore

Sono passati molti anni; sulla scena entra Oreste, ormai adulto, insieme al suo fedele amico Pilade. Oreste recide un ciuffo di capelli, e li depone sulla tomba del padre come pegno di vendetta. Ma ecco apparire un corteo di donne vestite di nero, che porta sacrifici propiziatori per il defunto (il coro, che dà il titolo al dramma: Coefore significa infatti “portatrici di offerte”): è stata Clitemnestra a ordinarli, in seguito a un sogno angoscioso. Insieme a loro entra Elettra, la sorella di Oreste, il quale si apparta per osservare la scena. Grazie al ricciolo e all’ orma del piede lasciati sulla tomba paterna, Oreste viene riconosciuto da Elettra. Elettra, Oreste e il coro uniscono le loro energie per evocare l’ombra di Agamennone, in un canto lirico di eccezionale ampiezza in cui parole, danza e musica accanto al tumulo paterno creano un clima di suggestione magica. Viene così preparato il piano di vendetta: Oreste si fingerà uno straniero che porta la notizia della sua stessa morte. Dopo il canto corale, l’inganno viene perfezionato: Clitemnestra riceve la notizia della presunta morte del figlio e ne è vivamente addolorata. Poi accorre Egisto disarmato e subito scompare come inghiottito dalla reggia: di lì a poco verrà ucciso da Oreste, nelle stanze dell’orribile palazzo che ha già visto tanti delitti. La stessa sorte tocca quindi alla regina, che invano invoca la pietà del figlio. Oreste trascina fuori la madre deciso a sgozzarla sulla tomba del padre: i due si fronteggiano in un breve scambio di battute in cui la madre cerca invano di far leva sui legami ancestrali che la legano al figlio. Oreste la trascina via e la uccide. Ma per giustificare il matricidio non basta l’aver agito su consiglio di Apollo: dal terreno sorgono le Erinni vendicatrici della madre che costringono Oreste a fuggire in preda alla follia.

 

Eumenidi

Quando la tragedia inizia, Oreste si trova a Delfi, e dorme sulla soglia del tempio circondato dalle Erinni, anch’esse addormentate dopo il lungo inseguimento. L’intervento di Apollo gli assicura aiuto e protezione: il dio infatti lo affida a Ermes e lo fa accompagnare ad Atene perché sia sottoposto a giudizio; ma le divinità oscure punitrici non lo abbandonano. Compare lo spettro di Clitemnestra che ridesta i mostri sulle tracce dell’omicida. Ad Atene Oreste viene raggiunto dalle Erinni che compiono intorno a lui una danza terrificante. La dea protettrice della città, Atena, decide allora di istituire un tribunale, che sarà il futuro Areopago: davanti alla giuria – costituita da dodici cittadini ateniesi, e presieduta dalla stessa dea – Apollo, Oreste e, parte avversa, le Erinni sostengono le proprie ragioni. La parità dei voti espressi dai giurati sancisce, per decisione di Atena, l’assoluzione di Oreste. La furia delle Erinni viene placata dalla dea ed esse, da mostruose potenze vendicatrici, si trasformano in divinità protettrici di Atene (Eumenidi, le “Benevole”).

 

I temi di fondo della vendetta…

Ogni tragedia di questa trilogia ha una sua coerenza interna, ma tutte si inquadrano all’interno di un grande progetto drammaturgico, del quale ciascun dramma costituisce un anello. I temi trattati toccano i meccanismi alla base della polis arcaica e costituiscono una meditazione complessiva e profonda sulla cultura di tutta l’epoca arcaica. Il tema fondamentale della trilogia è la vendetta; e la vendetta – nella civiltà tribale – era un atto obbligatorio per compensare il sangue versato di un parente. Nell’Orestea la vendetta si organizza all’interno di un clan: il padre uccide la figlia, la moglie si vendica sul marito e il figlio sulla madre. La tragedia mostra, esaminando il fosco mito dinastico della casata reale di Micene (Eschilo tuttavia ambienta il dramma in Argo), l’inceppamento di questo meccanismo: qualunque atto di riparazione si trasforma in una nuova contaminazione, precipitando chi la compie in una colpa ancora più truce. Le radici di questa colpa, che si trasmette di padre in figlio come una malattia ereditaria, sono antiche: Atreo, padre di Agamennone, uccise i figli di Tieste; Agamennone immolò sull’ altare la sua stessa figlia Ifigenia; Clitemnestra, moglie di Agamennone, e 1’amante Egisto, un altro figlio di Tieste, insieme fanno scontare tutto questo sangue ad Agamennone; infine Oreste diventa a sua volta matricida. In questa saga nessuna generazione è dunque innocente: il delitto contamina interamente la stirpe.

 

… e della giustizia

Ma, accanto all’ antico tema tribale della vendetta di sangue, Eschilo introduce un altro elemento, fondamentale per lo sviluppo della trilogia: quello di Dike, la “Giustizia”, di cui gli dèi olimpici (e in particolare Zeus) sono garanti. A chi appartiene, infatti, la giustizia? Nel primo dramma Clitemnestra afferma: a chi riesce a conquistarsela con le proprie mani, facendo vendetta dei torti subiti. Nel secondo dramma, Oreste è scisso tra due opposte pulsioni, tanto dolorose da portarlo alla follia: infatti se risparmia la madre si renderà impuro agli occhi del padre morto, non compiendo la vendetta che le leggi del clan prescrivono; ma se la uccide si macchierà anch’ egli del sangue di un familiare e sarà matricida, contaminato per tutta la vita. La legge «meccanica» della vendetta e del sangue è rappresentata dalle Erinni, i demoni persecutori che non guardano alle ragioni morali o al complicato intrico delle passioni e degli affetti, ma solo all’ oggettività degli eventi: «hai tu versato il sangue di tua madre?» dicono le Erinni a Oreste.

 

Il diritto oggettivo delle Erinni

Siamo nell’ ambito del diritto oggettivo: qualsiasi siano le ragioni, anche se egli ha agito per ordine di Apollo, è stato violato un diritto. Da questo dilemma non si esce, però, con le vecchie norme della giustizia familiare; ed è qui che Eschilo introduce appunto altre forze, chiamate a regolare e a civilizzare: il tribunale, la città, le divinità cittadine – Apollo e Atena – non i «demoni antichi», come sono le Erinni, che provengono dal regno dell’ ombra.

 

La legge degli dei: apprendimento attraverso la sofferenza

Dal grandioso edificio dell’Orestea emerge una giustizia che non è nelle mani di chi la compie, ma in quelle degli dèi. Stabilire i limiti tra vendetta e giustizia, tra espiazione e colpa, spezzare i legami di morte e di sangue sembra fare parte della «giustizia imperiosa degli dèi». Essi stanno in alto, «seduti sul trono sacro» in un mondo perfettamente sereno, puro, giusto; di lì osservano le feroci e sanguinose vicende umane, né troppo indifferenti né troppo coinvolti in esse (com’erano gli dèi omerici). Sono gli dèi a imporre agli uomini una legge dura ma giusta: si impara attraverso la sofferenza (pàthei mathos). Solo chi soffre, chi passa attraverso questa prova che gli dèi pongono sul cammino che porta alla giustizia e alla verità, può riscattarsi: come avviene infine a Oreste, che è nello stesso tempo strumento di giustizia e matricida.

 

Il dramma di una stirpe

Ma la storia della famiglia degli Atridi non è solo quella di individui: è una vicenda collettiva, in cui ogni membro è connesso in una struttura più ampia, la famiglia in primo luogo e poi lo stato. Tutti i personaggi della trilogia, infatti, da Agamennone a Oreste, e persino le Erinni, non sono altro che un aspetto di questa famiglia stretta in un cerchio magico di contagio e di colpa. All’interno della trilogia questi temi si amplificano: perché se il primo dramma, Agamennone, parla essenzialmente di una donna che odia lo sposo, e il secondo (Coefore) di una faida familiare, il terzo sviluppa un problema di portata politica: il rapporto tra famiglia e stato, tra le arcaiche leggi del clan e quelle nuove della polis, proprio quella città che con Atene da pochi decenni stava vivendo 1′ esperienza della democrazia.

 

L’Argo mitica e l’Atene contemporanea

Così la tragedia che inizia ad Argo in un tempo mitico si chiude ad Atene nel tempo storico della polis, di fronte agli occhi di spettatori per i quali 1’Areopago – scenario del processo a Oreste – aveva ancora una funzione giuridica importante.

Così, mentre il mito defluisce nel presente della storia e mostra come nuovi costumi più giusti abbiano – in Atene – sostituito le vecchie leggi del clan, la tragedia assume anche valenze politiche (come giustamente sottolinea la critica), mostrando un mondo in cui finalmente tacciono i contrasti e rivalutando un’istituzione così antica e significativa per la polis ateniese.

 

Il carattere dei singoli drammi

Questo il tessuto della trilogia che si sviluppa come un testo drammatico di assoluta intensità. Ma le tre tragedie assumono ciascuna un tono diverso. L’Agamennone, ad esempio, è un solo, continuo, flusso di sangue: il sangue di Ifigenia (sgozzata dal padre sull’altare, per favorire la navigazione verso Troia), quello dei guerrieri massacrati sotto Troia, il tappeto di porpora rosso come il sangue dei caduti, e poi ancora l’assassinio dei figli di Tieste (evocato dalle allucinazioni della profetessa Cassandra) e quello di Agamennone scannato nella sua stessa casa. I canti corali sono di una complessità e un’elevatezza sia stilistica che intellettuale senza precedenti: si tratta di uno dei vertici assoluti del teatro mondiale, un’opera di enorme complessità stilistica ed espressiva, in cui il linguaggio tocca vertici di potenza forse mai altrove raggiunti da Eschilo o da un altro tragico antico.

 

La figura dominante di Clitemnestra

Quanto ai personaggi, la trilogia crea due figure fondamentali nella storia del teatro; in primo luogo Clitemnestra, che domina la scena con la sua astuzia, il suo odio, la sua ferocia intelligente, persino con la sua sensualità morbosa, per tutto il primo dramma, dove gli altri personaggi – Agamennone compreso – non sono altro che pupazzi nelle sue mani. È ancora Clitemnestra, nelle Coefore, a occupare la scena come vittima, una vittima però capace di mettere il suo giustiziere davanti a un dilemma senza uscita; e nelle Eumenidi, l’indomabile donna riappare pur dopo morta, come fantasma gonfio di rancore.

 

Il dubbioso Oreste e il “tiranno” Egisto

Il suo antagonista è Oreste, anch’egli un personaggio complesso: agisce ma è dominato dal dubbio; è un essere scisso, quasi amletico in questa sua incertezza tra l’uccidere la madre, violando il più viscerale legame che lega un uomo alla vita, oppure offendere la memoria del padre. Oreste rivela un aspetto originale per la psicologia del teatro eschileo, fatto di personaggi granitici e inflessibili: il dubbio, il dolore del folle, il rimorso, la sofferenza.

Come Agamennone, anche Egisto è un personaggio poco connotato, dominato dalla personalità di Clitemnestra: i suoi tratti salienti sono quelli tipici del tiranno da tragedia, un modello immediatamente avvertito come abominevole agli occhi del pubblico dell’ Atene democratica. Nella raffigurazione tragica, il tiranno è infatti un hybristés, un uomo che incarna il concetto stesso di dismisura, un uomo «avido di potere e insieme pauroso, empio, profittatore, disfrenato attentatore dell’onore femminile» (Diego Lanza). La legittimità della sua morte è fuori discussione: è stato un atto di giustizia.

 

 

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