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Finanze, economia e produzione delle Due Sicilie (1830-1859)

Posted by on Apr 10, 2018

Finanze, economia e produzione delle Due Sicilie (1830-1859)

Vi proponiamo un ampio stralcio di un interessantissimo e documentatissimo articolo di Alberto Servidio pubblicato sulla rivista l’Alfiere, articolo dedicato ad un attento esame delle politiche economiche realizzate dal re Ferdinando II; si rimane colpiti dal fatto che la politica economica portata avanti da questo sovrano, nel suo lunghissimo regno, è probabilmente esattamente l’opposto di quello che ci si potrebbe aspettare dal re di uno stato, considerato dalla storiografia ufficiale, come arretrato e corrotto: Ferdinando II portò avanti una politica economica fondata sull’azzeramento del deficit, politica realizzata non con un incremento di tasse ma, quasi esclusivamente, con una riduzione drastica della spesa improduttiva.
Ulteriore elemento di riflessione è il numero degli addetti alle attività manufattiere nel Regno delle due Sicilie: un numero record (1.350.000) con una percentuale sulla popolazione complessiva ampiamente superiore a quella esistente all’epoca nelle altre zone d’Italia.

Per tracciare un profilo della situazione finanziaria, economica e produttiva delle Due Sicilie durante il regno di Ferdinando II userò un metodo d’indagine del tutto nuovo. Verificherò, cioè, i risultati della gestione borbonica facendo largo ricorso a dati e teorie pubblici ed ufficiali prodotti nei primi anni ’60 dell’800 dagli avversari più preconcetti di quell’esperienza: gli “unitari”.

 

L’azzeramento del deficit

Premettiamo che Ferdinando II, salito al trono ad appena 20 anni, dette inizio al suo governo con un atto che dovrebbe essere studiato ed imitato – nella logica economica e nella correttezza della prassi politica – ancora oggi. Con il Decreto 11 gennaio 1831, infatti, pose in essere una serie di interventi per azzerrare  il deficit di bilancio preesistente e rese disponibile, come primo provvedimento, una cifra cospicua per ridurre la pur non alta tassa sul macinato.
Quel che è ammirevole di quel decreto – ancora oggi – è il criterio e la scelta di metodo. Vale la pena riassumerlo. Dunque, Ferdinando partiva dalla coraggiosa denuncia pubblica dell’esatto ammontare del vero deficit dello Stato (1.128.167 ducati). Quanti governi, ancora oggi, ricorrono ad artifici contabili che occultano la realtà! Senza contare che in quei tempi nessun monarca pensava neppure alla lontana di essere tenuto a denunce “sconvenienti” di quel genere. Ma quel che è ancora più sorprendente (lo si ribadisce, ancora oggi!) è il fatto che dopo quella ammissione “non” si facesse alcun riferimento a tasse, ma, anzi, venisse deciso come provvedervi indicando innanzitutto la riduzione per 180.000 ducati annui dell’appannaggio personale del re e per ulteriori 190.000 ducati annui la riduzione dell’assegnamento della famiglia reale. Ulteriori 350.000 ducati vennero recuperati sui costi delle amministrazioni della Marina e della Guerra e 351.665 ducati derivarono dalle riduzioni di disponibilità degli altri ministeri. Pareggiato il bilancio del 1831, Ferdinando rese immediatamente disponibile la residua somma di 110.050 ducati per ridurre la tassa del macinato.

Cominciò così una lunga fase di effervescenza economica, di incremento della ricchezza e delle basi produttive, che in un ventennio doveva portare la situazione finanziaria, economica e produttiva del regno ad un livello che – per il tempo – era di valore assoluto. Valga – a titolo di pura e sintetica esemplificazione – quanto scrisse e pubblicò nel 1863 un capitano dello Stato Maggiore Generale dell’ Esercito Sardo: il capitano A. Bianco di Saint Orioz:
“…II 1860 trovò questo popolo (ndr. Quello delle Due Sicilie) del 1859 vestito, calzato, industrie, con riserve economiche. Il contadino possedeva una moneta. Egli comperava e vendeva animali; corrispondeva esattamente gli affìtti; con poco alimentava la famiglia, tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale. Adesso è l’opposto… La pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita, cattedre letterarie e scientifiche in tutte le principali città di provincia. Adesso, invece…

Il debito pubblico

In 19 anni di governo le finanze pubbliche delle Due Sicilie raggiunsero una affidabilità ed una solidità assolutamente ammirevoli: i titoli del debito pubblico oscillavano tra i 115 ed i 120 rispetto a valori facciali di 100, perché gli interessi venivano pagati con puntualità, erano in linea con la media degli interessi corrisposti per i migliori titoli d’Europa, il capitale veniva puntualmente restituito.
Il debito pubblico, d’altro canto, era sostanzialmente modesto perché al 1860 oscillava intorno ai 35 milioni di ducati (150 milioni di lire/oro, a fronte degli oltre 600 milioni di lire/oro a cui assommavano tutti i debiti pubblici degli ex Stati della penisola annessi dal regno sardo).

Il prelievo fiscale

Il prelievo fiscale era sostanzialmente modesto (forse, “troppo” modesto): basti considerare che nei 1898 Vilfredo Parete (insospettabile di borbonismo) calcolò che fra il 1860 ed il 1891 le “sole” imposte comunali percette a sud erano pari all’intero prelievo fiscale borbonico pre/1860 da parte di Stato, province e comuni.
I dazi comunali borbonici (trasformati in imposte di consumo dagli unitari) erano indubbiamente bassi, basti considerare i calcoli di Gaetano Salvemini nel 1900 che dimostravano come quelle imposte fossero lievitate in 40 anni (dal 1860 al 1900) di oltre il 100% rispetto al 1860 in tutta Italia e molto di più nel solo sud. Questa levità fiscale, unita alla particolarità di dazi tendenti a far soddisfare prima le esigenze interne delle comunità ed aprire poi gradualmente al mercato le sempre più abbondanti produzioni eccedentarie, determinavano uno stato di prezzi molto bassi, una circolazione dei beni sensibilmente elevata ed elevati livelli di impiego della ricchezza (ovviamente, secondo i parametri del tempo). I dazi di importazione erano in linea con quelli di tutte le grandi economie del tempo, tant’è che le esportazioni delle Due Sicilie potevano tranquillamente crescere senza incontrare le difficoltà di “dazi ritorsivi” che ci sarebbero sicuramente stati se il sud avesse praticato una politica protezionistica per le proprie produzioni.

Le esportazioni

E la voce esportazioni aveva un grande peso nell’ economia meridionale: basti considerare che gli unitari “dovettero” (e ne furono ben lieti!) constatare che oltre l’80% di tutta l’esportazione agricola italiana era costituita da produzioni meridionali; basti considerare che fino al 1860 l’unico Stato italiano che producesse meccanica di precisione (macchine, locomotive, ecc.) era quello delle Due Sicilie che destinava la quasi totalità della produzione all’esportazione(NDR vedi altro nostro articolo sulla fabbrica Zino & Henry).
Non meraviglia perciò che il 65% (410 milioni su 626 di lire/oro) di tutti i mezzi di pronta conversione (oro ed argento) circolanti in Italia al 1860 fosse nel Mezzogiorno. Quest’effetto non era, quindi – come strumentalmente sostengono ancora oggi gli ultimi epigoni della logica unitaria del 1860 – la prova della scarsa ”possibilità” di impieghi produttivi che avrebbe lasciato spazio solo ad una “sterile tesaurizzazione”, ma, al contrario, la prova inconfutabile della abbondanza produttiva e della capacità di esportazione delle Due Sicilie (diversamente, da dove sarebbero saltati fuori oro ed argento in un Paese privo di miniere di oro ed argento?!) e l’effetto dell’applicazione a sud della teoria bullionista adoperata, in quel tempo, da tutti gli Stati d’Europa che ne avessero la possibilità (e nel resto della penisola questa possibilità era presente solo nella Lombardia, dove – però – operava a vantaggio delle finanze di Vienna!). Una teoria (solo per ricordo: la ricchezza dello Stato si misurava sulla quantità di metallo prezioso in esso presente) che venne gradualmente abbandonata solo a partire dalla metà dell ‘800 per effetto dei ritrovamenti di oro ed argento in California ed Australia.

Agricoltura e industria

Tutto questo avveniva integrando, fino al limite del possibile, agricoltura ed industria: come non ricordare l’ammasso di bozzoli di baco da seta da parte di tutti i contadini del Mezzogiorno per sostenere – integrando i propri redditi – la produzione della materia prima necessaria alla Regia Manifattura di San Leucio; come non ricordare l’integrazione fra le produzioni di canapa ed i grandi realizzatori di sartiame del polo delle due Fratte (quella Maggiore e quella Minore) che armavano le imbarcazioni di tutto il Mediterraneo! Fu così, ad esempio, che le risorse accumulate da S. Leucio costituirono le finanze per sostenere lo sviluppo delle Manifatture Cotoniere Meridionali e la nascita – con capitali anche stranieri – delle più grandi filande d’Italia (solo per ricordare: la svizzera Egg di Piedimonte d’AIife produceva tre volte più della più grande filanda esistente fuori delle Due Sicilie, cioè la tessile Conti di Como).

Il grande progetto ferroviario

Fu così che le risorse accumulate costruendo, su licenza, le locomotive, i vagoni e le rotaie a Pietrarsa (oltre 2000 dipendenti) (NDR vedi nostro articolo) ed esportando in Europa quello che gli altri Stati preunitari “dovevano, quando potevano” importare, vennero accumulati i mezzi finanziari per la costruzione delle dorsali ferroviarie adriatica e tirrenica che Garibaldi trovò nei cassetti del Tesoro di Napoli(…e che sperperò malamente in soli 50 giorni): quei soldi, tutti propri delle Due Sicilie, e quel progetto, frutto di un bando internazionale di concorso, erano già pronti a passare alla realizzazione nel 1857 quando il ferimento di Ferdinando da parte di Agesilao Milano, il successivo degrado della salute dei re e la sua morte ne rallentarono l’esecuzione, definitivamente procrastinata dalle vicende che precedettero e seguirono lo sbarco dei Mille.

Comunque quel modello portò le Due Sicilie ad una situazione di “diffusa”crescita produttiva che con linguaggio moderno si può qualificare di ‘”predecollo industriale”, condizione che trovava nella sola Lombardia – per quanto riguardava la penisola – un termine di accettabile paragone.
Il 44% (cioè: 1.350.904 su 3.072.245, secondo il censimento unitario del 1861) di tutti gli addetti alle manifatture protoindustriali ed industriali d’Italia (quelli che oggi si chiamerebbero addetti all’industria) erano concentrati nel Mezzogiorno e di questi solo 410.159 erano in Campania giacché gli altri 900.745 erano sparsi uniformemente in tutto il regno (come non pensare alla malafede di qualche “meridionale” che descrisse ed impose a tutta l’Italia la definizione del sud come un regno deforme con una testa – Napoli – abnorme ed un gracile corpo – il resto del regno!).
Per capire l’abisso che separava – in positivo – le Due Sicilie industriali dal resto d’Italia, basti ricordare che tutti gli addetti manifatturieri di quello che dagli anni ’80 in poi dell’800 diventerà “il triangolo industriale italiano” erano solo 759.000 a fronte di una popolazione uguale a quella delle Due Sicilie (cioè, rappresentavano circa il 56% dell’occupazione industriale del sud).
Il difetto fondamentale di quel modello, ed in particolare in quella fase delicata di predecollo industriale, era costituito dalla assoluta necessità di un governo che, senza essere dirigista, ponesse tutte le sue cure: nell’evitare i gravissimi rischi inflattivi che sarebbero nati dalla sovrabbondanza diffusa di oro ed argento; nel dosare con prudenza il continuo ampliamento della base produttiva onde evitare crisi di sovrapproduzione, soprattutto settoriale, fisiologici in una situazione incontrollata di forte effervescenza produttiva come era quella delle Due Sicilie; nella continua attenzione alla messa in valore di tutte le risorse del Paese per diffondere l’ottimale utilizzo.
In una parola, quel modello aveva bisogno, in primis, di un governo “indipendente”, in coerenza, del resto, con la sua stessa origine dalla proclamazione dell’indipendenza di Napoli con cui esordì il regno di Carlo III. Tutti possiamo capire, dunque, perché quel modello finì con la fine dell’indipendenza delle Due Sicilie. Ma tutti possiamo capire anche perché e come la condizione attuale del Mezzogiorno non potrà migliorare se l’area non potrà recuperare una “‘propria” ed “efficace via” per mettere in valore le proprie risorse senza essere condizionata da modelli ed interessi estranei e contrapposti a quelli propri.

Aldo Servidio

fonte

http://www.quicampania.it/ilregno/finanza-economia-produzione.html

 

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