Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

FRA’ DIAVOLO MITO AUTENTICO

Posted by on Mar 7, 2016

FRA’ DIAVOLO MITO AUTENTICO

tra i seminari svolti al liceo Classico Carducci di Cassino abbiamo anche parlato di Fra’ Diavolo  disprezzato dagli italiani, non dagli italici, e ammirato notevolmente dai suoi nemici, i francesi.  Un personaggio che ha costruito il suo mito, inconsapevolmente, per come ha vissuto e per come è morto. Lo avessero avuto i francesi, gli inglesi, i tedeschi o gli americani lo avrebbero messo come minimo sulle loro banconote, mentre gli italiani!!!!! se pensiamo che in americani festeggiano il Petrosino day per ricordare Joe Petrosino mentre gli italiani non sanno chi è!!!FERNANDO RICCARDI ci ricorda brevemente il personaggio di Fra’ Diavolo che di seguito potete apprezzare………………..

Fra Diavolo, il “brigante” di sua maestà borbonica

Michele Pezza nacque nell’aprile del 1771 a Itri, oggi in provincia di Latina, da Francesco e da Arcangela Matrullo, in una famiglia modesta ma dignitosa che ad una piccola proprietà terriera poteva aggiungere i proventi ricavati da alcune attività commerciali, in particolar modo dalla vendita dell’olio la cui produzione era, ed è tuttora, una delle principali risorse economiche della zona. Poco si conosce dell’infanzia di Michele che da piccolo guarì da una grave malattia in maniera miracolosa o quasi tanto che la madre, per ringraziare l’altissimo, gli fece indossare un saio francescano. Ma siccome il pargolo era discolo anziché no, ben presto “fra Michele” si trasformò in “fra Diavolo”. La giovenizza di Michele Pezza fu caratterizzata da un duplice evento delittuoso che segnò indelebilmente la sua esistenza. Non è chiaro come andarono le cose: c’è chi dice che si sia trattato di delitti passionali, altri invece parlano delle conseguenze di una rissa. Fatto sta che Michele Pezza uccise due persone e per questo fu costretto ad abbandonare in tutta fretta il suo paese ed a rifugiarsi in montagna. I parenti, però, presero a cuore la situazione e riuscirono a far commutare la pena nella prestazione del servizio militare per una durata di 13 anni. E così Fra Diavolo entrò nell’eserciro di sua maestà borbonica in un reggimento di stanza in Sicilia. Il momento, comuque, non era dei più tranquilli: sul declinare del XVIII secolo, infatti, le armate francesi di Napoleone si apprestavano ad invadere la Penisola. L’esercito borbonico non seppe opporsi adeguatamente ma anzi si sciolse come neve al sole. E così a contrastare l’avanzata dei giacobini rimasero soltanto le masse popolari indotte a prendere le armi da un proclama che il re Ferdinando IV, alla fine del 1798, lanciò da Caserta prima di fuggire con la sua corte e i suoi generali nella più sicura Sicilia. In questo bailamme restò coinvolto anche fra Diavolo che, abbandonato il suo reparto ormai in disfacimento, rientrò in fretta e furia a Itri. Qui giunto, assieme ad altri paesani, si trincerò nel munito fortino di S. Andrea nel tentativo di ostacolare la marcia dei Francesi che, occupata Roma e lo Stato Pontificio, procedevano alla volta di Napoli. Inizia con tale episodio la lunga parabola “brigantesca” di Michele Pezza, alias fra Diavolo, che gli storici hanno variamente interpretato e che negli ultimi tempi sembra aver subito una netta rivalutazione. Ma procediamo con ordine seguendo l’evoluzione delle vicende storiche. Avevamo lasciato il nostro asserragliato nel fortino di S. Andrea. Malgrado l’eroismo di Michele e compagni, però, i Francesi si impadronirono di Itri e la misero a ferro e a fuoco. Molti vennero passati per le armi e tra questi anche Francesco Pezza, l’anziano padre di Michele. Fu proprio questo tragico evento che fece maturare in fra Diavolo un odio profondo per i Francesi che si mantenne sempre vivo nel corso della sua travagliata esistenza. Lasciata Itri a bruciare Michele Pezza, assieme alla sua piccola banda, si trasferì a Gaeta intenzionato a dare manforte ai difensori della fortezza. Nel gennaio del 1799, però, la città, la cui guarnigione era comandata da un imbelle ufficiale svizzero, si arrese al nemico senza sparare neanche un colpo di cannone. Fra Diavolo, allora, capì che la partita era persa. Ma non per questo si perse d’animo. Con i suoi compagni abbandonò la zona costiera e si diresse verso l’interno nel tentativo di convincere i paesi di Terra di Lavoro a ribellarsi all’invasore giacobino. E per far sì che il suo proposito non cadesse nel vuoto non esitò a stringere alleanza con un altro capo brigante del posto, tale Tatta, che pure in precedenza era stato suo acerrimo rivale. Rafforzate le fila del suo variegato esercito fra Diavolo fu instancabile nel tormentare con audali colpi di mano i reparti nemici, infliggendo loro dure perdite e innumerevoli fastidi. Tutto ciò, però, non impedì ai Francesi, alla fine di gennaio, di impadronirsi di Napoli e di dar vita alla “Repubblica Napoletana”. Le cose, comunque, erano destinate a cambiare rapidamente. Ben presto, infatti, il cardinale Ruffo, messo assieme un esercito consistente, l’Armata della Santa Fede, partendo dalla Calabria, iniziò a risalire lo Stivale nel tentativo di riconquistare il regno perduto. E l’impresa fu coronata da successo. Nel giugno del 1799, dopo una feroce battaglia alle porte di Napoli, i sanfedisti sconfissero i Francesi e li cacciarono dal regno mettendo fine alla effimera parentesi repubblicana. Ristabilita la situazione fra Diavolo potè finalmente godere di un momento di tranquillità del quale subito profittò impalmando la sua Fortunata con la quale amoreggiava da tempo, stabilendosi a Napoli (agosto 1799). Nell’ottobre successivo il re Ferdinando IV, per dimostrargli la sua riconoscenza, gli assegnò una rendita annua di 2.500 ducati, conferendogli, altresì, il grado di colonnello dell’esercito. Ma quelli erano tempi difficili e, soprattutto, movimentati. Ben presto tornarono a spirare forti i venti di guerra e a fra Diavolo fu affidato l’incarico di marciare con le sue masse alla volta di Roma per scacciare i Francesi dalla Città Eterna e per ripristinare il governo pontificio. Il suo contingente partecipò alla spedizione assieme ad altri reparti di truppa regolare. Il 30 settembre l’esercito borbonico faceva il suo ingresso a Roma abbandonata dai Francesi. A fra Diavolo, però, non fu consentito di partecipare alla vittoriosa sfilata in quanto venne fermato alle porte di Roma. Nei giorni successivi le cose precipitarono: alcuni ufficiali borbonici si recarono al campo di Albano dove era acquartierata la sua massa, prelevarono il colonnello e lo gettarono nelle prigioni di Castel Sant’Angelo. Su di lui pendeva la grave accusa di non aver impedito il feroce saccheggio di Albano. Queste, almeno, le motivazioni ufficiali. Una cosa comunque è certa: il colonnello itrano, in quel periodo, specie a causa dei suoi successi, non godeva di certo delle simpatie dei militari borbonici. Nel dicembre, però, fra Diavolo fuggì dalla prigione romana aiutato, forse, dai suoi stessi carcerieri. Di soppiatto si portò a Napoli e da qui si imbarcò alla volta di Palermo, dove ancora si trovavano i sovrani. Restò a corte per qualche mese ottenendo il perdono del re. Anzi per i suoi utili servigi fu nominato “Comandante generale del dipartimento di Itri”. Tornato in continente fra Diavolo iniziò a svolgere con impegno il suo nuovo compito. Ben presto, però, decise di tornare a Napoli e di abbandonare l’incarico che lo costringeva a trattenersi per lungi periodi ad Itri, lontano da quella corte regia della quale era diventato assiduo frequentatore. Dopo tante movimentate vicende finalmente un periodo di relax. In questo lasso di tempo fra Diavolo si impegnò soprattutto per ottenere dall’amministrazione borbonica il risarcimento dei danni arrecati alle municipalità nel corso delle varie operazioni belliche sostenute dalla sua truppa, in particolar modo durante la campagna romana. L’Archivio di Stato di Napoli conserva un voluminoso incartamento nel quale il Pezza, a più riprese, sollecita la corte regia ad eseguire la doverosa incombenza, cosa che, ad onor del vero, finirà per restare lettera morta. Egli giunse addirittura a proporre di devolvere a beneficio dei danneggiati una quota della sua pensione annua “preferendo meglio di patir lui e la sua famiglia che comparir impuntuale e sentirsi rimproverati essere divenuto Colonnello con gli aiuti e coi soccorsi esatti da essi creditori”. Non c’è che dire, davvero una tempra particolare di brigante. Ma ben presto la calma svanì e il napoletano si trovò ad essere investito da un’altra bufera. Agli inizi del 1806 le truppe transalpine del generale Massena invasero di nuovo il regno di Napoli. Ancora una volta i regnanti borbonici scapparono in Sicilia mentre l’esercito non riuscì ad organizzare una resistenza degna di tal nome. Toccò di nuovo alle masse, dunque, difendere strenuamente la causa regia, come già nel 1799. E a tale operazione non poteva mancare fra Diavolo che, una volta di più, si dimostrò il più implacabile oppositore dei Francesi. La tattica del capomassa itrano restava sempre la stessa: tormentare ripetutamente gli invasori con audaci azioni di guerriglia e, nello stesso tempo, provocare l’insurrezione antifrancese nelle regioni del meridione d’Italia, dalla Terra di Lavoro fino alle Calabrie. Fra Diavolo si dimostrò una volta di più abile e imprendibile: finì per diventare un vero incubo per i Francesi che non sapevano più a che santo votarsi. Il nuovo re di Napoli, Giuseppe Bonaparte, era però deciso a chiudere al più presto la partita e così affidò al colonnello Giuseppe Hugo l’incarico di mettere fine alle imprese del brigante itrano. Tra i due acerrimi rivali iniziò una lotta serrata e senza quartiere, piena di colpi di scena e di accadimenti che hanno dell’incredibile. Fra Diavolo continuò a dimostrarsi un provetto guerrigliero. Pian piano, però, le forze vennero meno e la preponderanza del nemico riuscì ad avere ragione del valore e dell’aerdimento. Braccato ormai da presso, dopo essere più volte sfuggito alla cattura, fra Diavolo decise di interrompere la partita ormai non più sostenibile e di rifugiarsi presso la corte regia in Sicilia. Per far ciò, però, occorreva un imbarco: decise, quindi, di dirigersi verso Castellammare di Stabia prima e di Cava dei Tirreni poi. Hugo, però, intuì prontamente la manovra e dispose le sue truppe in modo da tagliare la strada a fra Diavolo il quale si vide costretto, ancora una volta, a fuggire verso l’interno, in direzione delle montagne del Cilento. Ormai la sua fine era segnata. Il cerchio si stringeva sempre di più. Fra Diavolo, ferito e sfinito, decise di sciogliere la sua piccola banda. Rimasto solo il 1 novembre del 1806 giunse in prossimità di Baronissi. Entrato in paese, stanco e avvilito, trovò ospitalità presso la casa del farmacista. Dopo averlo rifocillato e curato alla meglio quest’ultimo decise di chiamare i gendarmi che subito lo arrestarono, sia pure senza conoscerne la vera identità. Condotto a Salerno fu riconosciuto. La notizia della cattura di fra Diavolo si diffuse immediatamente in tutto il regno. Finalmente l’imprendibile brigante era stato messo in condizione di non nuocere. Ai primi di novembre fra Diavolo fu trasferito a Napoli per subire il processo. Invano il colonnello Hugo, riconoscendo il valore del rivale, tentò di farlo processare alla stregua di un prigioniero di guerra, cosa che gli avrebbe sicuramente salvata la vita. Come invano i francesi gli proposero di abbandonare la causa borbonica e di entrare nell’esercito napoleonico, eventualità che fra Diavolo rifiutò sempre in maniera categorica. Il 10 novembre il tribunale straordinario di Napoli lo condannò a morte. La sentenza sarebbe stata eseguita mediante afforcazione. Il giorno seguente, dopo essere stato assistito spiritualmente, fra Diavolo venne condotto nella Piazza del Mercato vestito dell’uniforme di brigadiere dell’esercito borbonico e con il brevetto di duca di Cassano appeso al collo. Alle 13.00, alla presenza di una folla imponente e silenziosa, l’esecuzione fu eseguita. Michele Pezza, aveva soltanto 35 anni, seppe affrontare gli ultimi attimi della sua esistenza con molto coraggio e con straordinaria fermezza d’animo. Il suo corpo restò appeso nella piazza per un intero giorno. Dopo di che venne rimosso e atterrato nel sagrato della chiesa degli Incurabili. Alla notizia della sua morte a Palermo si pianse lungamente. Per onorare la memoria di fra Diavolo si tennero solenni esequie alle quali parteciparono il capitano generale del Regno e le truppe inglesi e napoletane parate di tutto punto. Il re Ferdinando IV, in seguito, assegnò alla vedova di Michele Pezza una pensione mensile di 100 ducati. Chi volesse apprendere nei minimi dettagli la vita avventurosa anziché no di fra Diavolo può consultare il ponderoso volume di Alfredo Saccoccio dal titolo “Vita ed imprese del colonnello Michele Pezza detto Fra’ Diavolo”, pp. 433, D’Arco Edizioni, Formia 2011.

FERNANDO RICCARDI

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