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Fumone: un paese nell’insorgenza del dipartimento del Circeo (1798-1806)

Posted by on Mag 8, 2021

Fumone: un paese nell’insorgenza del dipartimento del Circeo (1798-1806)

Nella primavera del 1806 il cardinale Segretario di Stato Ercole Consalvi, su pressione della Francia1, istituisce una Congregazione particolare con il compito di esaminare i casi di insorgenza e brigantaggio che sempre più si manifestavano nei paesi dello Stato pontificio2. La Congregazione era composta da monsignor Francesco Cavalchini, governatore di Roma, Francesco Riganti, segretario della Sacra Consulta, Vincenzo Bartolucci, avvocato fiscale e dal fiscale generale Giovanni Barberi, giudice relatore era il luogotenente criminale Francesco Maria Rufini. La partecipazione in ruoli importanti di Riganti e Bartolucci, che erano stati repubblicani, indica «l’avvenuta ricomposizione della classe dirigente e [] la fisionomia attribuita al fenomeno, con la sua costante riduzione a mero brigantaggio, senza alcuna reale connotazione politica o religiosa che non fosse quella di un generico “anarchismo” o sovversivismo»3.

La Congregazione è chiamata a giudicare su diversi episodi verificatisi tra la primavera e la fine del 1806 nei paesi di Fianello, Ronciglione, Subiaco, Monte San Giovanni, Veroli, Velletri, Vallecorsa, Fumone, Ferentino, Fogliano, Ascoli, Ancona e tutti riconducibili alla nuova estesa insorgenza antifrancese che percorre il Regno di Napoli e che i francesi stavano reprimendo con la consueta durezza. Una buona parte dei paesi coinvolti sono gli stessi che insorsero nel 1798 nel dipartimento del Circeo (Monte San Giovanni, Veroli, Vallecorsa, Fumone, Ferentino), situati geograficamente nella zona prossima al confine sud4 e segnati in profondità sia dall’insorgenza del luglio 1798 che da quella dell’estate del 1799 molto di più di quanto le stesse autorità pontifice ritenevano5.

Le contestazioni mosse agli accusati, quasi tutti insorgenti del 1798 o del 1799, riguardano alcune fattispecie di estrema gravità; si va da tentata sommossa, brigantaggio, arruolamento di insorgenti, sino a «oblocuzioni sediziose» e divulgazione di voci allarmanti.

Tra le carte processuali troviamo due ristretti che riguardano lo stesso procedimento istruito contro alcuni abitanti di Fumone anch’essi ex insorgenti del 1798-99; si tratta dei carcerati Domenico Antonio del Monte e Michele Bellotti e dei contumaci Epifanio Longhi, Giovanni del Monte, Giovanni Lucia. Ritenuti colpevoli di «oblocuzioni sediziose e allarmanti, e pessime qualità», vengono condannati alla pena di dieci anni di galera da scontare a Civitavecchia.

A queste poche carte (dodici in tutto), si è aggiunto il ritrovamento dell’intero incartamento processuale composto da interrogatori dei testimoni e degli imputati e da altra documentazione che permette di gettare uno sguardo dentro un piccolo paese come quello di Fumone toccato, in maniera profonda, dagli eventi del 1798-99 che continueranno a costituire il presupposto e il riferimento costante per quelli del 18066.

  1. Fumone, un piccolo paese

Fumone si trova nella provincia pontificia di Marittima e Campagna nel territorio della diocesi di Alatri7 ed è un feudo dei marchesi Longhi8. Posto su un monte alto 786 metri, è una delle ultime propaggini dei monti Ernici che sono, insieme con i Simbrunini, le montagne più alte di tutta la zona. Il suo territorio confina a sud con Ferentino, a ovest con Alatri e a nord-est con Trivigliano. Queste città sono tutte molto vicine tra loro e situate in una zona collinare, dominata dalla rocca di Fumone dalla quale si arriva a vedere il mare. La città deve il suo nome a un detto popolare molto antico che vuole che quando il paese è coperto da nubi il tempo sarà cattivo in tutta la provincia9.

La città presenta due porte di cui una è detta «Porta chiusa» dallo stemma di una porta serrata presente nel torrione mutilo che la sovrasta. Le case arroccate seguono l’antico tracciato delle mura che circondavano la rocca, inglobata completamente dal palazzo dei marchesi Longhi che vivono stabilmente a Roma. In città vi è una chiesa Collegiata dedicata alla Ss. Vergine Annunziata con un Capitolo formato da nove canonici e un arciprete. Il paese non possiede una fontana ed è quindi privo di acqua, come la maggior parte dei paesi della provincia di Marittima e Campagna; le strade sono strette e scoscese, le abitazioni sono spesso in cattive condizioni per la mancanza di adeguati restauri. Le vie di comunicazione sono scarse; una strada impervia e spesso impraticabile a causa del maltempo raggiunge il paese partendo dalla biforcazione della via che collega Ferentino ad Alatri. Intorno all’abitato vi sono solo sentieri o tratturi che portano ai campi e ai boschi; l’unica vera arteria di comunicazione nei pressi del paese è la via Labicana e poi Latina (Casilina) che passa per Valmontone, Anagni, Ferentino e che da Frosinone piega verso Ceprano dove entra nel Regno di Napoli passando sul ponte del fiume Liri.

Da un punto di vista agricolo il territorio di Fumone si può definire come zona di monte10; questa inizia dove cessano le coltivazioni di vite e ulivo e comincia quella del castagno (circa 500-600 metri di altitudine). Si tratta di un’area ricoperta da boschi d’alto fusto (castagni, olmi, faggi) e cedui (ciliegi, maggi e noccioli) dai quali la popolazione trae il poco di cui vivere. Le ghiande e le castagne sono la principale produzione del paese insieme al pascolo e a poco granturco e orzo11. Le ghiande servono come mangime per i maiali, vera e propria carne dei poveri, mentre dalle castagne, tramite l’essiccamento, si estrae una farina con la quale si produce il pane per l’alimentazione della popolazione più povera, tanto che per quelle zone si può parlare di una vera e propria economia della castagna12. Accanto a zone boscose si estendono ampie porzioni di territorio montagnoso sterile, composto da nuda roccia spesso inaccessibile. Nel corso del Settecento la popolazione è costituita da poco più di mille e cento abitanti e si mantiene stabile nel corso del secolo, con un decremento negli anni tra il 1782 e il 1802 comune a tutte le città della zona13:

Anno Abitanti

1736 1.126

1742 1.159

1782 1.301

1802 1.153

I dati sono stati estratti dai censimenti pontifici la cui attendibilità è quella acclarata e attribuita agli «stati delle anime», con tutte le difficoltà e il tasso di approssimazione che li caratterizzano14. Quasi tutti gli abitanti risiedono all’interno del paese in case umili e malsane, raramente di proprietà. Ogni giorno quindi per raggiungere i campi gli uomini devono percorre distanze anche lunghe con un notevole dispendio di energia e di tempo15.

La maggior parte della popolazione è dedita all’agricoltura in tutte le sue forme e modalità. Nella zona, accanto alla proprietà fondiaria baronale vi è una forte proprietà ecclesiastica e una considerevole presenza di proprietà laica e comunale. Spesso tuttavia il comune possedeva i terreni incolti montagnosi il cui estimo era molto basso. La proprietà laica invece era molto parcellizzata16. Solo un ristretto numero di piccoli proprietari coltivava direttamente il proprio fondo mentre la maggior parte dei contadini lavorava piccoli appezzamenti di terreni avuti in concessione. Sotto costoro, gravitava una massa «spesso disperata e cenciosa, dei giornalieri e dei cottimisti, base fluttuante di tutta la piramide sociale»17, reclutata dai caporali e sottoposta a ogni tipo di lavoro18; si trattava quasi sempre di uomini privi di una famiglia, che risiedono dove capita (campi, grotte, capanne a ridosso delle città) e che conducono una vita incerta e misera fatta di durezze estreme, con un cibo instabile e insufficiente; i più fortunati di loro fanno i taglialegna, i carbonari, i falciatori. La loro precaria esistenza li porta spesso a sconfinare nel brigantaggio; sopravvivono ai margini della società che esercita su costoro ogni potere e arbitrio.

Le condizioni di vita sono molto dure; si vive ammassati in case che sono spesso tuguri maleodoranti, che fungono anche da stalle, dove uomini e animali, soprattutto maiali che sono molto numerosi, sono costretti a vivere in una promiscuità innaturale e spaventosa19. Spesso le case sono «pessime, in cattivo stato, di poco conto, mediocri»20; poche possiedono un camino, la maggior parte sono quindi invase dall’odore acre e irrespirabile del fumo del focolare che ristagna nelle stanze provocando infezioni alle vie respiratorie. La mancanza di acqua e di fogne comporta che nelle strade vengano gettati rifiuti e immondizie di ogni sorta creando rivoli di liquami maleodoranti portatori di malattie. Non migliore è la situazione delle strade del paese: scoscese e luride, non acciottolate e attraversate da gruppi di suini che circolano più o meno liberamente, contribuendo ad aumentare il livello della sporcizia e al tempo stesso delle condizioni nocive e malsane che provocano malattie gravi tra cui tifo, malaria, intossicazioni alimentari e altre ancora.

L’alimentazione di base è assai scarsa per quantità e qualità energetica; è costituita da una focaccia di granturco o di farina di castagne, impastata con acqua melmosa e cotta su forni improvvisati. La carne, si mangia pochissimo ed è spesso solo quella di maiale; per sfamarsi la popolazione è spinta a nutrirsi di animali morti, senza curarsi della pericolosità di un tale gesto, per dissetarsi beve acqua spesso putrida o piovana, raccolta dagli scoli dei tetti e dai pozzi ricavati nelle abitazioni; il vestiario è «miserabile perché infelice è la loro condizione»21 e non è in grado di riparare sufficentemente gli abitanti dal clima spesso rigido del paese battuto dai venti.

La vita che gli uomini conducono è molto dura: si tratta di una popolazione sostanzialmente misera, che vive ai limiti della sopravvivenza in un territorio avverso e che con le sue asperità contribuisce a rendere ancor più difficile sopportare l’esistenza. Queste descrizioni collimano con quelle provenienti da altre località, che mostrano e denunciano le stesse difficoltà della vita in questi piccoli centri22.

  1. Fumone nella Repubblica romana

Il 15 febbraio 1798, con l’«Atto del popolo sovrano» nasce la Repubblica romana; pochi giorni prima le truppe francesi comandate dal generale Louis-Alexandre Berthier avevano occupato Castel S. Angelo23. La Repubblica istituisce un nuovo sistema amministrativo statale e ridefinisce anche gli ambiti territoriali delle province. Lo Stato pontificio viene diviso in otto nuovi dipartimenti, tra cui quello del Circeo, con capoluogo Anagni che comprende completamente le antiche province di Marittima e Campagna, con rilevanti accessioni di centri vicino Roma24.

Dalla Costituzione della Repubblica romana viene ridisegnata una diversa divisione territoriale ancorata a un ordinamento amministrativo del tutto nuovo25. Il modello costituzionale dei comuni e dei centri urbani è costruito esclusivamente sul numero degli abitanti e quindi non tiene in alcun conto le realtà dello Stato pontificio. Solo i comuni con popolazione superiore ai 10.000 abitanti possono avere una propria municipalità; gli altri vengono accorpati e riuniti in un cantone, nella cui “Centrale” avrebbe dovuto risiedere la municipalità.

Poiché nessun paese del dipartimento del Circeo aveva una popolazione superiore ai 10.000 abitanti, come risulta dal censimento pontificio del 1782, ne consegue che i cantoni sono le uniche strutture amministrative in cui i paesi si trovano aggregati senza prevedere alcun’altra articolazione.

Il dipartimento viene diviso in 18 cantoni, con tre tribunali di censura che sono insediati ad Anagni, Sezze e Veroli. Il paese di Fumone è inserito nel secondo cantone che ha come “Centrale” Alatri ed è costituito dai paesi di Alatri, Fumone, Vico, Collepardo e Trivigliano.

Tutti i paesi vengono “democratizzati”: vi si alza l’albero della libertà e nell’occasione si organizza una festa o un ballo26. L’erezione dell’albero della libertà, piantato al posto della croce, rappresenta non solo il primo vero atto rituale della Repubblica ma al tempo stesso costituisce la presenza simbolica del potere del nuovo governo: non a caso il primo atto degli insorgenti sarà quello di abbattere e bruciare l’albero e quello dei repubblicani di ripiantarlo. Anche a Fumone si pianta nella piazza del paese l’albero della libertà al posto della croce; una solenne cerimonia di insediamento viene effettuata il 14 maggio 1798, quando alla presenza del commissario Francesco Silvestri, Francesco Longhi, figlio del marchese Pietro e Carlo del Monte e le altre autorità costituite giurano fedeltà alla Repubblica27. Nel paese il capo dei repubblicani è considerato da tutti Ciriaco del Monte, che comandava la Guardia civica, coadiuvato da Isidoro Magliocchetti nominato comandante della Piazza. Sull’accoglienza che la Repubblica ha avuto nel paese ci resta una sola testimonianza, lasciata da uno degli insorgenti, Epifanio Longhi, che dichiara che, escluso il gruppo che ricopriva incarichi, il resto degli abitanti è stato costretto «a servire la stessa Repubblica [] specialmente di fare la guardia dell’albore»28.

La vita del paese, oltre i suoi abituali ritmi, viene scandita da una serie di provvedimenti di natura fiscale, ma non solo, che partendo da Roma, colpiscono anche Fumone. La prima questione che le autorità municipali si trovano ad affrontare è la raccolta delle assegne sulle case per il pagamento della tassa del tre per cento posta sulle abitazioni29. La risposta dei proprietari delle case fu quasi nulla, pochissimi fornirono le assegne sulle abitazioni sostenendo di non avere contanti per poter pagare; un mese dopo, il 30 fiorile anno vi (19 maggio 1798), la municipalità di Alatri ordinò agli edili dei paesi di affiggere un editto che intimava ai possidenti di fornire le assegne sulle case nel termine perentorio di tre giorni30. Il 5 pratile anno vi (24 maggio 1798) l’assemblea generale degli edili, alla presenza del presidente Giovan Battista Molella e del prefetto consolare Andrea Brocchetti prende atto che le assegne pervenute sono in «piccolissimo numero» e concede una proroga di tre giorni31. Le difficoltà nella raccolta sono molteplici e la proroga scade senza che la situazione si sia modificata, tanto che l’assemblea dei municipalisti, nuovamente riunitasi il 21 pratile anno vi (9 giugno 1798), a seguito delle proteste del ministro delle Finanze Bufalini, decide di formare il ruolo di coloro che hanno presentato le assegne e ordina ai periti muratori di eseguire una valutazione sulle case dei renitenti facendo pagare loro il doppio del valore stimato32. L’altra grande questione che agita la popolazione dell’intero dipartimento è legata al pagamento della quota di 250.000 scudi, come riparto della contribuzione di due milioni di scudi imposta come prestito forzato a tutti i dipartimenti dal Consolato il 19 germile anno vi (8 aprile 1798)33. Le autorità del dipartimento del Circeo fecero presente l’impossibilità di pagare una cifra così alta e dopo vari tentativi riuscirono, attraverso la preziosa opera di Giovanni Battista Franchi, a far ridurre il debito da 250.000 a 50.000 scudi34.

Vengono introdotte anche nuove regole che intervengono sulla vita dei paesi; il 26 messifero anno vi (14 luglio 1798) il prefetto consolare Andrea Brocchetti invia agli edili del cantone un elenco di leggi, editti e notificazioni da applicare nelle loro città; tra questi i più importanti riguardano il nuovo calendario, il nuovo orario, la qualità e la valuta reale delle cedole secondo le nuove tariffe35. È questo l’ultimo ordine della Centrale di Alatri; pochi giorni dopo scoppia l’insorgenza; il 25 luglio insorge Alatri, seguita il 26 da Veroli e poi dalla gran parte del dipartimento con forme e modalità diverse36.

Il 26 luglio 1798 insorge anche Fumone; Giovanni Lucia, Domenico Antonio dal Monte, Giovanni dal Monte, Costantino Caponeri e Epifanio Longhi (tutti gli imputati del 1806), abbattono e bruciano l’albero della libertà e successivamente suonano a stormo le campane del paese per richiamare la popolazione; si portano quindi all’ospedale, da cui prelevano la croce che viene piantata al posto dell’albero; la folla radunatasi, con alla sua testa Domenico Antonio del Monte a cui si era unito il canonico don Paolo Longhi, forma una processione che gira per il paese gridando «Viva Maria, Viva San Sebastiano»37. Altro non sappiamo dell’insorgenza ma è da presumere che una parte degli insorti si sia recata sotto Ferentino, punto di riunione di tutti gli insorgenti, per contrastare l’esercito francese che stava ormai arrivando per reprimere l’insorgenza.

Gli insorgenti verranno sconfitti dalle forze franco-polacche, guidate dal generale Girardon, prima sotto Ferentino il 29 luglio e poi definitivamente a Frosinone il 2 agosto che, come Ferentino verrà saccheggiata e incendiata; tra il 29 luglio e il 2 agosto molte città inviano deputazioni al generale in cui dichiarano di sottomettersi alla sua autorità; tra queste Prossedi, Torre, Giuliano Ceccano e soprattutto Alatri38. Solo Terracina resiste e verrà definitivamente riconquistata il 9 agosto39.

Sbaragliate le forze degli insorgenti, i francesi ripiantano gli alberi della libertà, abbattuti e bruciati dagli insorti, e ripristinano le istituzioni distrutte dalla furia popolare. Nominano Federico Zaccaleoni Commissario del potere esecutivo con l’ordine di ripristinare tutte le autorità repubblicane. Si tratta di un compito arduo e di difficile soluzione e solo alla fine di agosto, tra molte difficoltà, in tutto il dipartimento si riesce a completare la ricostruzione del tessuto amministrativo40.

A Fumone troviamo al loro posto sia Francesco Longhi che Carlo del Monte che firmano in calce come ricevuta una serie di disposizioni inviate loro da Alatri; sono stati quindi considerati come persone favorevoli al regime repubblicano e reintegrate nei loro ruoli.

Di pari passo con quest’opera inizia l’azione di repressione degli insorgenti. A tale scopo era stata istituita, dal generale Macdonald su proposta del generale Girardon, una commissione militare che inizia il suo lavoro il 4 agosto 1798 e termina la sua attività il 9 novembre dello stesso anno, a causa del precipitare degli eventi politico-militari che portarono alla prima invasione napoletana del territorio della Repubblica romana e al ripiegamento delle forze francesi41.

Le sentenze venivano stampate (350 copie l’una) in italiano e in francese e affisse nei luoghi di origine dei condannati. Le esecuzioni, che all’inizio si tenevano in Anagni, vengono spostate nei paesi di appartenenza dei condannati a morte ed eseguite immediatamente. La scelta di esercitare la giustizia negli stessi luoghi dove erano state consumate le efferatezze da parte degli insorgenti assume un valore deterrente e simbolico. Le sentenze non sono appellabili e vengono eseguite il giorno stesso o al più tardi il mattino dopo, comunque mai oltre le 24 ore dalla sentenza. Tutte queste esecuzioni, rapide e spietate, impressionano profondamente la popolazione del dipartimento42. La Commissione militare processa nel solo dipartimento del Circeo 141 persone, riconoscendone colpevoli 91: 88 sono condannate alla fucilazione e 3 a pene detentive, i restanti 50 imputati vengono prosciolti dalle accuse a loro carico43.

Unico arrestato e processato del paese di Fumone dalla Commissione militare francese è Domenico Antonio del Monte, a cui viene contestato di aver pronunciato discorsi tesi a esasperare gli animi della popolazione e di aver guidato l’insorgenza, ma viene scarcerato, probabilmente perché la Commissione stessa non aveva trovato riscontri alle accuse mosse all’imputato44. Da parte sua il generale Girardon aveva dato ordine di arrestare Giovanni Lucia, Giovanni del Monte, Costantino Caponeri, Epifanio Longhi e Francesco Casola, verosimilmente in base a informazioni certe sulle responsabilità dell’insorgenza di Fumone45. I ricercati si sottraggono all’arresto fuggendo e verranno inseriti nella lista degli emigrati dal territorio della Repubblica romana46.

Nel frattempo il primo e più urgente problema che le autorità ricostituite devono affrontare è quello relativo al mantenimento e al vettovagliamento dell’armata francese che staziona stabilmente nel dipartimento47. Gli ufficiali venivano alloggiati nelle case private, i soldati della truppa nei conventi o nei municipi; tutti dovevano essere nutriti a spese della città dove erano acquartierati, con grave danno per la popolazione che si vedeva spogliare di quasi tutti i propri beni.

Il generale Girardon non disperde in tutte le direzioni le sue truppe ma le concentra in poche zone strategiche tra cui la città di Alatri48. Immediatamente le municipalità del cantone sono chiamate a dover provvedere al sostentamento dell’esercito. Il 7 fruttidoro anno vi (24 agosto 1798) si ordina di requisire tutto il foraggio per i cavalli dell’armata e il 16 fruttidoro anno vi (2 settembre 1798) si chiede il numero esatto di animali da macello per l’alimentazione dei soldati e degli ufficiali49. La posizione strategica di Alatri e del suo cantone, tra quello di Ferentino e quello di Veroli, fanno sì che numerosi siano i soldati presenti in città; nel periodo che va dal 22 settembre al 24 novembre 1798, stazionano una media di circa 310 fra soldati semplici e ufficiali, con punte di 500 persone, per un totale complessivo di 15.699 uomini che nel corso di questi mesi devono essere nutriti e alloggiati di tutto punto50. Ogni soldato riceve giornalmente una razione costituita da 24 once di pane, 2 fogliette di vino e 8 once di carne, per un totale di 47 rubbia e 2 quarte di grano, 253 barili di vino e 10.466 libbre di carne. Nel vettovagliamento dei 515 ufficiali, che risiedendo nelle case private, non rientrano il pane e il vino, mentre il consumo di carne è computato nel rendiconto complessivo51.

Le contribuzioni durano sino alla prima invasione dei napoletani; alla fine di novembre 1798 e per tutto il periodo anche Fumone, amministrato da Francesco Longhi come edile e Carlo del Monte come Aggiunto, deve partecipare alla spesa, come tutto il resto del cantone; dalla città vengono prelevate 10 rubbia di grano e parecchi animali da macello. Contribuzioni così gravose costituiscono un danno intollerabile per i piccoli paesi che si vedono privati di tutto il necessario; la popolazione vede aumentare in maniera vertiginosa i prezzi dei generi alimentari e spesso è ridotta alla fame52.

La prima invasione napoletana è molto breve. I napoletani occupano Roma, dalla quale i francesi si erano ritirati il 26 novembre 179853. Il re Ferdinando entra trionfalmente in città ma pochi giorni dopo il suo esercito, comandato dal generale Carlo de Mack von Leibarich, viene sconfitto dal generale Macdonald prima sotto Fermo, poi il 4 dicembre a Civita Castellana e il 6 a Otricoli. Il 9 dicembre si arrende la città di Calvi, dove si erano ritirate le truppe del maresciallo generale Enrico Metsh e del brigadiere generale Emanuele Carillo, e quindi uno spaventatissimo Mack ordina la ritirata che si trasforma in una vera e propria disfatta per l’esercito napoletano che sarà inseguito dai francesi che si arresteranno solo a Napoli54. Nel frattempo il re abbandona precipitosamente Roma. L’amaro commento del Sala rende benissimo il comportamento dell’esercito napoletano e la delusione da esso creata: «L’esercito del Re delle due Sicilie si è coperto di una vergogna sempiterna»55.

In pochi giorni l’esercito francese rioccupa Roma e quasi tutto il dipartimento del Circeo spingendosi sino al confine con il Regno di Napoli, che presto attraversa. Da questo momento e sino a maggio 1799, il dipartimento diviene teatro di una violenza diffusa, caratterizzata da vendette e da scontri locali e individuali con disertori dell’esercito napoletano, con gruppi di insorgenti che erano rientrati nello Stato pontificio con i napoletani e con semplici briganti. Ne è un esempio la scaramuccia, avvenuta vicino Fumone, tra gli insorgenti e la truppa civica di Alatri che deve continuamente impegnarsi in un’opera di controllo e di repressione56. Per tutti costoro costituisce un rifugio privilegiato la zona montagnosa tra Fumone, Alatri, Veroli e Ferentino.

Per tutto questo periodo i francesi mantengono un controllo del territorio abbastanza saldo, anche se si verificano numerosi eccidi e violenze, ma quando l’ipotesi di un ritiro dai territori della Repubblica partenopea acquista consistenza i generali francesi privilegiano interventi militari tesi a presidiare paesi e villaggi posti in centri ritenuti nevralgici per assicurare una via di fuga sicura piuttosto che contrastare un’insorgenza che si fa sempre più pericolosa. In questo contesto formazioni sempre più numerose di insorgenti attraversano il confine e invadono il territorio della Repubblica romana, in un continuo succedersi di vittorie e di sconfitte.

Il vero cambiamento di situazione avverrà con la fine della Repubblica napoletana, avvenuta il 22 giugno 1799, e con il conseguente ritiro di tutte le forze francesi entro i territori della Repubblica romana che vengono invasi dalle bande dei sanfedisti agli ordini del cardinale Ruffo. Inizia un’altra fase dell’insorgenza che si svilupperà con caratteristiche diverse da quelle del 1798. Nell’insorgenza del 1799 non saranno più protagoniste le masse cittadine; le città si ribellano ai francesi e ai loro alleati repubblicani ma non si verificano esplosioni simili a quelle registrare nell’estate 1798. All’insorgenza parteciperanno principalmente gruppi armati, più o meno numerosi, che si salderanno successivamente sia con le truppe “a massa” provenienti dal Regno di Napoli agli ordini di uomini come Rodio e Fra’ Diavolo sia con le bande, come quella di Mammone che agivano sul confine tra le due repubbliche.

In questa fase estremamente turbolenta a Fumone ricompaiono tutti i protagonisti dell’insorgenza del 1798, guidati stavolta dal sacerdote Pietro Corneli, indicato come «capo insorgente» e, collegati con la banda di Gaetano Mammone si istallano in paese, compiendo arresti e violenze: «perturbando a loro capriccio le genti».

Gaetano Mammone è un mugnaio che alla fine del 1798 viene eletto capo massa con il beneplacito del vescovo di Sora Antonio Colajanni e che conduce una lotta feroce contro i francesi e i repubblicani sia nel territorio della Repubblica partenopea che in quello della Repubblica romana57; è ricordato per la sua crudeltà e per le continue violenze commesse58. Il legame degli insorgenti di Fumone con le truppe di Mammone è riscontrabile nella loro partecipazione al saccheggio e all’incendio del paese di Affile avvenuto il 17 luglio 1799, dove vengono bruciate diverse abitazioni e compiute molte violenze59. Affile è uno dei pochi paesi che non si erano piegati agli insorgenti e per questo subisce una feroce ritorsione60.

Fra i numerosi arresti di repubblicani, compiuti a Fumone, spicca quello di Isidoro Magliocchetti. Costui verrà consegnato da Epifanio Longhi e Costantino Caponeri nelle mani di Mammone a Sora, e qui resterà in prigione per oltre un mese61. La decisione della corte di Napoli che, stanca delle continue violenze, ordina a Rodio, capomassa calabrese di arrestare Mammone e i suoi fratelli consentirà quindi a Isidoro Magliocchetti di essere scarcerato62.

Pochi mesi dopo la Repubblica cessa di esistere, scossa dalle insorgenze che sempre più si accendono nei suoi territori e invasa dalla truppe napoletane. Alla fine di settembre i francesi firmano una convenzione con i napoletani e gli inglesi e abbandonano Roma dove si insedia un governo provvisorio guidato dal generale napoletano Diego Naselli che inizia un’opera di repressione dei repubblicani63. Tuttavia, la fine della Repubblica non riesce a placare gli animi né ad attenuare la spirale delle vendette a riprova di quanto la divisione fra gli uomini sia stata profonda.

Alcuni episodi sono estremamente significativi, come quello che provoca il primo processo contro Epifanio Longhi nel 1801. Le violenze iniziano immediatamente dopo la caduta della Repubblica quando, una sera di dicembre 1799, Epifanio Longhi, in compagnia di Michele Bellotti e Costantino Caponeri, si presenta alla casa di Isidoro Magliocchetti e lo accusa di aver indicato l’ubicazione della casa di sua proprietà ai soldati polacchi dai quali era stata presumibilmente saccheggiata; i tre picchiano e minacciano Magliocchetti che, per sfuggire alla violenza a cui era sottoposto, decide di lasciare il paese e arruolarsi nei fucilieri napoletani64.

A seguito della promulgazione dell’editto di perdono del 31 ottobre 180065 alcuni repubblicani, tornati in paese, vengono arrestati sempre dallo stesso gruppo di Longhi, del Monte e Corneli e trattenuti in carcere per diverse ore66. Ma l’episodio più grave che meglio sintetizza la situazione del paese e presenta tratti da racconto “nero”, avviene la notte tra il 26 e il 27 dicembre del 1800 e vede coinvolto Ciriaco del Monte.

Costui, che era stato comandante della Guardia civica, torna per la prima volta dal 1799 in paese proprio il 26 dicembre 1800 per cercare delle provviste di viveri per l’armata napoletana. La sera verso le ore 22 incontra per le vie del paese il sacerdote Pietro Corneli e Epifanio Longhi che lo salutano amichevolmente e lo invitano a bere con loro nella bottega di ferraro di Giovanni Antonio del Monte, dove vengono raggiunti da Sante Mortali di Alatri e da Pio Cavallo. Da qui, dopo diverso tempo, il gruppo si sposta nella casa di Pio Cavallo, dove viene raggiunto da Costantino Caponeri che porta del vino. Questi, vedendo Ciriaco del Monte, si stupisce e rimprovera aspramente gli altri con parole di biasimo: «buggiaroni, mi avete mandato a chiamare, e qui ci stà un inimico; io quando ho bevuto, e mangiato con gli inimici, gli tengo per amici, e non come inimici»67 e, non contento, rivolgendosi verso Ciriaco del Monte lo insulta chiamandolo ripetutamente «giacobino» mentre picchia più volte in terra un ferro acuminato. La tensione sembra però sciogliersi, anche grazie al vino e all’invito di del Monte di trasferirsi nella casa di sua sorella che prepara per tutti le caldarroste. Corneli, Longhi e Caponeri si trattengono poco oltre le tre della notte, poi tutti insieme escono ma, arrivati vicino al portone della chiesa, Epifanio Longhi e Costantino Caponeri feriscono Ciriaco del Monte con un colpo di coltello e uno di «stocco» e si danno alla fuga68. Il del Monte si fa medicare, denuncia l’accaduto e, dopo cinque giorni, riparte per Roma. Passeranno diversi mesi e un cambio di governatore prima che il processo venga istruito. Alla fine i due imputati, Longhi e Caponeri, quest’ultimo contumace, verrano assolti con il precetto «habendo hanc civitatem loco carceris» e ottenendo anche il «libero consenso» di Ciriaco del Monte che probabilmente intende con questo atto chiudere la vicenda69.

  1. Il processo del 1806

Il 16 giugno 1806 il luogotenente generale delle province di Marittima e Campagna e della città di Ponte Corvo, Francesco Tritoni ordina al bargello di Frosinone di arrestare Domenico Antonio del Monte, Michele Bellotti, Epifanio Longhi, Giovanni del Monte e Giovanni Lucia con le accuse di «oblocuzioni sediziose e allarmanti, e pessime qualità», a seguito delle disposizioni emanate dalla segreteria di Stato con una lettera del 14 giugno 1806, e al notaio Nicola Grandi di recarsi a Fumone per istruire il processo. Il bargello invia una squadra di birri nel paese che riesce a sorprendere nel sonno e arrestare Domenico Antonio del Monte e Michele Bellotti, mentre Giovanni Lucia, Giovanni del Monte e Epifanio Longhi, forse intuendo il pericolo, si rendono irreperibili.

Pochi giorni dopo, il 21 giugno, il notaio Grandi, con una scorta di birri giunge a Fumone e si insedia in una stanza della segreteria nella quale condurrà tutti gli interrogatori. Nello stesso giorno il caporale dei birri riferisce al notaio che gli imputati sono molto conosciuti in città per essere stati «fieri briganti e ladri nel tempo passato dell’anarchia»70 e che si sono distinti per i loro discorsi sediziosi nei quali si minacciava di riprendere le armi per uccidere le autorità del paese e occupare le cariche pubbliche; inoltre indica alcuni abitanti del paese come persone che sono a conoscenza di questi fatti e che possono testimoniarli71.

Da domenica 22 giugno 1806 a martedì 24 giugno il notaio interroga tutti i testimoni che sono concordi nel confermare le accuse agli imputati e il mercoledì 25, a seguito di una lettera del tribunale di Frosinone, che lo informa che lì sono depositati degli atti processuali contro Michele Bellotti ed Epifanio Longhi, si reca a Frosinone dove allega gli atti dei due processi precedenti al suo. I due procedimenti vengono utilizzati per delineare meglio la fisinomia degli imputati e soprattutto quello del 1801 contro Longhi fornisce informazioni preziose sulla situazione del paese. Le vicende del processo del 1801, con il ferimento di Ciriaco del Monte e la testimonianza di Epifanio Longhi, sono momenti essenziali per tentare di comprendere le dinamiche che la Repubblica prima e l’insorgenza poi hanno innescato all’interno di Fumone.

Nei giorni di domenica 12 e lunedì 13 luglio 1806 sono sentiti i due imputati arrestati (Domenico Antonio del Monte e Michele Bellotti) i quali negano con forza ogni addebito. Il 3 settembre successivo la Congregazione emette la sentenza; tutti gli imputati sono condannati alla galera per dieci anni. Pochi giorni dopo, Giovanni Lucia è arrestato nella sua casa di Fumone e anch’egli sostiene la falsità delle accuse a suo carico. Epifanio Longhi e Giovanni del Monte invece fuggono dal paese; del secondo non si avranno più notizie, ritroveremo invece Longhi nel 1808 arrestato, tra il 17 e il 18 maggio, nel paese di Arquata, territorio di Norcia e poi trasferito a Spoleto, Foligno e infine a Roma. Qui, rinchiuso nelle prigioni di Castel Sant’Angelo, viene interrogato da un ufficiale francese che lo accusa di «brigantaggio» e poi trasferito con altri imputati a Spoleto, dove un Consiglio di guerra, composto da ufficiali francesi, lo accusa di complicità nella «famigerata causa Cataldi». Il processo termina con l’assoluzione di tutti gli imputati, ma Longhi resta in carcere perché si riesuma contro di lui l’accusa di sedizione del 1806. Il 18 dicembre il governatore di Roma comunica al governatore di Spoleto che Epifanio Longhi deve essere dimesso con il precetto «de bene et honeste vivendo» sotto pena della galera per sette anni. Si chiude in questo modo la vicenda di Longhi che fa ritorno a Fumone.

  1. Le accuse del 1806

L’atto di accusa principale, per il quale sono sottoposti a giudizio i sei imputati e sul quale si fonda il processo del 1806 è costituito dai reati contenuti nell’imputazione di «oblocuzioni sediziose e allarmanti, e pessime qualità». I capi d’accusa sono ritenuti molto gravi. Stroncare la diffusione di notizie false, che erano messe in giro con lo scopo di inquietare la popolazione e spingerla a compiere atti illegali e pericolosi, era una delle primarie attività del governo pontificio sin dal suo rientro in Roma nel 1799. Il territorio dello Stato era percorso da truppe francesi che si muovevano verso Napoli, da dove giungevano notizie sulla sollevazione della Calabria; la fortezza di Gaeta era assediata e nella zona di confine operava la banda di Fra’ Diavolo, personaggio notissimo la cui “leggenda” circolava già nelle popolazioni di confine72.

Nella formulazione delle accuse ha un suo peso rilevantissimo la politica intrapresa dal governo pontificio di controllo e repressione di tutti gli ex insorgenti che non avessero accettato di tornare a una vita normale ma che invece nutrivano ancora la tentazione di riprendere le armi. Sotto questo particolare aspetto è importante notare un divario di sostanza giuridica tra le accuse descritte nelle carte processuali che provengono da una lettera della Segreteria di Stato e quelle trascritte sul frontespizio del ristretto fiscale del processo73. I capi d’accusa scritti sul ristretto sono quelli di «oblocuzioni sediziose e brigantaggio» al posto di «oblocuzioni sediziose e allarmanti, e pessime qualità»; dall’imputazione di «oblocuzioni sediziose» scompare quella di «pessime qualità» per far posto a un’accusa assai più grave come quella di «brigantaggio». Tuttavia sorprende a un’attenta lettura del ristretto e degli atti processuali la totale assenza di notizie in merito all’accusa di «brigantaggio», mentre sulle imputazioni di «oblocuzioni sediziose» e di «pessime qualità» si dilungano le dichiarazioni degli imputati e dei testimoni.

L’accusa di «pessime qualità» è la prima che viene affrontata negli interrogatori; tutti i testimoni descrivono gli imputati come dei soggetti pericolosi per aver fatto parte dell’insorgenza del 1799, durante la quale avevano saccheggiato i paesi di Frascati, Anagni e soprattutto quello di Affile. Gli imputati sono presentati come «briganti e ladri»74, come persone che inviano continui memoriali anonimi alla Congregazione del Buon Governo con lo scopo di denunciare e diffamare le autorità del paese75; inoltre tutti concordano sul fatto che si tratta di persone inquiete, dedite al vino e perciò violente76. Dai testimoni viene disegnato uno stereotipo dell’insorgente-brigante: si tratta di un uomo dissoluto pronto a tutto, che agisce in preda ai fumi dell’alcool e che la Congregazione aveva assunto come nuova figura criminale, nonostante il fatto che tra le popolazioni della provincia di Marittima e Campagna il ricorso al vino fosse un’abitudine molto comune, come annota il medico di Anagni, Gian Gaspare Cestari, secondo il quale nei giorni festivi gli uomini, che non si recano a lavorare nei campi, bevono il vino sino a ubriacarsi77.

Più interessanti sono le accuse di «oblocuzioni sediziose». I testimoni riferiscono che gli imputati spargevano per il paese diverse voci allarmanti come quella che vedeva i francesi in grave crisi in Calabria dove sarebbero stati addirittura massacrati da un forte «brigantismo»; a questo aggiungevano che la fortezza di Gaeta non sarebbe mai caduta e che anzi sotto le sue mura molti francesi erano morti, il tutto avvalorato dai colpi di cannone della fortezza, la cui eco si sentiva sino a Fumone78, ma soprattutto sostenevano che presto Fra’ Diavolo avrebbe fatto la sua comparsa guidando un forte numero di briganti e che loro avrebbero ripreso le armi per «ammazzare tutti li giacobini». L’attesa dell’arrivo di Fra’ Diavolo era forte; il brigante, preceduto dalla sua fama e dalla sua notorietà, era considerato la scintilla della nuova rivolta, il capo sotto le cui bandiere riunirsi e l’unico in grado di sconfiggere i francesi. Accanto all’odio per i giacobini emerge anche la volontà di uccidere tutti i «galantuomini» e buona parte dei preti, lasciandone in paese solo due, necessari per servire la messa79. Vengono inseriti quindi elementi di un sovversivismo antistatale molto accentuati, fino a progettare di cacciare il papa dallo Stato pontificio80.

I discorsi riportati dai testimoni non sono stati pronunciati in ambiti ristretti, bensì in pubblico; gli imputati non temevano di essere sentiti se non dalle persone che intendevano colpire, ma anzi utilizzavano queste loro presunte informazioni sulla situazione napoletana per tentare di fare proseliti alla loro causa81. Una delle testimonianze più significative è quella di Isidoro Magliocchetti che riferisce di un colloquio tra Giovanni del Monte e Giovanni Lucia, udito di nascosto che per la sua importanza merita di essere riportato per intero:

dice del Monte: «quel che avevo da fare famelo subito, che aspettamo di più». Replica Lucia: «per c non si è mosso nessuno ancora, e ci volemo mover noi, qualche avviso ci ha da venire; basta sarà la presa di prima questa: se si ha da fare, la vollemo far giusta mò»82.

Magliocchetti aggiunge che Epifanio Longhi e Domenico Antonio del Monte si recavano spesso in giro per i paesi vicini per avere notizie degli insorgenti del Regno di Napoli e per tenere i contatti con i loro vecchi compagni d’armi dal momento che aspettavano il riaccendersi dell’insorgenza per «rubbare, e levarsi tutti quei capricci, che hanno in mente, essendo essi persone d’indole cattivo»83. La testimonianza, per quanto importante, deve essere valutata con prudenza in quanto Isidoro Magliocchetti era, come abbiamo precedentemente ricordato, stato arrestato più volte dagli imputati e aveva subito anche violenze personali e familiari.

Avidità di saccheggio, spirito di vendetta, ostilità verso le autorità politiche e religiose, «indole» pericolosa e «pessime qualità» costituiscono dunque i temi principali delle accuse che la Congregazione muove agli imputati e che contribuiscono a creare la figura di insorgente-brigante, avido, violento molto funzionale alla strategia politica posta in essere dalla Congregazione stessa.

Vengono del tutto depontenziate se non addirittura negate, motivazioni diverse come le delusioni per i risultati dell’insorgenza ormai diventata solo «il tempo dell’anarchia» e non quello della liberazione dello Stato pontificio dagli occupanti francesi e dai loro amici repubblicani. Dalle carte processuali, soprattutto quelle del processo del 1801, sopravvive invece un odio profondo contro i repubblicani. Tra gli imputati del 1806, riscontriamo la volontà di uccidere tutti coloro che avevano fatto parte della Repubblica o che si erano schierati in varie forme con essa e che si erano salvati nella precedente insorgenza84.

  1. Un paese diviso

La divisione tra repubblicani e insorgenti è presente in maniera chiara a Fumone. Da un lato esiste un gruppo di tredici persone schierato con l’insorgenza e guidato dal sacerdote Pietro Corneli. È un gruppo unito che si muove insieme sia nell’insorgenza del 1798 che nel periodo che va da maggio 1799 a tutto il 1800. Per otto di costoro è possibile ricostruire la loro condizione sociale con tutte le difficoltà e le prudenze che questa indagine comporta85; due sono piccoli proprietari terrieri con un terreno sufficientemente grande da permettergli di vivere (Epifanio Longhi e Domenico Antonio del Monte); quattro sono piccoli artigiani, un conciatore di panni (Pio Cavallo), un falegname (Costantino Caponeri), un mastro ferraio, che è anche archibugiere (Giovanni Antonio del Monte), e un calzolaio (Giovanni Lucia) che svolge anche le funzioni di fattore di campagna del marchese Longhi; i due restanti sono un guardiano delle macchie del paese e macellaio in Alatri (Michele Bellotti) e l’ultimo è un sacerdote (Pietro Corneli), che è anche il capo degli insorgenti. Provengono quindi tutti dagli «ordini inferiori»86; i due proprietari terrieri, nei loro interrogatori, dichiarano di essere costretti a lavorare saltuariamente nei campi altrui; il falegname arrotonda il suo introito vendendo del vino nella cantina della sua casa; tutti partecipano alla vita del paese ma non in posizione prevalente.

Dalla parte dei repubblicani figurano invece alcuni dei personaggi più importanti del paese, a cominciare dal figlio del marchese Longhi, Francesco, che assume la carica di edile e la mantiene molto a lungo87; degli altri non sappiamo quali ruoli ricoprissero in paese prima della Repubblica, ma, dopo il ritorno del pontefice, molti sono collocati in posizioni di rilievo: Isidoro Magliocchetti, oltre ad avere una bottega di barbiere è l’esattore e depositario della comunità, Giovan Battista Starnachi svolge il ruolo di segretario e di vice governatore, Felice Potenziani è sindaco del paese, Pio Galli medico condotto; di Carlo del Monte aggiunto durante la Repubblica e di Ciriaco del Monte, comandante della Piazza, non si conosce l’attività88.

Dal canto loro, il gruppo degli insorgenti che è legato da amicizia, e che ha di fatto “gestito” il potere nel paese durante la fase finale, estremamente convulsa, della Repubblica vedendo ritornare in paese e in posizioni di potere coloro che vi erano stati cacciati, non si rassegna ma riprende una pratica di lotta che quasi sicuramente era presente anche prima dell’esperienza repubblicana.

Sembra quindi che la divisione tra repubblicani e insorgenti ricalchi divisioni preesistenti alla Repubblica e che lo scontro interno al paese possa essere ricondotto alle pratiche tipiche di conflittualità delle comunità di antico regime, come utilizzo delle reti di parentela, denunce con memoriali anonimi, illegalità diffusa.

Questi elementi emergono con forza dirompente nel processo del 1806. Dinamiche di questa natura, che sono presenti in maniera rilevante e che non devono essere sottovalutate o minimizzate non sono tuttavia sufficienti a spiegare compiutamente un fenomeno come quello dell’insorgenza.

L’arrivo della Repubblica, e lo scontro che questa provoca, producono un cambiamento nelle coscienze degli uomini che vi hanno partecipato. L’esperienza repubblicana, per quanto breve e anche contraddittoria, investe tutta la sfera della vita delle comunità, dall’orario, alle feste, al calendario, alla nuova simbologia e arriva a mettere in discussione una cultura fatta di certezze antiche e fino a quel momento ritenute immodificabili; si insorge anche contro il cambiamento, in difesa di una cultura che sola può assicurare «forza, protezione, identità e rifugio»89; l’insorgenza si presenta quindi come un movimento difensivo; «è difesa del gruppo dalla disgregazione»90. Si lotta per il ristabilimento di un ordine morale, sociale ed economico che è stato violato e contro coloro che lo hanno violato si abbatte una violenza senza pari con una crudeltà in molto casi impressionante. Lo scontro tra insorgenti e repubblicani assume i contorni di uno scontro tra «visioni del mondo»91. Il giacobino è «il nemico» da uccidere, con il quale non si devono avere contatti, come dice Costantino Caponeri alla vista di Ciriaco del Monte nel 180192.

Ancora nel 1806 vediamo questi uomini riunirsi nella piazza del paese, parlare tra loro nell’osteria o nella bottega di ferraio di uno di essi; inquieti e sospettosi aspettano un segnale esterno, come l’arrivo di Fra’ Diavolo, ormai diventato nell’immaginario delle popolazioni di quella zona l’antigiacobino per eccellenza, pronti a riprendere le armi questa volta per risolvere definitivamente la partita con gli odiati “giacobini” e con tutti i loro amici.

La Repubblica ha lasciato tracce profonde negli uomini del tempo; la divisione che ha portato persiste in forme e con modalità che necessitano di studi ulteriori. Il fenomeno storico dell’insorgenza, complesso, contraddittorio e a volte sfuggente, si rivela un prisma nuovo e prezioso attraverso il quale osservare le masse popolari della penisola in un periodo fondamentale per la storia d’Italia.

Luca Topi

fonte

uniroma.it

Note

  1. Presso l’Archivio di Stato di Roma (d’ora in poi asr), Miscellanea di carte politiche e riservate, b. 36, fasc. 1277 è conservata una lettera inviata il 29 marzo 1806 dal rappresentante francese a Roma, cardinale Fesch, a Consalvi nella quale si chiede in maniera molto decisa e anche dura di arrestare tutti coloro che turbano la pubblica tranquillità dello Stato, sia compiendo atti di brigantaggio, sia con lo spargere voci contro la Francia.
  2. Si tratta di una ventina di processi di cui si sono conservati i soli ristretti fiscali in asr, Miscellanea di carte politiche e riservate, b. 38, fasc. 1337. L’opera della Congregazione è stata attentamente esaminata da Marina Caffiero a cui si deve anche la “scoperta” delle carte prodotte dalla Congregazione, M. Caffiero, Perdono per i giacobini, severità per gli insorgenti, in A. M. Rao (a cura di), Folle controrivoluzionarie. Le insorgenze popolari nell’Italia giacobina e napoleonica, Carocci, Roma 1999, pp. 291-324.
  3. Caffiero, Perdono per i giacobini, cit., p. 316.
  4. Il confine è una lunga linea diseguale e serpeggiante che, dopo aver seguito lo spartiacque montuoso tra la Marsica e la Ciociaria, taglia trasversalmente la valle del Liri tra Balsorano e Sora, sino a Arce. Scende poi nella valle del Sacco-Liri, s’incunea tra Ausoni e Aurunci, costeggia le falde degli Ausoni e raggiunge il mare a breve distanza da Terracina; in molti punti non è tracciato in modo chiaro, a causa di zone in parte frastagliate, per molti tratti disabitate, boscose e acquitrinose. Così viene descritto nel 1829: «Con il regno di Napoli [] è segnato il confine di cui ragionasi da montagne aspre, monti poco coltivati, e passabili colline fra le quali vi è qualche valle di fiume, di lago, e di palude», G. Calindri, Saggio statistico storico del Pontificio Stato, Tipografia Garbinesi e Santucci, Perugia 1829, p. 16.
  5. Sull’insorgenza del dipartimento del Circeo cfr. L. Topi, “C’est absolumment la Vandée”. L’insorgenza del Dipartimento del Circeo, FrancoAngeli, Milano 2003; L. Tombolesi, L’insurrezione del luglio 1798 nel dipartimento del Circeo, in “Latium”, 1998, 15, pp. 67-170; G. Segarini, M. P. Critelli, Une source inédite de l’histoire de la République Romaine. Les registres du Commandant Girardon. L'”insorgenza” du Latium méridional et la campagne du Circeo, in “Mélanges de l’École française de Rome. Italie et Méditerranée”, 1990, 1, pp. 245-453; M. P. Critelli, “C’est absolumment la Vandée”. Girardon e l’insorgenza del Circeo, in La Repubblica romana tra giacobinismo e insorgenza 1798-1799, in “Archivi e Cultura”, xxiii-xxiv, 1990-91, pp. 145-64; B. Valeri, La rivoluzione francese a Ferentino, in L. Fiorani (a cura di), La rivoluzione nello Stato della Chiesa 1789-1799, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 1997, pp. 671-710; M. Colagiovanni, Lazio violento, ed. “Sanguis”, Roma 1974 e gli atti del Convegno, Gli anni rivoluzionari nel Lazio meridionale (1789-1815), atti del convegno (Patrica 29 ottobre 1989), Istituto di storia e arte del Lazio Meridionale, Patrica 1990.
  6. Il fascicolo processuale è conservato in asr, Corte di Giustizia Criminale, b. 8, fasc. 87 e merita una descrizione per la sua importanza. Nel 1810 uno dei condannati Domenico Antonio del Monte, che sconta la pena a Civitavecchia, presenta istanza di revisione del suo processo alla Corte di giustizia criminale francese; il procuratore generale rimette l’intero fascicolo alla Corte che il 3 maggio 1810, in consiglio privato nega la revisione del processo. L’incartamento è composto dal processo a carico di del Monte e degli altri imputati compilato nel 1806 (cc. 1-93r); a questo processo nello stesso 1806 erano stati allegati altri due procedimenti giudiziari sempre riguardanti gli imputati del 1806; uno a carico di Michele Bellotti del maggio 1800 (s. n.) che era stato accusato di porto d’armi pericolose ed era stato assolto, e un altro assai più interessante contro Epifanio Longhi e Costantino Caponerio del settembre 1801 (cc. 1-110r) accusati di «ferite senza pericolo di vita con qualità e circostanze gravanti in persona di Ciriaco del Monte» dimessi su discarico dello stesso del Monte; a queste ultime carte sono state cucite insieme le carte relative a un procedimento del 1808 (da c. 94r a c.118v) compilato dal governatore di Spoleto contro Epifanio Longhi, che riguardano il solo interrogatorio di Longhi. Completano il voluminoso incartamento relazioni, lettere, ristretti fiscali dei processi del 1806 e del 1808.
  7. Sulle diocesi nello stato pontificio cfr. V. E. Giuntella, Le diocesi dello Stato della Chiesa 1789-1799, in Fiorani (a cura di), La rivoluzione nello Stato della Chiesa, cit., pp. 592-601, e ivi, G. Giammaria, La situazione nelle diocesi del Lazio meridionale, pp. 632-69.
  8. G. Marocco, Monumenti dello Stato Pontificio e relazione topografica di ogni paese, Tipografia Boulzaler, Roma 1834, t. v, pp. 51-8.
  9. «Quando Fumone fuma tutta Campagna trema», ivi, p. 51.
  10. Si assume la divisione usata negli atti della Commissione per l’Inchiesta agraria che suddivide le zone agricole in tre aree: Monte, Colle, Piano, che contengono a loro volta delle sottodivisioni; Atti della Giunta per la Inchiesta Agraria e sulle condizioni della classe agricola, vol. xi, Relazione del Commissario Marchese Nobili-Vitelleschi senatore del Regno, sulla Quinta Circoscrizione (provincie di Roma Grosseto, Perugia, Ascoli Piceno, Ancona, Macerata e Pesaro), Fascicolo i Provincie di Roma e Grosseto, Roma 1883, vol. xi, t. i.
  11. Calindri, Saggio statistico storico del Pontifico Stato, cit., p. 166.
  12. T. Tolassi, La cultura della castagna, in Agricoltura, proprietà e società contadina a Patrica nei secoli xvi-xx, (atti del Convegno, Patrica 30 ottobre 1998), Istituto di storia e di arte del Lazio Meridionale, Patrica 1989, pp. 71-87.
  13. Sulla popolazione del Lazio cfr. C. Schiavoni, E. Sonnino, Popolazione e territorio nel Lazio: 1701-1811, in La popolazione italiana nel settecento, clueb, Bologna 1980, pp. 191-226.
  14. Per le tabelle e i dati cfr. F. Corridore, La popolazione dello Stato romano (1656-1901), Loescher, Roma 1906. I problemi legati agli «stati delle anime», alla loro formazione e al loro utilizzo sono stati oggetto di molti e approfonditi studi della storiografia che si occupa della demografia; qui mi limito a segnalare il saggio di E. Sonnino, Le anime dei romani; fonti religiose e demografia storica, in “Storia d’Italia”, Annali 16; L. Fiorani, A. Prosperi (a cura di), Roma, la città del papa. Vita civile e religiosa dal giubileo di Bonifacio viii al giubileo di papa Wojtyla, Einaudi, Torino 2000, pp. 327-64.
  15. Questa situazione persiste nel tempo tanto che nel 1883 nella Relazione della Giunta è denunciata come una delle piaghe che maggiormente affliggono gli uomini della provincia di Frosinone, Atti della Giunta per la Inchiesta Agraria e sulle condizioni della classe agricola, cit., p. 300.
  16. Su questi aspetti cfr. P. Villani, Ricerche sulla proprietà e sul regime fondiario nel Lazio, in “Annuario dell’Istituto italiano per l’età moderna e contemporanea”, xii, 1960, pp. 97-263, per la zona di Fumone pp. 136-7.
  17. G. Neri, Realtà contadine, movimenti contadini, in Storia d’Italia. Le regioni dall’unità a oggi, il Lazio, Einaudi, Torino 1991, pp. 167-243.
  18. Cfr. G. Rossi, L’agro di Roma tra ‘500 e ‘800. Condizioni di vita e lavoro, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1988.
  19. Il medico Cestari ci ha lasciato questa descrizione: «Ho veduto in una sola camera dove visitavo due giovani infermi [] dimorare la notte nove persone, compresi cinque fanciulli, due somari, due porci, un cane, due gatti, un grosso agnello, e non poche galline, e tanto que’ fanciulli, quei due infermi e quelle bestie, si scaricavano il ventre in quella stessa camera nel corso della notte, ne vi era, che un solo ristretto e meschinissimo letto, dove stavano due coniugati», G. C. Cestari, Della morbosa annuale costituzione di Anagni, e particolarmente di quella accaduta negli anni 1775, 76 e 77, Perugia 1781; quest’opera come precisa Torre è stata scoperta a Patrica da alcuni anni e rappresenta una valida fonte per la conoscenza della situazione igienico-sanitaria non solo della città di Anagni ma di tutto il dipartimento; la citazione è tratta dall’opera di D. Torre, Sanità medicina ed ospedali in Anagni, Istituto di storia e arte del Lazio meridionale, Anagni 1984, p. 67; in questo saggio l’autore riporta numerosi stralci dell’opera del Cestari.
  20. Calindri, Saggio statistico storico del Pontificio Stato, cit., pp. 171-432.
  21. G. Marocco, Monumenti dello Stato pontificio e relazione topografica d’ogni paese, cit., p. 46. Queste modalità di vita faranno sì che l’avvocato Fiori nella sua storia politica del brigantaggio parlerà di «un’indole naturale, parte ferina, parte propotente, e proclive all’atrocità del delitto», G. Fiori, Storia politica del brigantaggio della Provincia di Marittima e Campagna, a cura di G. Giammaria, in “Il Sangue della Redenzione”, lxii, 2, 1976, pp. 125-66, la citazione è a p. 133. Si tratta di un importante documento scritto dall’avvocato Giuseppe Fiori, presidente della Commissione speciale che nel 1821 venne incaricata di distruggere il brigantaggio nella zona; l’originale è conservato nell’Archivio di Stato di Roma, asr, Commissione speciale per la repressione del brigantaggio, b. 6, fasc. 188.
  22. A. De Clementi, Vivere nel latifondo. Le comunità della campagna laziale tra ‘700 e ‘800, FrancoAngeli, Milano 1989, pp. 188-99.
  23. Sulla Repubblica romana vi sono una serie di studi ormai diventati dei “classici” tra cui qui cito solamente i lavori di V. E. Giuntella, La giacobina Repubblica Romana (1798-1799). Aspetti e momenti, in “Archivio della Società romana di Storia Patria”, lxxiii, 1950, fascc. i-iv, pp. 1-213; Id. (a cura di), Bibliografia della Repubblica romana del 1798-1799, Istituto di Studi Romani, Roma 1957; R. De Felice, Italia Giacobina, esi, Napoli 1965; Id., Il triennio giacobino in Italia (1796-1799). Note e ricerche, Bonacci, Roma 1990; Id., La vendita dei beni nazionali nella Repubblica romana del 1798-99, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1960; A. Dufourcq, Le Régime jacobin en Italie. Etude sur la République romaine (1798-1799), Perrin, Paris 1900; M. Battaglini, Le istituzioni di Roma giacobina (1798-1799). Studi e appunti, Giuffrè, Milano 1971. Accanto a questi, una nuova serie di studi apparsi negli ultimi anni hanno messo in luce diversi aspetti dell’esperienza repubblicana e contribuito ad analizzarne di nuovi, sia nella città che nei dipartimenti; sarebbe difficili dare conto di tutta questa produzione, mi limito qui a segnalare il bel volume di D. Armando, M. Cattaneo, M. P. Donato, Una rivoluzione difficile. La Repubblica romana del 1798-1799, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 2000 che contiene una bibliografia aggiornatissima a cui rimando.
  24. Collezione di Carte pubbliche, proclami, editti, ragionamenti ed altre produzioni tendenti a consolidare la rigenerata Repubblica Romana, Roma, per il cittadino Luigi Perego Salvioni, tt. 5, 1798-1799, i, p. 469 [d’ora in poi ccp]. Il dipartimento insiste sulle diocesi di Alatri, Anagni, Ferentino, Segni, Terracina, Veroli, compresa quella di Aquino che è situata all’interno del Regno di Napoli ed è costituita da due sole città (Ponte Corvo e S. Oliva) e sul territorio di Vallecorsa, terra dei Colonna nello Stato pontificio ma dipendente dalla diocesi di Fondi. A quest’area devono essere aggiunte alcune città con le relative aree che rientravano nelle diocesi di Ostia-Velletri (Cori, Norma, Rocca Massima, Cisterna e Ninfa), Palestrina (Gennazzano, Olevano, Paliano, S. Vito, Serrone), e dell’Abbazia di Subiaco (Affile, Civitella, Ienne, Ponza, Rocca S. Stefano, Roiate, Trevi). Gli altri dipartimenti, con i rispettivi capoluoghi sono Cimino, Viterbo; Clitunno, Spoleto; Metauro, Ancona; Musone, Macerata; Tevere, Roma; Trasimeno, Perugia; Tronto, Fermo.
  25. Sulla Costituzione cfr. Giuntella, La giacobina Repubblica Romana, cit., pp. 85-130; la Costituzione della Repubblica romana in ccp, i, pp. 103-42. Sul nuovo ordinamento amministrativo cfr. P. Alvazzi del Frate, Sistema amministrativo, dipartimentale e Stato pontificio. 1798-1816, in “Rivista di storia del diritto italiano”, 64 (1991), pp. 217-32.
  26. Nel processo contro Giuliano Molinari e Domenico Carnevali accusati di aver democratizzato Giuliano, Rocca di Papa, Cori e Semoneta, abbiamo alcune testimonianze che descrivono la scena dell’erezione dell’albero della libertà; quattro contadini di Giuliano dichiarano che l’ultimo giorno di carnevale arrivarono nel paese alcuni abitanti di Rocca di Papa che alzarono l’albero della libertà gridando: «Evviva la libertà, evviva la Repubblica romana»; asr, Giunta di Stato 1799-1800, b. 3, fasc. 32.
  27. A. Sacchetti Sassetti, Storia di Alatri, Tofani, Alatri 1967, p. 211. Francesco Longhi è nominato Edile e Carlo del Monte Aggiunto, la nomina era stata precedentemente approvata in un proclama del 14 germinale anno vi (3 aprile 1798), ccp, i, pp. 262-7.
  28. Testimonianza di Epifanio Longhi del 9 ottobre 1801, asr, Corte di Giustizia Criminale, b. 8, fasc. 87, cc. 82v-83r.
  29. Questo provvedimento rientra con altri all’interno della legge fiscale promulgata dal generale S. Cyr il 10 germile anno vi (30 marzo 1798) dove si reclamavano provvedimenti urgenti e straordinari per far fronte al dissesto economico e per provvedere alle spese pubbliche. La legge fissava inoltre un’imposizione straordinaria da pagare in cedole sopra tutti i beni fondiari nella misura del 3% sopra i fondi che appartenevano ai “particolari” e del 5 % sopra quelli appartenenti agli istituti ecclesiastici, ccp, cit., i, pp. 254-8.
  30. Archivio comunale di Alatri [d’ora in poi acai], Atti della municipalità 1798-1799.
  31. Ibid.
  32. Ibid.
  33. ccp, cit., i, pp. 284-5 e A. Cretoni, Roma giacobina. Storia della Repubblica Romana del 1798-99, Istituto di studi romani, esi, Roma-Napoli 1971, pp. 221-3. Immediatamente tutti i potenziali contribuenti che ricadevano nella categoria dei “particolari” si affrettarono a far sapere che non avrebbero potuto pagare le contribuzioni richieste anche perché a corto di contanti; su questo punto cfr. Stirpe, Vicende e protagonisti di Veroli, cit., p. 118 e Sacchetti-Sassetti, Storia di Alatri, cit., p. 246.
  34. Venne deciso di ripartire la somma nei vari cantoni, provocando attriti e malumori, non solo nella classe dei privilegiati, sui quali ricadeva il grosso della contribuzione, ma anche tra la gente del popolo che veniva chiamata a partecipare con prelievi individuali che variavano tra 40 e 20 scudi, quindi un tributo pensato per colpire le classi agiate veniva da queste stesse esteso a tutti, tanto da far parlare il presidente della Centrale di Anagni Panici di «esprit d’égoïsme» dei proprietari e provocare forti malcontenti fra le popolazioni dell’intero dipartimento, al punto che lo stesso Panici si vedeva costretto a richiedere l’intervento della forza armata per «far stare a dovere genti indomite e facinorose», cfr. Dufourcq, Le Régime jacobin en Italie, cit., p. 268; sull’attività di Giovanni Battista Franchi cfr. Stirpe, Vicende e protagonisti di Veroli, cit., p. 119-21 che riporta anche una lettera di protesta scritta dal Prefetto consolare al generale S. Cyr.
  35. acai, Atti della municipalità 1798-1799.
  36. Cfr. Topi, “C’est absolument la Vandée”, cit., pp. 47-83.
  37. Sacchetti-Sassetti, Storia di Alatri, cit.; V. Palmesi, Il dipartimento del Circeo sotto la Repubblica del 1798-1799, in “L’eco di Alatri”, 1901. L’autore parla anche di una persona uccisa dagli insorgenti, il chirurgo Belli, ma non ho trovato nessuna conferma a questa unica segnalazione.
  38. Segarini, Critelli, Une source inédite, cit., pp. 313-4, tutte sottomissioni arrivate al generale francese il 13 termidoro anno vi (31 luglio 1798); su Alatri cfr. Sacchetti-Sassetti, Storia di Alatri, cit., pp. 221-2.
  39. Cfr. Ragguaglio della presa della ribella città di Terracina fatta dalle truppe francesi stazionate nel territorio Romano sotto il comando del Ge. di Divisione Macdonald seguita Venerdì 23 del cadente Termidoro Anno sesto Repubblicano, in Roma presso il cittadino Pilucchi Cracas, Anno vi repubblicano, una copia in Biblioteca Apostolica Vaticana, Rospigliosi, v, 376 pubblicato nel supplemento n. 50 della “Gazzetta di Roma”, pp. 441-2.
  40. Il 14 fruttidoro anno vi (31 agosto 1798) Girardon scrive a Macdonald che «Le Commissaire Zacaleoni est avec moi et réorganise les Municipalités», Segarini, Critelli, Une source inédite, cit., p. 375.
  41. La legge istitutiva è del 13 termidoro anno vi (31 luglio 1798), all’articolo v recita: «Farà [il generale Girardon] giudicare sommariamente da un Consiglio di Guerra composto di cinque Membri a sua scelta, e punire militarmente i Capi, Autori, ed istigatori della Ribellione, e particolarmente i preti, che vi avranno avuto parte», ccp, ii, p. 397. La Commissione che è formata dai seguenti membri: Brue, chef d’Escardon del 19° reg. Cacciatori a cavallo; Jablonowsky, capitano della 1a legione polacca; Vergne, sottotenente del 19° reg. Cacciatori a cavallo; Laforge, sottotenente del 19° reg. Cacciatori a cavallo; Dupuis, maresciallo des logis del 19° reg. Cacciatori a cavallo con Dormesson, sottotenente del 19° reg. Cacciatori a cavallo con funzioni di procuratore, dopo un primo insediamento nel capoluogo del dipartimento, Anagni, sino quasi alla fine di settembre si sposta dal 2 al 16 vendemmiale anno vii (23 settembre-7 ottobre 1798) a Sonnino per poi portarsi a Sezze (20-30 vendemmiale anno vii; 11-21 ottobre 1798) e in ultimo a Frosinone dove si trattiene dal 6 al 19 brumale anno vii (30 ottobre-9 novembre 1798).
  42. I francesi importano un nuovo “modo” di morire che impressionò molto la popolazione. Nel governo pontificio la morte del condannato avveniva in diverse maniere, decapitazione, impiccaggione, “mazzolatura” e le esecuzioni si svolgevano in ampi spazi caratterizzate da scenografie barocche che tendevano a impressionare il pubblico e alla presenza di confortatori religiosi, i membri della confraternita di S. Giovanni Decollato, che cercavano di salvare l’anima del condannato; tutto ciò venne abolito dai francesi che ricorsero alla semplice fucilazione, eliminando qualsiasi tipo di conforto religioso. Sulle diverse modalità di morire e sul conforto ai condannati nella Roma del Settecento cfr. A. Ademollo, Le annotazioni di Mastro Titta carnefice romano. Supplizi e suppliziati. Giustizie eseguite da Gio. Batt. Bugatti e dal suo successore (1796-1870), S. Lapi, Città di Castello 1886 (rist. anat. Bologna 1984); V. Paglia, La morte confortata. Riti della paura e mentalità religiosa a Roma nell’età moderna, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1982 e Id.,“La pietà dei carcerati”. Confraternite e società a Roma nei secoli xvi-xviii, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1980; L. Cajani, Pena di morte e tortura a Roma nel Settecento, in Criminalità e società in età moderna, Giuffrè, Milano 1991, pp. 517-47; sui nuovi modi di uccidere nella Roma repubblicana, M. Formica, La città e la rivoluzione. Roma 1798-1799, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma 1999, pp. 250-64.
  43. Cfr. Palmesi, Il Dipartimento del Circeo, cit. A Roma furono eseguite nel biennio 89 fucilazioni (47 nel 1798 e 42 nel 1799) mentre nel ventennio 1777-1797 le condanne capitali furono 23 in tutto; dati ricavati da M. Formica, Vigilanza urbana e ordine pubblico a Roma (1798-1799), in “Roma Moderna e Contemporanea”, ii, 1994, 1, pp. 31-54); per un quadro della pena di morte a Roma nel Settecento cfr. Cajani, Pena di morte e tortura a Roma nel Settecento, cit., pp. 517-47.
  44. ccp, iii, pp. 137-8.
  45. Cfr. Segarini, Critelli, Une source inédite, cit., p. 351, rapporto n. 97 dell’1 fruttidoro anno vi (18 agosto 1798).
  46. ccp, iv, pp. 87-90.
  47. L’esercito francese, come gli altri eserciti degli Stati europei, non ha al suo seguito una vera organizzazione di sussistenza né un servizio di salmerie, bensì viveva sulle spalle delle popolazioni locali; sulle armate francesi in generale si veda G. Blond, Storia della Grande Armée: 1804-1815, Rizzoli, Milano 1981 e A. Forrest, The soldiers of the French Revolution, Duke University Press, Durham and London 1990; sul rapporto fra l’esercito e la società cfr. A. M. Rao (a cura di), Esercito e società nell’età rivoluzionaria e napoleonica, Morano, Napoli 1990.
  48. Il 23 termidoro anno vii Girardon comunica lo schieramento delle sue truppe nel dipartimento; tiene a Anagni una forte riserva e disloca in tal modoi suoi uomini: 75 uomini a Ferentino, 250 a Frosinone, 150 a Alatri e Veroli, 170 a Piperno e 33 a Valmontone; il giorno successivo, 24 termidoro anno vi (11 agosto 1798) in un ordine inviato al comandante di Veroli, il generale ribadisce di non disperdere assolutamente gli uomini in tutte le piccole frazioni e comuni della zona ma invece di inviare pattuglie ad arrestare tutti coloro che non obbediscono agli editti e tutti coloro che hanno partecipato all’insorgenza macchiandosi di reati di sangue, Segarini, Critelli, Une source inédite, cit., pp. 331, 333.
  49. acai, Atti della municipalità 1798-1799.
  50. Disponiamo per la città del rendiconto dei conti dell’edile Giovanni Battista Pecci per quel che riguarda l’approvvigionamento alimentare dei soldati francesi; costui ricoprì la carica di edile per i mesi di settembre, ottobre e novembre del 1798, fino dunque all’arrivo dei napoletani. Si tratta di un documento molto interessante e nel suo genere quasi unico, in quanto mostra in dettaglio le spese sopportate dalla cittadinanza per il mantenimento delle truppe. Vi si trova un elenco giornaliero delle presenze dei soldati e degli ufficiali nella città di Alatri e tutti i nomi di coloro che dovettero o pagare per le contribuzioni o fornire il necessario; asr, Congregazione del Buon Governo, serie ii, b. 69.
  51. Vengono esatte dai “particolari” del cantone: 56 rubbia di partite di grano; 299 barili e 34 fogliette di partite di vino; la fornitura di animali da macello (buoi, vitelli, capre e capretti) restituisce 13.169 libbre di carne; 600 fogliette di olio vengono requisite; anche la biada e il fieno per i cavalli entrano a far parte delle contribuzioni (36 rubbia di biada e 1.608 decine di fieno; per i soldati e gli ufficiali si richiedono anche gallinacci e capponi (167 sono i gallinacci e 30 i capponi); sono anche requisite 9 coperte e 2 lenzuoli; inoltre Giovan Battista Pecci esige anche del denaro per il mantenimento delle truppe, si tratta di 50 scudi e 71 baiocchi; asr, Congregazione del Buon Governo, serie ii, b. 69.
  52. Giuseppe Antonio Sala nel suo diario in data 6 ottobre 1798 scrive: «Tutt’i luoghi del Dipartimento del Circeo, dove trovansi truppe francesi e polacche soffrono le più grandi vessazioni. Io ho riscontrato da Anagni che mancando colà grano, biada, vino e fieno, e continuando a rimanervi 500 uomini di truppa, pretendono di esser provvisti di tutto», G. A. Sala, Diario Romano degli anni 1798-1799, 3 voll., a cura di V. E. Giuntella, Società romana di storia patria, Roma 1980, ii, p. 190.
  53. Memorie dell’Avvocato Antonio Galimberti, cit., i, cc. 191v-194r; giornata del 26 novembre 1798, e G. A. Sala, Diario Romano , cit., ii, pp. 225-32. Sulla ritirata francese da Roma e sui giorni immediatamente precedenti e successivi cfr. Cretoni, Roma giacobina, cit., pp. 277-89.
  54. Un proclama del generale francese Championnet del 24 glaciale anno vii (14 dicembre 1798) ci informa sui prigionieri dell’armata napoletana; si tratta di 2 generali, 20 fra colonnelli, tenenti colonnello o maggiori, 200 ufficiali, 10.000 soldati, 300 cavalli, 400 muli con equipaggiamento e 84 pezzi di cannone; nello stesso proclama il generale esalta il ruolo avuto nel combattimento dai cittadini Borghese e Santa Croce, ccp, iii p. 301.
  55. Sala, Diario Romano, cit., ii, p. 237.
  56. Cfr. Sacchetti Sassetti, Storia di Alatri, cit., p. 264-5 e Dufourcq, Le Régime jacobin en Italie, cit., p. 411; la Cronaca dell’abate Bellincampi fa solo una breve citazione: «I nostri patriotti sono andati a Fumone a caccia di insorgenti, al Monte S. Giovanni per l’istesso motivo», Cronaca dell’abate don Sebastiano Bellincampi, cit. La notizia della sconfitta degli insorgenti presso Fumone viene comunicata al ministro di Giustizia e Polizia dal presidente del tribunale di censura di Veroli, Gorirossi, ccp, iv, p. 50 (11 ventoso anno vii-1 marzo 1799), dall’edile di Veroli, Alviti e dai due commissari della Repubblica Jacoucci e Poggioli che sempre in data 11 ventoso scrivono che «I bravi repubblicani vegliano [] la Guardia di Ceprano, di Monte S. Giovanni, di Alatri, di Veroli ha ben meritato della Patria», ccp, iv, pp. 49-50. Il 13 ventoso anno vii (3 marzo 1799) il ministro pubblicizza l’accaduto con molta enfasi scrivendo che «l’orda degli assassini che turbava la tranquillità interna della Repubblica, cade vittima del coraggio repubblicano [] in Alatri i patriotti, e la Guardia Nazionale hanno respinti nelle loro prime mosse gl’insorgenti, che fugati e dispersi cercano i nascondigli delle fiere per sottrarsi alle bajonette che li perseguono», ccp, iv, p. 47.
  57. Sull’elezione di Gaetano Mammone a capo massa abbiamo la testimonianza di un manoscritto riportata da Lauri nel suo scritto, dove si dice che al momento della sua acclamazione Mammone avrebbe pronunciato questo discorso davanti alla folla: «Sono contento del comando che mi date; però pensate che io, per l’amore che porto a Casa reale, sarò terribile coi nemici del nostro Sovrano. Vi avverto: voi siete in tempo di nominare un altro. Io so dove sta il puzzo: vi sarà pena la testa: lo vedrete! [Il popolo risponde] “Taglia! Taglia! Morte ai giacobini”», A. Lauri, Sora, Isola del Liri e dintorni, tipolitografia V. d’Amico, Sora 1913, p. 76. Sui rapporti fra il brigante e il vescovo cfr. L. Alonzi, Il vescovo-prefetto. La diocesi di Sora nel periodo napoleonico 1796-1818, Centro di studi sorani “Vincenzo Patriarca”, Sora 1998, pp. 50-1, 70-7. Su Mammone nel periodo del 1799 cfr. D. Celestino, M. Ferri, Il brigantaggio a Sora e nella valle di Comino dal 1798 al 1808, Centro studi cominium, Veroli 1979, pp. 39-52.
  58. Vincenzo Cuoco ci ha lasciato questa descrizione del bandito: «Mammone Gaetano, prima molinaro, indi generale in capo dell’insorgenza di Sora, è un mostro orribile di cui difficilmente si ritrova l’eguale. In due mesi di comando, in poca estensione di paese, ha fatto fucilare trecentocinquanta infelici [] non si parla dei saccheggi, delle violenze, degli incendi; non si parla delle carceri orribili nelle quali gittava gl’infelici che cadevano nelle sue mani, non de’ nuovi generi di morte dalla sua crudeltà inventati [] il suo desiderio di sangue umano era tale, che si beveva tutto quello che usciva dagl’infelici che faceva scannare», V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, Rizzoli, Milano 1999 p. 265.
  59. «Essi furono ai saccheggi dati in Frascati, in Anagni, e nella terra di Affile, ed al ritorno in Fumone portarono della gran robba rubbata, specialmente cavalli, muli, e somari che fra di loro divisero e si vantavano pubblicamente del male che aveano fatto in queli luoghi, massime in genere di donne, e Michele Bellotti mi raccontò che in detta terra di Affile per fine entro la chiesa avevano sforzato e disonorate delle donne», testimoninaza del 22 giugno 1806 di Isidoro Magliocchetti, asr, Corte di Giustizia Criminale, b. 8, fasc. 87, cc. 12v-13r.
  60. Il 20 fiorile anno vii (9 maggio 1799) la municipalità del paese spedisce una lettera al ministro delle Finanze nella quale si dice che gli abitanti, saputo che gli insorgenti erano nei pressi di Trevi, Trivigliano e di altri paesi, si erano radunati, formata una truppa civica di 50 uomini ed erano pronti a respingere ogni attacco degli insorgenti, asr, Rep. Rom., b. 16, fasc. 76. Il paese di Affile verrà indicato nelle legge del 27 pratile anno vii (15 giugno 1799) come comune che ha «ben meritato della patria», ccp, iv, pp. 489-91. Il saccheggio del paese è così descritto da Galimberti il 29 messidoro anno vii (17 luglio 1799): «Si seppe, che gl’insurgenti aveano presa Affile ed incendiatale intieramente e ne aveano uccisi tutti gli abbitanti», Memorie dell’Avvocato Antonio Galimberti, cit., i, c. 348r; anche la cronaca di Bellincampi riporta l’accaduto: «han dato ferro, fuoco e sangue in Afile per aver fatta lunghissima resistenza», in Cronaca dell’abate don Sebastiano Bellincampi, cit. Su questo episodio cfr. P. Toscanelli, Arcinazzo romano. Saggio storico, Palestrina 1979. Al saccheggio di Affile partecipano anche alcuni imputati del paese di Serrone; tra questi Giuseppe Fulli ebbe alcune coperte e un somaro come premi per aver partecipato al fatto, asr, Giunta di Stato, b. 15, fasc. 212.
  61. asr, Corte di Giustizia Criminale, b. 8, fasc. 87, cc. 70v-71r.
  62. Su questi avvenimenti cfr. Alonzi, Il vescovo-prefetto, cit., p. 72 e Ferri, Celestino, Il brigantaggio, cit., p. 50; sulla presenza di Rodio a Veroli vedi Stirpe, Vicende e protagonisti di Veroli durante la giacobina Repubblica romana, cit., pp. 158-9.
  63. Cretoni, Roma giacobina, cit., pp. 389-419; il generale Naselli, per arrestare e processare i repubblicani istituisce una Giunta di Stato sul modello di quella che aveva operato a Napoli, cfr. M. C. Buzzelli Serafini, La reazione del 1799 a Roma. I processi della Giunta di Stato, in “Archivio della Società Romana di Storia Patria”, xcii, 1969, pp. 137-211; M. Cattaneo, M. P. Donato, F. R. Leprotti, L. Topi, “Era feroce giacobino, uomo ateo e irreligioso”. Giacobini a Roma e nei dipartimenti nei documenti della Giunta di Stato (1799-1800), in L. Fiorani (a cura di), “Deboli progressi della filosofia”. Rivoluzione e religione a Roma, 1798-1799, in “Ricerche per la storia religiosa di Roma”, 9 (1992), pp. 307-82.
  64. asr, Corte di Giustizia Criminale, b. 8, fasc. 87, in precedenza i tre avevano tentato di fare violenza alla moglie di Magliocchetti che però riuscì a fuggire.
  65. Sull’editto di perdono cfr. Caffiero, Perdono per i giacobini, severità per gli insorgenti, cit., pp. 300-2.
  66. Vincenzo Magliocchetti dichiara di essere stato arrestato, legato e portato in piazza dove lo volevano uccidere e solo l’intervento del canonico Corneli placa gli animi; Magliocchetti viene così imprigionato con altri abitanti di Fumone e poi alle due della notte tutti vengono scarcerati, asr, Corte di Giustizia Criminale, b. 8, fasc. 87.
  67. asr, Corte di Giustizia Criminale, b. 8, fasc. 87, c. 44r.
  68. «Esposto di Ciriaco del Monte contro Costantino Caponeri ed Epifanio Longhi per ferite e calunnie», la relazione medica ci informa che le ferite sono una nella parte sinistra del torace e l’altra nell’estremità del braccio sinistro e sono da giudicare senza pericolo di vita, relazione medica di Antonio Pitocchi chirurgo del paese asr, Corte di Giustizia Criminale, b. 8, fasc. 87.
  69. asr, Corte di Giustizia Criminale, b. 8, fasc. 87, 10 novembre 1801 per Epifanio Longhi e 8 aprile 1802 per Costantino Caponeri.
  70. asr, Corte di Giustizia Criminale, b. 8, fasc. 87, cc. 8v-9r.
  71. Si tratta di Isidoro Magliocchetti, Gaudioso Scascitelli, Sebastino Magliocchetti, Vincenzo Magliocchetti, Leone Rossi, Antonio Coladarci e il medico Pio Galli, asr, Corte di Giustizia Criminale, b. 8, fasc. 87, c. 9r.
  72. Su Michele Pezza detto Fra’ Diavolo la bibliografia è immensa e non sempre scientificamente valida; si segnala qui il volume di F. Barra, Michele Pezza detto Fra’ Diavolo. Vita avventure e morte di un guerrigliero dell’800 e sue memorie inedite, Avagliano editore, Cava de’ Tirreni 1999.
  73. asr, Miscellanea di carte politiche e riservate, b. 38, fasc. 1337, “Fumone. Di oblocuzioni sediziose, e brigantaggio”.
  74. Testimoninaza del 23 giugno 1806 di Sebastiano Magliocchetti asr, Corte di Giustizia Criminale, b. 8, fasc. 87, cc. 28v-29r.
  75. Alcuni di questi memoriali si sono conservati e riguardano accuse di malversazione mosse contro Isidoro Magliocchetti, Giovan Battista Starnachi e il marchese Longhi: le accuse contro il marchese sono del marzo 1803, il memoriale contro Magliocchetti è dell’agosto 1804, quello contro Starnaci del dicembre 1804. A discarico del marchese Longhi interviene il vescovo di Alatri mentre i Pubblici Rappresentanti difendono dalle accuse gli altri due sostenendo che le accuse provengono da persone che non rappresentano la comunità ma si tratta di un piano ideato da «qualche spirito maligno, de quali se ne contano ancor qui taluni», asr, Congregazione del Buon Governo, serie ii, b. 1820.
  76. asr, Corte di Giustizia Criminale, b. 8, fasc. 87, testimonianza del 24 giugno 1806 di Antonio Coladarci. Di Epifani Longhi si dice che è «dedito ad ubbriacarsi e per questo si rende scandaloso a tutto il paese», testimoninaza di Vincenzo Magliocchetti del 26 settembre 1801, asr, Corte di Giustizia Criminale, b. 8, fasc. 87, c. 62v.
  77. G. C. Cestari, Della morbosa annuale costituzione di Anagni, cit.
  78. Testimonianza di Leone Rossi del 23 giugno 1806, asr, Corte di Giustizia Criminale, b. 8, fasc. 87, c. 41r.
  79. Testimonianza di Gaudioso Scascitelli del 22 giugno 1806, asr, Corte di Giustizia Criminale, b. 8, fasc. 87, c. 22r.
  80. asr, Corte di Giustizia Criminale, b. 8, fasc. 87, cc. 23v-24r.
  81. Il contadino Gaudioso Scascitelli racconta, nella sua testimonianza, che viene accompagnato da Giovanni del Monte mentre si reca a fare carbone in una macchia e per tutto il tempo il del Monte gli parla della situazione critica dei francesi e gli dice che «presto si sarebbe riveduta l’insorgenza»; tutto ciò sicuramente per convincere Scascitelli a schierarsi con la prossima insorgenza, asr, Corte di Giustizia Criminale, b. 8, fasc. 87, cc. 23v-24r.
  82. asr, Corte di Giustizia Criminale, b. 8, fasc. 87, cc. 16v-17r.
  83. Testimonianza del 22 giugno del 1806, asr, Corte di Giustizia Criminale, b. 8, fasc. 87, cc. 16v-18r. Un altro teste, Gaudioso Scascitelli, sempre lo stesso giorno, dichiara di aver ascoltato Epifanio Longhi e Domenico Antonio del Monte parlare e dire «mò compare ci ritocca» e essere entrambi molto allegri; ivi, c. 24v.
  84. Il medico Pio Galli dichiara che «volevano [gli imputati] fare stragi in questo paese di quei che loro credono giacobbini», testimoninaza del 24 giugno 1806, asr, Corte di Giustizia Criminale, b. 8, fasc. 87, c. 46v.
  85. In una società preindustriale divisa in “ordini” o “stati” l’idenficazione sociale è più complessa perché meno articolata; le categorie sociali erano estremamente diverse da quelle comunemente in uso oggi; Rudé ricorda come la parola “classe” compaia come termine di distinzione sociale solo nel 1805 e che i termini di “classe operaia” e “classe media” entrarono nell’uso comune solo nel 1812; soltanto verso la metà dell’Ottocento i vecchi termini come “ordini”, “ranghi” e “gradi” vennero abbandonati del tutto; G. Rudé, La folla nella storia, Editori Riuniti, Roma 1984; su queste questioni cfr. J. Dupâquier, Problemi della codificazione socioprofessionale, in La storia sociale, fonti e metodi, Sansoni, Firenze 1975, pp. 124-36.
  86. Si riprende qui l’espressione usata da Rudé in La folla nella storia, cit., p. 222.
  87. La famiglia Pietro Longhi e i suoi figli Francesco e Gugliemo vengono processati dalla Giunta di Stato con l’accusa di aver ricoperto cariche nella Repubblica; il fascicolo è costituito da poche carte (12 in tutto) che riguardano solo il ristretto difensivo. L’accusa contestata a Francesco Longhi è quella di essere stato edile di Fumone anche se l’avvocato tenta di dimostrare che ricoprì la carica per poco tempo, fatto questo non vero in quanto troviamo Longhi edile sino almeno alla prima invasione dei napoletani, asr, Giunta di Stato 1799-1800, b. 15, fasc. 208.
  88. Queste informazioni provengono oltre che dall’interrogatorio del 1801 di Epifanio Longhi, dalla deposizione di Isidoro Magliocchetti nel processo del 1806 quando sostiene che Giovan Battista Starnachi, Felice Potenziani e Pio Galli erano ritenuti dagli imputati del «partito dei francesi», asr, Corte di Giustizia Criminale, b. 8, fasc. 87, cc. 15rv.
  89. C. Minciotti Tsoukas, I torbidi del Trasimeno. Analisi di una rivolta, FrancoAngeli, Milano 1988, p. 170.
  90. L. Accati, “Vive le rois sans taille et sans gabelle”. Una discussione sulle rivolte contadine, in “Quaderni Storici”, 21, vii, fasc. iii, 1972, pp. 1071-103; la citazione è a p. 1075.
  91. M. Cattaneo, Controrivoluzione e insorgenze, in Armando, Cattaneo, Donato, Una rivoluzione difficile, cit., p. 230; l’autore parla anche della presenza in questo scontro di una «caratterizzazione ideologica», nel senso gramsciano del termine.
  92. «Qui ci stà un inimico; io quando ho bevuto, e mangiato con gli inmici, gli tengo per amici, e non come inimici», asr, Corte di Giustizia Criminale, b. 8, fasc. 87, c. 44r.

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