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Gabriele d’Annunzio e i bibliografi

Posted by on Ott 24, 2018

Gabriele  d’Annunzio e i bibliografi

Sfogliando i cataloghi dei librai, nel gran mercato degli autografi dannunziani, scorrendo alcune lettere di lui tra le man di amicici siamo fatta una storia della scrittura del Poeta: essa si formò come la sua prosa, con le prime ambizioni che rimanevano allo stato di aspirazioni, quando il suo stile, simile a quello comune nel suo tempo, incastonava alcuni modi dei più peregrini con una doratura proprio liceale; ma come poi la sua prosa si levò repentinamente libera e padrona, la sua scrittura fu quella che fino a oggi dà al foglio la preziosità di un disegno.

                                

 

   Ricordiamo ancora le firme dannunziane intorno al 1895, in cui la zeta si confondeva con i tratti delle enne e della u vicina, la A era arrotondata e legata, non ancora isolata con tre sicuri colpi di penna. Quanto agli imitatori, vi sono di quelli, dopo gli imitatori letterari, che si accontentano di imitare tanta scrittura : la stessa cartam lo stesso inchiostro, gli stessi caratteri. Una lettera di riguardo non si concepisce ancora oggi, se non in carta a mano, come un salone di figura non si concepisce, se non dannunzianamente. Racconta uno che è stato al Vittoriale, come il Poeta gli chiedesse che cosa si dice di lui in Italia. Siccome quello esitava, Gabriele d’Annunzio esclamò : “ Dicano quel che vogliono, ma questo rimane” e batteva la mano sull’”Alcione”. Anche altro rimane : una borghesia che professa ancora i suoi ideali di vita e che, la prima volta che si è occupata di bibliografia nella sua breve storia, ha portato tutto quanto riguarda d’Annunzio alla quotazione dei titoli di borsa.

   Nel 1937 una rivista letteraria romana, in occasione della designazione di d’Annunzio a Presidente dell’Accademia, affermava che la letteratura italiana si è scostata di poco dai canoni dannunziani e che insomma si aggira tuttavia in quella sfera. Non si può sottoscrivere un giudizio siffatto senza distinguere, ma è vero che, come gusto dominante, quello dannunziano è al suo apogeo appunto perché divenuto costume, che, d’altra parte, molta della nostra prosa d’arte viene di là, che il nostro teatro quando vuole essere artistico torna a d’Annunzio, alle Basiliole e alle figlie di Jorio in ventiquattresimo, e che quando cotesto stesso teatro vuol diventare moderno è semplicemente sciatto; ed è dannunziana la lirica, solo che l’egotismo di lui, nel quale si poteva rispecchiare un mondo, è divenuto un fatto privato, di esclusiva e piccola pertinenza del poeta. Quanto alla prosa,, tutto quello chi si è fatto è stato uno sforzo per uscire dal dannunzianesimo e soltanto la gente volgare vi ricorre, in tempi semplici e chiari, perché non ha il coraggio di osare altro. Per molta parte della nostra critica, il paragone è sempre da sostenere con la prosa di d’Annunzio e allora non regge nessuno al confronto. Appunto perché il fenomeno dannunziano è grandioso e concluso fino a diventare costum, la letteratura italiana, poca o molta che sia, non è dannunziana, o non vuole esserlo.

   La prosa dannunziana, più che nell’ideale tradizionale della prosa italiana, poggia in quello della nostra grande pittura: momenti sublimi prolungati all’infinito, atteggiamenti splendidi, l’uomo portato a significare l’immagine augusta e serena della divinità, oggetti, animali, piante, paesaggi visti nella luce e nella memoria di un Tiziano e di un Giorgione. Diciamo la prosa delle “Contemplazioni”, della “Leda”, de “Il notturno”. In fondo a tutto questo, vi sarebbe un’indicazione precisa: la prosa italiana, quale è affidata a questi testi, ormai per tutti incontrovertibili, dell’opera dannunziana, sarebbe una prosa d’arte, una prosa lirica, ina prosa morale. E si può ritornare a un’ affermazione: il vero d’Annunzio, anche fuori dello stesso “Alcione”, è un grande lirico e la necessità che si affacciò anche nella sua vita di diffondersi, diventare popolare e accessibile attraverso il roimanzo, non è stata che un espediente pratico e un atto di volontà. La letteratura narrativa di d’Annunzio si può dire non esista in quanto tale: Essa non sarebbe che un tessuto occasionale fatto per contenere alcune splendide gemme, alcuni momenti lirici, che non hanno nulla da vedere con quanto, ieri come oggi, si chiamò narrazione.

   La letteratura narrativa italiana, dal Manzoni in poi, fu fatta sempre alla stessa maniera e neppure in d’Annunzio fu nuovo il modo, Non è qui da dire perché il Settecento e l’Ottocento, che videro grandeggiare il romanzo in tutto il resto d’Europa, da noi non diedero che magri risultati in questo senso. Da noi tutto accade tra lo “Jacopo Ortis” e “I Promessi Sposi”. In quest’ultima opera c’è già il problema quale lo trovò e lo lascio d’Annunzio: il romanzo è un complesso di caratteri per la maggior parte unilaterali ed esteriori, intramezzati dalle prime, in ordine di tempo nella nostra letteratura, pagine mirabili di tono lirico, che sono le descrizioni, gli spettacoli di natura, i momenti d’anima, a parte quel breve romanzo rapido e di un gusto tutto settecentesco che è l’avventura di Gertrude. Insomma, la narrazione liscia, fondata esxclusivamente sul carattere dei personaggi, in cui il paesaggio è l’uomo e nient’altro che l’uomo, aveva trovato il suo avveramento in Boccaccio e dopo di lui non si rivide più con quel tono, quella necessità, quella economia, se non, per altra via, in Goldoni e in Pirandello. Si rinnovò in Verga, ma Verga capitò male. Era il momento dell’ascensione della società italiana ed essa aveva bisogno di un maestro di vita e non di uno storico delle origini di questa vita.

   Dal lirismo manzoniano, provenne, a conti fatti, il frammento lirico carducciano; poi il frammento lirico dei Vociani ed infine la prosa lirica de gli anni Trenta, che ne ha allargato i confini fino al racconto e non sappiamo con quanto progresso. Per caso, questa enorme e addirittura schiacciante esperienza non sarebbe la vera legge deklla letteratura italiana, la quale non consente la narrazione in quanto tale, che abbia cioè nella sua stessa dinamica e nell’esatta e costante osservazione dei caratteri e degli animi la sua legge e il suo avverarsi? Questo è da vedere.

   Gli autografi dannunziani hanno sul mercato un ottimo momento e non parliamo dei preziz dei manoscritti delle opere. Gli anni di maggior voga di d’Annunzio sono senza confronto quelli degli anni Trenta del secolo scorso. L’avvenimento più palpitante della libreria antiquaria italiana erano gli autografi e le prime edizioni dannunziane.    

     Non soltanto le prime, ma le seconde, e le ristampe,le diciannovesime e i libri stampati da editori popolari nel tempo, in cui alcune opere del Poeta non erano state depositate e che poi furono tutelate dalla nuova leggw sui diritti d’autore. Anche un volumetto dal titolo “Una notte d’amore del Cav. Marino”, edizione Bideri, attribuito al d’Annunzio, a quanto pare licenzioso, raggiunse il prezzo di lire 500. Avevano prezzo anche i fascicoli dell’”Illustrazione Italiana”, in cui apparvero talvolta componimenti del Nostro e così alcuni numeri separati della “Nuova Antologia”, del “convito”, del “Rinascimento”. Si è fatta una scienza a parte di questo ramo della bibliografia e ogni catalogo che si rispetti ha la sua rubrica dannunziana. Una copia del “Giovanni Episcopo”, in carta allungata e irregolare, con le dimensioni fissate in millimetri dai conoscitori, raggiunse, in confronto agli altri esemplari di questa edizione, la quotazione di lire cinquecento. E dietro a questo si muovono anche i volumi che parlano di d’Annunzio. Anche quelli che si ritenevano sepolti dal tempo riassommano, a cominciare da certi studi di allievi del criminologo veronese Cesare Lombroso sul genio e sulla degenerazione, come era di moda alla fine dell’Ottocento considerare la letteratura e l’arte.

Alfredo Saccoccio                              

 

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