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Gaetano Filangieri, autentico genio del diritto

Posted by on Dic 17, 2016

Gaetano Filangieri, autentico genio del diritto

raffinata analisi su Gaetano Filangieri di Aldo Servidio tratto dal suo “Imbroglio Nazionale”

Nella sua ‘Scienza della legislazione (risalente agli anni ’80 del XVIII secolo), infatti, Filangieri, sottolineando la necessità di eliminare gli effetti nefasti del sistema feudale (ed incurante -si sottolinea la dirittura morale dell’uomo -di parlare contro gli interessi della sua stessa casata, quella dei principi Filangieri), indicava proprio nell’abolizione di maggiorascato e fedecommessi lo strumento migliore per ottenere quel risultato.

Questa circostanza era ampiamente nota a tutta la cultura meridionale, cosi come tutti sapevano (la posizione su maggiorascato e fedecommessi godeva di una notorietà assoluta, che andava ben oltre la stessa cerchia strettamente culturale, proprio perché coraggiosamente in contrasto con gli stessi interessi della famiglia dell’autore) che questa opinione di Filangieri coglieva pienamente nel segno.

Quale occasione migliore per sfruttare la permanenza dei due istituti giuridici (indicati da Filangieri come “essenza” di quel regime) nell’ordinamento meridionale come la “prova” del sussistere del regime e del clima feudale? Filangieri non aveva forse parlato “per” il regno di Napoli? E se Filangieri aveva ragione, chi avrebbe mai dubitato che la sussistenza “nel” regno di Napoli di quei due istituti fosse la palmare dimostrazione della sopravvivenza di un sistema e di un clima da eliminare? Ed il reclamarne l’eliminazione non sarebbe stato proprio la realizzazione -finalmente -degli auspici di un “mostro sacro” del pensiero riformatore europeo?

Gli unitari non esitarono neppure un momento a servirsi dell’opportunità. Lo fecero in modo tanto netto quanto spregiudicato. Infatti, chi per possibile ignoranza (non è infrequente ancora oggi scoprire “discepoli” che conoscono il maestro solo de relato), chi a ragion veduta, omisero di evidenziare che fra il tempo in cui Filangieri aveva scritto e quello in cui loro parlavano erano accaduti alcuni fatti che avevano cambiato completamente la situazione, presa in esame da Filangieri, come condizione “effettiva” dei regime feudale del regno di Napoli nel secolo xviii.

Capire il significato profondo di tale omissione deliberata, dà la misura dell’uso strumentale del principio di libertà da parte degli unitari, più e prima che del loro spessore morale nell’attività politica.

Quello vigente nel regno di Napoli del XVIII secolo era, infatti, un sistema feudale “puro”, unico in Europa ad aver conservato, sostanzialmente, intatte le caratteristiche originarie, che -nel caso particolare del sud -erano quelle conferite, diversi secoli prima, da Ruggero il Normanno. In larga sintesi, il feudatario agiva come fiduciario del potere regio per il governo di un territorio, aveva il potere di imporre tributi, balzelli, utilizzo dei terreni coltivabili o comunque utilizzabili per i bisogni degli abitanti, amministrare giustizia. Per questa attività, traeva i mezzi di sostentamento (per la struttura di gestione dei feudo e suoi

 

personali) dalla gestione fiscale e di concessione di sfruttamento dei terreni oltre che dalla “disponibilità di utilizzo” di una porzione, limitata e particolare, del territorio feudale che costituiva l’omonimo demanio.

In una parola, non aveva la “proprietà” delle terre infeudate, ma compensava questa carenza con il diritto di trasmettere, ereditariamente, le “prerogative” feudali utilizzando, a questo scopo, lo strumento del fedecommesso e secondo il principio del maggiorascato (una sorta di forma testamentaria con cui si legava ‘Tasse feudale” al principio che fosse indivisibile e che chi lo riceveva “doveva” ritrasmetterlo, alle stesse condizioni, al “maggiore” per discendenza; colui che, comunque, lo riceveva “doveva” esserne l’unico ed esclusivo titolare).

L’uso combinato ed esclusivo di questi due istituti caratterizzava, in genere, il regime feudale. Ma l’unica cosa trasmissibile, in regime puro, erano le “prerogative” feudali, e, dunque, solo le “funzioni fiduciarie” formavano un “asse” non divisibile per natura (l’indivisibilità era, infatti, l’elemento che caratterizzava sia maggiorascato che fedecommesso) perché derivante “unitariamente” dal potere regio. Giustamente, quindi, Filangieri riteneva che abolendo i due istituti sarebbe finito il sistema feudale, giacché eliminati dall’ordinamento gli unici due istituti che consentivano trasmissibilità delle prerogative di governo, i feudatari si sarebbero trasformati in semplici funzionari, esercitanti, magari a vita, un’attività che era, comunque, “a termine”, e strutturalmente legata, almeno, a periodiche nomine regie.

In conclusione, era evidente che tutto il significato della presenza o dell’abolizione dei due istituti rispetto al destino del regime feudale in sé, era connesso alla situazione determinatasi, nel luogo e nel tempo considerati, circa la proprietà delle terre dei feudi.

Dove questa “non” fosse entrata nell’asse feudale, il feudalesimo per esistere “doveva” poter trasmettere 1e proprie funzioni” ereditariamente giacché consisteva di “sole prerogative”, e, per far questo, poteva utilizzare solo fedecommessi e maggiorascato, perché solo tali istituti contemplavano la trasmissibilità, unitaria ed indivisibile, anche delle “prerogative” (o funzioni, che dir si voglia): in questi casi, dunque, quegli istituti erano tanto vitali per il regime feudale che la loro eliminazione ne avrebbe sancito )a morte.

Proprio come aveva limpidamente pensato Filangieri.

Dove, invece, la proprietà delle terre dei feudi ‘Tosse entrata” nell’asse feudale, l’eliminazione di quel regime in tutte le sue “conseguenze”, comportava la necessità sia di eliminare le “prerogative-funzioni” sia di disciplinarne diversamente “i diritti assoluti” che da esse fossero derivati, ed, in particolare, la “proprietà delle terre”.

Dove, quindi, i feudatari avessero acquisito il diritto di proprietà sulle terre infeudate (un diritto è cosa profondamente diversa, come è ovvio, da una prerogativa/funzione) si poteva tranquillamente lasciare

in piedi, negli ordinamenti giuridici postfeudali, i due istituti (nulla, in sé, si opponeva a che un privato cittadino disponesse delle sue proprietà come meglio gli piacesse) come forme particolari di unitarietà ed indivisibilità nelle disposizioni testamentarie. Ma se si fosse voluto eliminare il regime in sé, quel che andava assolutamente eliminato erano “solo” le funzioni feudali. Il destino della proprietà delle terre dei feudo costituiva un capitolo a parte, variamente trattabile (come, di fatto, venne variamente trattato, in Europa, dovunque se ne presentò la necessità) in relazione alle conseguenze che venivano tratte dalla fondamentale operazione di eliminazione delle “prerogative”.

Che quello del regno di Napoli nel XVIII secolo fosse un sistema feudale “puro” (cioè, con assi feudali “non” comprensivi della proprietà delle terre dei feudo, e quindi eliminabile con la semplice soppressione -come genialmente aveva compreso Filangieri -dei soli istituti giuridici che consentivano la trasmissione “ereditaria” di “prerogative”, senza coinvolgere necessariamente e subito il “sistema” delle “prerogative/funzioni”) lo avrebbe potuto rendere evidente proprio la posizione assunta da Filangieri, se non fosse stato improprio scomodare un pensiero tanto raffinato per validare quanto sette secoli di congiure e lotte feroci dei Baroni contro il potere regio (quale che fosse stato in sette secoli) stavano li a testimoniare.

Non era necessaria una particolare cultura storica per sapere che i Baroni avevano sempre e prevalentemente lamentato l’ostinazione di tutti i re di Napoli nel contrastare qualunque, anche minima, evoluzione dei loro poteri feudali proprio verso l’acquisizione della proprietà delle terre dei feudi.

Tra i tempi in cui Filangieri aveva scritto e quelli della prima Unità, però, si era verificata l’eversione delle feudalità, e, con la cancellazione diretta delle prerogative, Giuseppe e Gioacchino ebbero due problemi: il primo e fondamentale fu quello di come organizzare la funzione di governo del territorio prima spettante alle “prerogative feudali” (e vi provvidero con la riforma messa a punto da Murat), ed il secondo fu quello dei destino delle terre feudali. Un destino che, in apparenza, si mostrava di più semplice gestione rispetto al problema che avrebbero costituito quelle terre se la loro proprietà fosse stata incorporata negli assi feudali.

Le terre dei feudi restate “non” di proprietà dei feudatari, infatti, finivano col rientrare nella “disponibilità di governo” del potere regio, ed i napoleonidi pensarono di sistemarne la titolarità attraverso la forma delle assegnazioni, scegliendo come criteri guida di tale attività quello dell’utile possesso” ed, in sua mancanza, quello dell’assegnazione regia” (due criteri -che oggi si potrebbero definire soft -perfettamente in linea con il clima “imperiale” in cui si era evoluto l’originario “spirito rivoluzionario francese”).

Non è difficile immaginare quanto potette essere semplice ai Baroni esibire tutti i titoli giusti riguardo al 1oro” utile possesso delle terre -soprattutto le migliori -dei feudi. La conseguenza fu che ottennero -attraverso le leggi eversive della feudalità -quella proprietà su gran parte delle terre feudali che non avevano ottenuto con sette secoli di lotte e congiure cruente.

Ma la conseguenza maggiore fu la loro trasformazione da funzionari, in qualche modo toccati dal potere regio, in veri e propri latifondisti forniti di titoli nobiliari. Questa “variazione” venne pesantemente avvertita dalla popolazione che viveva sul feudo. Con l’abolizione della feudalità era scomparso, anche ed ovviamente, 1`istituto della servitù della gleba”, ma questo fatto, nell’immediato, si trasformò, per la popolazione infeudata in un danno, proprio per gli effetti della disciplina di ripartizione proprietaria del territorio feudale.

Infatti, in regime feudale puro, se era vero che il contadino era una “pertinenza” del feudo era anche vero che, in nome di questo principio, il contadino aveva almeno il “diritto” di coltivare “per sé” le terre affidate al l’amministrazione del feudatario. Un diritto che se non gli dava accesso al “possesso” (per l’ovvio motivo, che la possibilità di coltivare e insediarsi anche stabilmente sulle terre aveva un preciso titolo di pubblica concessione che ne escludeva, di regola, i requisiti generativi del possesso) non gli negava almeno la possibilità di procacciarsi tutto quel che fosse capace di produrre per le sue necessità.

Quando, invece, le stesse terre divennero “proprietà” dei latifondista (cioè, dello stesso feudatario trasformatosi in “padrone” il contadino si trovò trasformato in bracciante privo di ogni altra possibilità diversa da quella di lavorare “per” il padrone e solo “quando” e “dove” il padrone 1 o desiderasse (aveva perso, cioè, persino i “diritti” non sembri assurdo, perché purtroppo è vero -dei servo della gleba!).

Il degrado delle condizioni di vita e della stessa economia agricola delle terre feudali fu pesante ma fortunatamente per quel regno contenuto sia dal fatto che i feudi baronali occupavano solo il 27% delle consistenze agrarie del Mezzogiorno sia dalla crescita produttiva della restante agricoltura, cui ­dal 1840 in poi -si aggiunse la particolare effervescenza della crescita delle manifatture. Ed a questo punto, si può comprende meglio quanto la denuncia unitaria della permanenza nel sud di elementi feudalmedievali fosse “mirata” ad acquisire consensi al nuovo ordine facendo leva anche sul peggioramento delle condizioni di vita di significative fasce di popolazione.

Non era stato Ferdinando 1 a ratificare (o, il che è lo stesso, a non revocare) la legislazione dei napoleonidi? Dunque la cosa gli era stata bene, come era stata bene a tutti i suoi successori. Per sostenere questo ragionamento bastava agli unitari glissare sul rispetto della “proprietà” che aveva vietato ai Borbone ogni intervento.

Quindi, chi aveva qualcosa da recriminare sapeva bene di chi fosse la responsabilità!

I Baroni avevano fatto i loro interessi: ormai erano proprietari e la proprietà era sacra. Se la situazione non andava bene, la responsabilità era di chi la aveva ritenuta soddisfacente. Insomma, il Medioevo era comunque retaggio dei passato regime.

Toccava, ora, al nuovo “sistema di libertà” eliminare gli ultimi testimoni (maggiorascato e fedecommesso) di un medioevo feudale t’sostanzialmente” conservato dal Borbone.

In conclusione, è fondata la speranza che questa digressione non priva di aridi tecnicismi possa essere perdonata, perché senza di essa non sarebbe avvertibile tutta la carica di pura strumentalizzazione nell’osare chiamare anelito di libertà una concezione della stessa libertà che non ha esitato ad “usare” impropriamente persino il pensiero limpido (intellettualmente e moralmente) di Gaetano Filangieri solo per legittimare una stravolgente qualificazione come “sintomi di feudalesimo” di istituti giuridici che nella “nuova situazione del 1860 (totalmente e, per molti di loro, consapevolmente estranea al pensiero di Filangieri perché determinatasi a più di vent’anni dalla morte del pensatore napoletano) significavano tutt’altro.

Aldo Servidio

“Imbroglio Nazionale”

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