Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

GIACINTO DE SIVO

Posted by on Lug 17, 2018

GIACINTO DE SIVO

Quale era il nostro paese
Esempio unico

Il Reame delle Sicilie, molto dalla stampa rivoluzionaria a’passati anni calunniato, non era secondo a nessuna nazione incivilita.

Ei basta dare uno sguardo nelle Guide pe’forestieri, per intendere il valore immenso di monumenti, di strade, di città, d’acquedotti, di ponti, di pietra e di ferro, d’arsenali, d’opificii, di quartieri, di ginnasii, di teatri, di popolazioni, di prodotti, d’agricoltura, di pastorizia, di porti, di commercio e di arti che abbelliscono queste contrade.

Poste le proporzioni di ampiezza e di numero e di condizioni, niun paese al mondo s’ha maggior somma totale di beni, e più a buon prezzo, e più opportuni, e meglio distribuiti.

In mentre le città qui son belle e decorose, e ricche e popolate, ogni pur minimo villaggio ha a sua strada per ruote, la parrocchia, il campo santo, il ponticciulo sul torrente, l’orologio, il posto delle grasce e della neve, il monte frumentario e de’ pegni, il maestro di scuola, il medico, la farmacia, un qualche convento, o un opificio, o una qualsivoglia opera speciale, onde tragga lavoro e sostentamento la gente minuta.

V’è in ogni parte operosità ed agiatezza. Qualche provincia come quelle di Napoli e Terra di Lavoro, non hanno una canna di terra che non sia messa a profitto. Ne’ sessant’anni di questo secolo il reame ha accresciuto la popolazione più d’un terzo; eppure ebbe guerre, tremuoti, uragani, eruzioni vulcaniche e colèra.

Il colèra appunto, ragguagliato al numero, qui per la buona igiène, fe’ meno vittime che altrove. Qui in proporzione v’han meno accattoni che a Parigi ed a Londra, e i poveri veri sono rari. Le statistiche dei delitti sono tenui. Il debito pubblico, fatto il più per rivoluzioni, scemava a ogni anno; e giunse a tanto che ascese al 120 per 100, con esempio unico nelle nazioni

Giustizia e operosità
Le nostre leggi, prodotto della sapienza de’ secoli, eran nel civile e nel penale sì buone, che fur sovente di ammirazione e di emenda allo straniero. Solenni e pubblici erano i riti de’ giudizii sicché poteva piuttosto restare il reo impunito, anzi che condannato l’innocente.

Erano le prigioni più ampie e nette, e ordinate a seconda lo scopo delle pene, cioè la custodia e la correzione del condannato, fra la religione ed il lavoro. Avevano la piena libertà civile senza distinzione di caste o di persone, tutti uguali innanzi alla legge; però talvolta fur visti i magistrati emanar sentenze fra’ sudditi e la stessa cosa del re, e dar torto a questa.

La proprietà era sacra; la sicurezza pubblica non fu mai tanto guarentita in questo montuoso reame quanto negli ultimi sei lustri; sicura e facile era la circolazione de’ valori, protetta la santità dei contratti; la successione de’ beni era regolata secondo i più moderni dettami del diritto, senza vincolo; in guisa che niuna parte di possessione poteva a lungo essere sottratta all’industria umana

L’amministrazione civile aveva, per la tutela de’ comuni, leggi d’eccezione, che slacciavanla dalle forme consuete; la quale a malgrado de’ pochi suoi difetti (e quale opera umana n’è senza?) pure in mezzo secolo ha prodotto a’ municipi incrementi e beni ignoti agli avi nostri.

La religione e la morale avean rispetto e tutela; il costume avea forza di buoni esempli; era tutelata la salute pubblica, sostenuta la istruzione elementare, moltiplicati i matrimonii, e più ancora le industrie, le colture e i capitoli circolanti.

Il commercio era florido, e forse destava gelosia e invidia; operosa era la marina mercantile: nuove cale, nuovi porti, nuovi fari, nuovi bacini da raddobbi, nuove fortificazioni di difesa sorgevano sulle nostre coste.

Le terre incolte eran messe a coltura, asciugate le paludose, divise le già feudali fra le popolazioni indigenti. Con le nuove strade rotabili e ferrate, co’ nuovi opificii, con gl’istituti d’arti e mestieri, con le scientifiche ed artistiche accademie, con le scuole tecniche ed agricole, con gli orti botanici e sperimentali, co’ monti di pegni e di frumento, con e casse di soccorsi, di prestanze, di risparmi e di assicurazioni; co’ ritiri, con gli ospedali, con gli asili infantili, con le case pe’ proietti, con i conventi e monasteri, non v’era stato, né età, né condizione dell’umana vita cui non si desse il braccio soccorritore.

Così la pubblica ricchezza era elevata a grado eminente. Così pel buon governo le imposte eran le più lievi in Europa e non pertanto bastavano a pagar ricche liste civili; a tener in piè una flotta ch’era prima in Italia; a sostentare centomila uomini, armati di tutte arme; a spendere ogni anno cinque milioni di ducati in fabbriche ed opere di universale utilità; a bonificare immense terre melmose intorno al Volturno; a rettificare e a incanalare il Sarno; a far strade ferrate; e a metter su quel magnifico edifizio di Pietrarsa, che per macchine di ferro e di bronzo ne avea fatti franchi dalla straniera importazione.

E nulladimeno la operosa parsimonia governativa avea sempre modo da tenere in serbo un tesoro per ogni evento. Erano in cassa trentatré milioni di ducati, quando il liberatore Garibaldi vi mise su le mani, e li fe’ disparire.

Quella parsimonia ne facea scemare i debiti, quando i governi liberali li decuplicavano.

Quella parsimonia fece che nel 1859, quando la carenza del grano, pe’ scarsi ricolti, e qui e altrove, aggravava la povera gente, avesse potuto Francesco II mandare a Odessa suoi navigli, a comprar biade a caro prezzo, e venderle ne’ mercati, e sin nelle più irte gole di monti a prezzi miti e sopportevoli da qualsivoglia indigente.

Per quella parsimonia re Ferdinando aveva potuto soccorrer Melfi e Potenza, colte da’ tremuoti, e fabbricar navigli da guerra, e dar grosse limosine e sorreggere qualche municipio con larghi prestiti a tempo, e far nuove muraglie a Messina e a Gaeta, ed elevare ospizii, e templi magnifici al Signore.

Questo era il governo di Napoli, cui un nobil lord d’Inghilterra, certamente tratto in errore per la malizia delle sette, disse con enfatico motto esser la negazione di Dio!

Ma la sopravvenuta rivoluzione gli dà le smentite; lo smentisce la presente distruzione di tante opere buone; lo smentiscono i pianti nostri, e le disperate armi che suonan vendetta su’ monti appennini.

E più si sono, ahi, troppo affrettati a smentirlo i rigeneratori Torinesi!

Dopo tante sperticate promesse di tutto dare, tutto ne han tolto; e solo han potuto creare la miseria ed il nulla.

segnalato da

Gianni Ciunfrini

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