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GRAFIA DELLA LINGUA NAPOLETANA

Posted by on Feb 25, 2016

GRAFIA DELLA LINGUA NAPOLETANA

l’Unesco ha stabilito che il napoletano è lingua madre, la definiscono la lingua senza verbo, è la lingua più veloce che esiste infatti se in inglese andare si scrive con due lettere go, in napoletano ne basta una i, i cantanti lirici di tutto il mondo, compresi coreani e giapponesi, non si sentono tali se non imparano a cantare la musica classica napoletana insomma anche in questa materia Napoli fa parlare di se e non poco. 

Qualche considerazione sulla grafia del napoletano

La nozione di lingua è largamente convenzionale, come si sa, e quella in uso è quella definita dall’UNESCO. Ora, in base a tale definizione, il “napoletano” non è un dialetto, ma una lingua. Tuttavia vi son degli altri “parametri” per la “definizione” della “lingua”, e su due vorrei qui soffermarmi per arrivare al punto. In primo luogo, occorre una grafia – per quanto convenzionale – che sia fissa, non importa se fonetica o ideo-fonetica; e, in secondo luogo, occorre una sorta di “Grande Dizionario” della lingua, come quello, storico, pubblicato dalla UTET ed iniziato da Battaglia e convenzionalmente noto come “il” Battaglia. Si tratta del “Grande Dizionario della lingua italiana”, che ha degli analoghi per altre lingue “nazionali”. Ora, fermo restando che son opere che durano decenni, un’amministrazione regionale che abbia a cuore la propria storia, dovrebbe iniziare un progetto analogo per il napoletano, vista l’insperata “promozione” a “lingua”.

Che c’entra tutto ciò con la “grafia” del napoletano? C’entra, eccome se c’entra. Si presuppone, infatti, una grafia se non uniforme, per lo meno stabile, che consenta, quindi, di poter leggere anche documenti antichi, e raccoglierli nel “Gran Dizionario” che, d’allora in poi, farà testo. E questo c’introduce direttamente al problema della grafia del napoletano.

Prima di procedere oltre, qualche notazione di fonetica. Come si sa bene, tanto la lingua napoletana ormai ha poco corso, quanto più se ne parla. Tanto ci s’inorgoglisce, quanto meno si sa: è un fenomeno ben noto. Per cui, è invalso l’uso di segnare con l’apostrofo lo “schwa”, che in Italia manco sanno che cosa sia quanto più lo usano.

Lo schwa, che ha una grafia dell’AFI (Alfabeto Fonetico Internazionale) ma che, convenzionalmente, si può scrivere “ë”, è il suono vocalico “indistinto”: non è né “a” né “è” né “è” né “o” (chiusa o aperta); non “u” né “ü” né “ö”. In effetti, è quel suono che rende le consonanti sorde delle consonanti sonore, è quel che trasforma la “t” in “d”. Nell’insegnamento delle consonanti alle scuole elementari, fan seguire anche le sorde dallo “schwa”: ma la differenza tra le sorde e le sonore sta precisamente nel fatto che le sonore implicano necessariamente uno schwa, le sorde invece si possono pronunciare col solo suono consonantico, cosa che loro non insegnano ai bambini, con grossi guai per il futuro.

In altre parole, “d” è sempre “dë”, ma t non è sempre “të”, è anche solo il suono “t”. E così per le spiranti, come la “s” dura, che puoi dire senza fargli seguire uno schwa, mentre la esse dolce necessita uno schwa.

Per fare un esempio dell’uso del tutto erroneo dell’apostrofo, sei stato, in napoletano è “si’ stato”, ma è in uso scrivere “si stat’”, che è un’assurdità non bell’e buona, ma brutt’e cattiva.  Come si dimostra che è un’assurdità? Si dimostra dal fatto che, quando metti un apostrofo, sottintendi la totale elisione della sillaba finale, e, se ci sta una vocale all’inizio della parola seguente, in pratica tu stai “azzeccando” la prima parola alla seconda, come nella grafia de “l’albero”: tu non dici “lë albero”, ma in effetti pronunci “lalbero”, non vi è alcun suono tra la “elle” e la “a” di “albero”. Le cose accadono diversamente in quelle “insulae linguistiche” particolari, dove non sanno pronunciare una vocale senza fargli precedere la “ë”.

Pertanto la vocale finale del napoletano si deve scrivere, che sia “a”, “e”, “i”, “o”, nonostante sia sempre pronunciata “ë”, salvo sia completamente “elisa” perché si “attacca” alla parola seguente. Ed “Elisa” non è un nome di donna, ma vuol dire che la vocale sparisce del tutto, e la prima parola si “azzecca” direttamente alla seconda: ed allora si deve usare l’apostrofo, che significa proprio questo. L’altro uso dell’apostrofo è per l’elisione non della sola vocale, ma dell’intera ultima sillaba, tipo vede’ per vedere. Di conseguenza, usare l’apostrofo per esprimere un suono che ancora si sente pronunciare, per quanto in modo indistinto, è assurdo.

Altro punto: la grafia del napoletano è molto lontana dalla pronuncia? Sì, esattamente così, ma come il francese, come l’inglese. Vi son lingue le cui grafie, sempre in parte convenzionali, bene o male sono un vestito su misura, con dei difetti e delle convenzioni, ma non troppo distante dal corpo, per esempio l’italiano, il tedesco o lo spagnolo (castigliano), ed altre lingue, come le già ricordate francese ed inglese, dove la pronuncia si è allontanata dalla grafia.

Spiegare perché vi siano questi allontanamenti sarebbe interessante, ma, purtroppo, ci condurrebbe davvero troppo lontano. Il napoletano, dunque, è un po’ come il francese: la grafia e la pronuncia si sa che son diversi, la qual cosa non implica che si stia lì a cambiare grafia.

Per il napoletano, poi, vi è l’aggravante che la sua grafia ricalca quella dell’italiano, e cioè quella d’una lingua che ha una fonetica differente.

Per fare un esempio, il napoletano implica l’allungamento della vocale sulla quale cade l’accento (e non solo quella, spesse volte), mentre alla lingua italiana repelle l’allungamento della vocale.

Chiaramente il napoletano è una lingua neolatina della famiglia italiana, ma foneticamente è alquanto differente dall’italiano. Insomma, è come un vestito di un’altra persona che è stato più o meno “adattato” ad un altro corpo e, di conseguenza, non andrà mai pienamente bene.

Il punto però è che, con questa grafia, ci è consentito leggere anche documenti e scritti piuttosto antichi, per cui è una fatica inutile riformarla, basti dire che la pronuncia è talvolta piuttosto lontana dalla grafia del termine, del lemma, e che occorrerebbe adattare l’alfabeto dell’AFI per gli usi di un “Gran Dizionario” della lingua napoletana. Basterebbe questo, in realtà.

Il che non significa che la grafia non sia mai cambiata, anzi, si è fatto uno sforzo, nel tempo, per adattarla alla pronuncia, pur rimanendo il “modello di riferimento” inevitabilmente l’italiano (vivendo in un certo contesto storico), e pur essendo la grafia dell’italiano non del tutto adatta a quella del napoletano, su cui si è già detto. Per esempio l’articolo determinativo, che un tempo era “lu” – era, per fare un esempio, “lu primmo ammore” -, poi divenne “lo” ed ancora ‘o, per elisione – di nuovo – della “elle” iniziale, che non è proprio più pronunciata, come si vede anche in questo caso. Si deve dunque scrivere: ‘o primm’ammore, oppure ‘o primmo ammore, ma non certo ‘o primm’ ammor’, come tante volte si vede scrivere.

Che l’articolo fosse “lo”, e non ‘o, lo si può vedere dal testo di G. Fasano Lo Tasso napolitano zoè la Gierosalemme libberata votata a llengua nostra, a cura di Vito Pinto, Area Blu Edizioni 2013, copia anastatica, prima edizione Napoli 1689.

Alla fine del Seicento, quindi, era ancora “lo”, la “elle” si scriveva ma non è detto si pronunciasse: è molto probabile che la grafia si sia adattata al cambiamento già presente nella lingua parlata, che non il contrario.

Vi sarebbe molto altro da dire, ma tutto questo di nuovo attesta quante chiacchiere “a vacante” si facciano dalle nostre parti, quanto si sia pronti a mettersi qualche coccarda, ma poi manchi anche un minimo di conoscenza: quanti fanno l’errore dell’uso sbagliato dell’apostrofo? Si tratta di una cosa davvero comunissima.

ANDREA IANNIELLO

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