Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

I Proverbi dell’antica Terra di Lavoro (III)

Posted by on Apr 17, 2018

I Proverbi dell’antica Terra di Lavoro (III)

La religione nei detti popolari

Liturgia
Il momento liturgico per eccellenza è la celebrazione della Mes­sa e ad essa si riferiscono i seguenti detti:
“Senza sórdi n’ se cantano mésse” (Senza soldi non si cantano messe) e l’altro che dice: “’Na vota ‘u cane jette a messa – e ‘u caccèreno pure fore” (Una volta [sola] il cane andò a messa – e lo cacciarono anche fuori). Il primo di sapore polemico contro il clero avido di danaro, il secondo per indicare quella persona che dopo molti sforzi sta per incamminarsi sulla retta via, ma viene ricacciato indietro.

In questo secondo caso la messa è presa ad esempio di cosa po­sitiva, mentre nel primo è di segno negativo.
La Messa si celebra ogni domenica (oltre alle feste comandate): la domenica il giorno del Signore, è giorno di festa, giorno quindi di riposo e perciò non si lavora; nei secoli passati le auto­rità ecclesiastiche erano molto severe nei confronti di coloro che la domenica osavano lavorare, non rispettando cosi il precetto della Chiesa.
Perciò si diceva: “Chi fatica ‘o juorno ‘e festa – nun se càusa e nun se veste” (Chi fatica il giorno di festa – non si calza e non si veste). Bisogna dunque santificare la domenica, perché il guada­gno che si fa lavorando di domenica, non arricchisce, così da permettere di comprare scarpe e vestiti. Da notare la rima festa- veste e la trasformazione della elle in u prima di consonante: calzare>causare, come alto>àuto, ecc.
La Chiesa è sempre presente nei momenti fondamentali della vita del fedele: in quello della nascita col Battesimo, nel matri­monio, alla fine della vita con il rito delle esequie; e questi sa­cramenti e riti sono presenti nei seguenti detti:
“Chi me vattéja m’è cumpare” (Chi mi battezza m’è compare): s’intende “Chi mi battezza il bambino o bambina”; il suo signifi­cato è di carattere utilitaristico: Chi mi tratta meglio, chi mi fa un prezzo più conveniente, da quello io vado a spendere.
Sullo stesso tema abbiamo registrato quest’altro detto: “È morta ‘a criatura: nun simmo cchiù cumpari!” (È morta la creatura [il neonato]; non siamo più compari), quando si inter­rompono certi rapporti, con riferimento al comparaggio che si contrae in occasione di battesimo; ma se il neonato muore, il comparaggio non si verifica.
Ancora sul Battesimo abbiamo raccolto quest’altro ‘Battesimo ‘e puparuoli!” (Battesimo di peperoni) per indicare un “Battesimo da niente”. Certe famiglie, dopo il rito del Batte­simo in chiesa, si ritiravano in casa a festeggiare l’evento con pochi intimi, chiudendo porte e portone; sicché i ragazzi del rione, sempre affamati, rimanevano a bocca asciutta e, per vendicarsi, gridavano: “Battesimo ‘e puparuoli!”, dove i peperoni stanno ad indicare cibo di poco conto o almeno di ogni giorno, in confronto a carne e maccheroni e dolci.
Tra i sacramenti, la Cresima, a motivo del “buffetto che il ve­scovo dà alla guancia del nuovo cristiano” (Beccaria, pag. 84) ha dato luogo al verbo “cresemà” usato nel senso di colpire, battere.
A proposito di esequie, poi, si dice: “’Ncopp’o muorto se canta l’esequie” (Sul morto si canta l’esequie) a significare una cosa fatta in modo appropriato, adatto, ad hoc.
Tra le preghiere (ce ne sono molte, piene di devozione) ne vogliamo qui ricordare una di tono un po’ caricaturale, in cui si accenna alle due più importanti della religione cattolica: l’Ave Maria e il Pater noster: “Au Maria, ramme ‘u pane, ché mo’ m’abbìo – Padre nostro, ramme ‘u pane, ché mo’ m’accosto” (Ave Maria, dammi il pane che adesso mi avvio – Padre nostro, dammi il pane ché adesso mi accosto) dove il motivo prevalente è quello della richiesta di pane (il problema di sempre della povera gente delle campagne), suggerita anche dalla seconda pre­ghiera (Dacci oggi il nostro pane quotidiano); da notare le assonanze Maria-abbìo e nostro-accosto.
La preghiera della “Salve Regina” serviva ad indicare una per­sona magra. Mons. Salvatore Palumbo ricordava il detto popolare: “È tutt’ossa comme a ‘na Salve Regina” e lo spiegava dicendo che “le varie desinenze in -os nell’ultima parte della celebre preghiera (illas tuas misericordes oculos) hanno colpito il popolino, come il latinorum colpiva la fantasia del povero Renzo” (La parlata dell’agro caleno-sidicino, Boccia, Capua, 1997, pag. 85). (Cfr anche Beccaria, pag. 78).
Il sentimento religioso si manifesta nel popolo soprattutto in atti e segni esteriori: il segno per eccellenza del cristiano è quello della Croce; e a proposito di Croce, bisogna ricordare l’espressione “farse ‘a Croce a mmano a cemmèrza” (farsi la Croce con la mano sinistra); cemmerza dal verbo smerzare (dal lat. Ex-versare: inversa, quindi sinistra rispetto alla solita de­stra). Altre espressioni riguardanti la Croce: mettere ‘n croce a uno, purtà ‘a Croce!
La Croce ricorre ancora per indicare una durata breve di tempo: “’Na fatta ‘e Croce”, cioè un attimo, quanto serve per fare il se­gno di Croce.
La Chiesa divide l’anno in modo diverso dallo Stato civile: esso comincia con l’Avvento; segue il Natale, cui è legata la tradizione del Presepe; c’è poi il periodo della Quaresima cui segue la Pasqua: queste le tappe principali dell’anno liturgico; e a que­sti periodi sono collegati alcuni detti.
I pastori del presepe, fatti di creta, nella loro rigidità hanno sug­gerito il detto: “Fa addenucchià i pasturi!” (Fa inginocchiare i pastori!) riferito a chi, petulante, noioso e scocciante, è capace di far piegare e abbassare anche un pastore di creta.
Circa la Quaresima, abbiamo ascoltato una strofetta (non ci sembra un vero detto) che dice: Quaresema quarantana: sei rumméneche e sette settimane (Quaresima quarantana: sei domeniche e sette settimane): la Quaresima infatti dura 40 giorni a partire dal mercoledì delle Ceneri fino al Sabato santo, (cioè giorni, a cui bisogna sottrarre le 6 domeniche), questo periodo copre 7 settimane.
E ancora quest’altra: Coraésema secca secca, s’ha mangiato ‘e pacche secche; aggio (r)itto: ramménne una, m’ha chiavato ‘nu càucio ‘n culo; aggio (r)itto: ramménne ‘n’ata, m’ha chiavato ‘na cucciarata” (Quaresima secca secca s’è mangiate le pacche secche; ho detto: dàmmene una, mi ha dato un calcio in culo; ho detto: dàmmene un’altra, mi ha dato una cucchiaiata).
Da noi permane ancora l’uso di appendere in alcune strade del paese all’inizio del periodo di quaresima una pupattola … Leggiamo dal Sicuterat del Beccaria: “Quaresima è il nome che al Sud si dà ad una persona magrissima. Il che va collegato all’uso, un tempo di tutto il Mezzogiorno, di sospendere a un filo teso in ogni vicolo un fantoccio scheletrico dall’ampia veste a campana.
In certi luoghi gli si metteva in bocca una cipolla per significare l’astinenza, e in mano una conocchia, per significare il lavoro. Sotto la veste, al centro del cerchio, c’era un’arancia o una pa­tata, ove stavano conficcate sette penne di gallina, le sette setti­mane di penitenza che precedevano la Pasqua. Ogni sabato a mezzogiorno veniva strappata una penna, poi quando al sabato santo le campane iniziavano a suonare il Gloria, si toglieva l’ultima penna di questo magro fantoccio, che poi era dato alle fiamme.” (pag. 78).
Nel periodo quaresimale cade l’antica devozione della Via Crucis, diffusa dai Francescani, che soli hanno il privilegio di istituirla; essa consta di 14 stazioni, dipinte in 14 quadri. Dalle no­stre parti le “stazioni” significavano le diverse osterie frequen­tate dai nostri nonni buoni bevitori i quali passavano da un’osteria all’altra, facendo varie “tappe” imitando in modo “sacrilego” quelle della passione di Cristo fino al Calvario.
Al periodo pasquale si riferisce il detto: “’a pastita che nun se fa ‘o sàpeto santo, nun se mangia ‘a rumméneca ‘e Pasqua” (La pastiera che non si fa il Sabato santo, non si mangia la Domenica di Pasqua) a voler significare che se una cosa non si fa subito, non si fa più. Qui il contesto del detto è ancora quello alimentare, con riferimento a un particolare dolce, quale appunto la pastiera, confezionata in diversi modi.
Momenti significativi nella vita dei cristiani erano le processioni (oggi queste hanno smarrito la loro vera essenza): esse suggerirono il seguente detto: “’a cera se struje e ‘a prucessione nun cammina” (la cera si strugge, si consuma e la processione non procede); il Beccaria cita questo detto a pag. 109, riferito al Molise, con la seguente spiegazione: “per dire di progetti che, nonostante le chiacchiere e le buone intenzioni, stentano ad avviarsi”; generalmente nelle processioni erano presenti i soci, con o senza cappuccio in testa, delle Confraternite, che portavano in mano i ceri accesi; quasi a spiegazione di questo detto, si dice in tono esortativo: “Parlamme e cammenammo” (Parliamo pure, ma camminiamo).
Ancora con riferimento a processioni, c’è quest’altro detto: “O se canta – o se porta ‘a Croce” (O si canta – o si porta la Croce), dove il cantare, espressione di letizia, si contrappone al portare la Croce, segno di dolore, il che vuol dire che non si devono fare assieme due cose diverse.
Le prediche, le spiegazioni domenicali del Vangelo, i riti della settimana santa hanno inciso sul linguaggio del popolo, il quale ha coniato le seguenti espressioni: “Sta ‘e pieri ‘e Pilato!” (Sta ai piedi di Pilato), cioè in una situazione tragica, come Gesù in potere di Pilato. E ancora il popolo usa l’espressione latina pronunciata proprio da Pilato: “Ecce homo!”: “Pare ‘n’ecceòmo” detto di una persona afflitta moralmente o anche fisicamente.
La famosa parabola evangelica del “ricco epulone” e di Lazzaro ha suggerito al popolo l’espressione “Pare ‘u ricco pelone” pronunciata forse con un tantino di invidia nei confronti di chi, sperperando, si atteggia a ricco. E a proposito di prediche, va ricordato il detto: “Viri ra che pùrpeto vene ‘a prèreca!” (Vedi da che pulpito viene la predica!) di una persona poco affidabile e credibile.

[continua…]

Antonio Martone
(da Il Sidicino – Anno XII 2015 – n. 10 Ottobre)

 

 

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