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Il 4 luglio prossimo 210° anniversario della nascita di Giuseppe Garibaldi

Posted by on Giu 21, 2017

Il 4 luglio prossimo 210° anniversario della nascita  di Giuseppe Garibaldi

Il saluto di Vittorio Emanuele II a Garibaldi ( “Salute al mio migliore amico”) è un falso storico, come il luogo dell’incontro tra i due, avvenuto a Vairano Patenòra, con il quale venne sanzionata, di fatto, l’unione tra il Nord e il Sud. Il cosiddetto “Re Galantuomo” non provava affatto per Garibaldi quel tipo di sentimento. I suoi ministri e i suoi consiglieri, da Cavour a Farini, a Fanti, andavano dicendo, da mesi, che bisognava finirla con quell’avventuriero, con quell’arruffapopoli, che, quando andò in Parlamento, non si rassegnò alla logica della diplomazia cavouriana, che aveva ceduto Nizza alla Francia. Nella seduta della Camera, del 6 aprile 1860, pronunciò un discorso fortemente antigovernativo. Denuncia la pressione sotto la quale si trova schiacciato il popolo di Nizza: la presenza di numerosi agenti di polizia, le lusinghe, le minacce senza risparmio esercitate su quelle povere popolazioni, la compressione che il Governo impiega per coadiuvare l’unione alla Francia, ceduta, assieme alla Savoia, come contropartita del sostegno dato da Napoleone III alla causa nazionale.

Quello appena citato non è un caso isolato, ma se ne registrano in gran quantità, perché il Generale ha un’avversione a piegarsi alla dura logica delle politica. I rapporti con Cavour sono complessi, perché egli non può accettare i suoi metodi spregiudicati, i suoi comportamenti, tutti improntati ad una spietata logica politica, che, in apparenza, nulla concedono ai sentimenti. Esisteva un abisso fra le idee e i metodi dei due. Questa ruggine tra il primo ministro e conte Camillo Benso di Cavour ed il Generale procurò un’inesauribile fonte di pettegolezzi, abilmente sfruttati anche dai fogli satirici, che non sottacerono certe umane debolezze del Padre della Patria, un rubacuori, uno sciupafemmine, collezionista di donne, belle e brutte, alte e basse, magre e in carne, more e bionde.

Tra la fine dell’Ottocento e i primi dieci anni del Novecento il mito di Garibaldi vive, oltre che nella poesia di Carducci, di Pascoli, di D’Annunzio, nella pittura di Plinio Nomellini, grazie ad un’abile manipolazione dei mass-media di allora.

Ci chiediamo perché i deboli, squinternati, poveri ed isolati legionari di Garibaldi vincessero sui numerosi, armatissimi, ben vestiti e riforniti e, soprattutto, “convinti” soldati di Francesco II. Ciò avveniva per i vergognosi, inspiegabili arretramenti dinanzi agli straccioni di Garibaldi, muniti delle vecchie colubrine settecentesche prese a Talamone, che costituivano quasi tutto il parco d’artiglieria del nizzardo; per l’indefinibile atassìa degli Stati Maggiori; per la sovrana stupidità dei grandi capi, a cominciare dal conte Ferdinando Lanza, di grande famiglia siciliana, “alter ego” del sovrano; per la corruzione di qualche generale borbonico, come il generale Annibale Landi, di venerabile età, che a Calatafimi “ non volle” vincere, pur disponendo di un Corpo di 25.000 uomini, bene armati, bene equipaggiati e ben forniti di pezzi di artiglieria, e Garibaldi “doveva” vincere. Il Landi, il 28 marzo 1861, si recò la Banco di Napoli per riscuotere una polizza di quattordicimila ducati, firmata di pugno da Garibaldi ma il cassiere fece notare che si trattava di 14 ducati e non di 14.000. Qualcuno aveva aggiunto, però con inchiostro di diversa sfumatura, tre zero alla cifra originaria. Al generale venne un colpo apoplettico stramazzando al suolo e rendendo l’anima a Dio, non senza lamentarsi di “Quel ladro di Garibaldi”. I 14 ducati erano il salario di Giuda?

Ci pensavano poi polposi bollettini dei garibaldini ad esaltare il genio militare e la forza sovrannaturale di Garibaldi e menzogne spudorate a decantare le vittorie di Giuseppe Maria Garibaldi, che distrusse un regno, uno Stato, subordinandolo al Piemonte, al quale i critici militari ufficiali non risparmiarono critiche anche feroci, a cominciare da Carlo Pisacane, che già nel 1850, nel suo volume “Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-1849”, affermò, senza mezzi termini, che Garibaldi non possedeva nessuna delle “qualità che fanno il generale”. Gelosia professionale? Motivi politici? Molti generali dell’esercito piemontese, d’altronde, vedevano il “filibustiere rosso” con irriducibile contrarietà, fin dal suo primo apparire sui campi di battaglia in Italia, sprezzandone i servigi che egli offriva, e bollato dai civili come capo di soldati “di sacco e corda”, come i Lanzichenecchi, e dal critico e poeta russo Nikolàj Dobroljùbov, che lo chiamò “tizzone d’inferno, amico dell’inferno, figlio di Belzebù”. Inoltre il Garibaldi era inviso alle polizie e al potere costituito.

Non è inopportuno rammentare un episodio minore, e non “trionfalistico”, delle vicende garibaldine: la precipitosa fuga di Napoleone a Velletri, quando, il 19 maggio del 1849, Garibaldi tenta personalmente una puntata offensiva sotto Velletri, ma si imbatte nel 2° Cacciatori a cavallo, uno dei più brillanti reggimenti della Cavalleria Napoletana, di cui faceva parte il maggiore Filippo Colonna, figlio del principe di Stigliano, che non si lascia sfuggire l’occasione e, alla testa dei suoi Cacciatori, carica furiosamente, “a contatto di sciabola”, l’imprudente Garibaldi, che, sbalzato di sella, si salva a stento, a piedi, protetto dai fitti filari dei vigneti del buon vino di Velletri e dal generoso sacrificio di un suo lanciere, colpito in pieno viso da un terribile fendente.

Negli ultimi tempi il mito di Garibaldi ha subìto, da parte di storici e di letterati, un ridimensionamento, essendo emersi aspetti non eccelsi, eventualmente contraddittorii o ingenui, se non addirittura caricaturali, dell’uomo, soggetto di una precedente apologia o idolatrìa, costruita da massoni e liberali inglesi, che gli avevano consegnato tre milioni di franchi francesi in piastre d’oro turche per l’impresa dei Mille nelle Due Sicilie.

La sua è una parabola discendente, dovuta alla letteratura filoborbonica, ai Padri della “Civiltà Cattolica, esecranti l’alto grado massonico di Garibaldi, agli “arriccianaso” del Parlamento, i quali hanno fatto, di questo personaggio della storia risorgimentale, fascinoso trascinatore di folle, sfrondando gli allori posticci e le glorie usurpate, un demagogo da strapazzo, un rozzo che agisce sotto gli impulsi dell’irrazionalità, incapace di interpretare accadimenti più grandi di lui, al servizio di chiunque lo pagasse. Essi sono restauratori della verità troppo a lungo offesa e sofisticata dallo spirito del “patriottismo” e dalla retorica che volle l’”Eroe dei due mondi” quale alta controfigura del Redentore, un cavaliere senza macchia e senza paura, non disposto ai compromessi, lui che vuotava le carceri, liberando tutti i condannati alla galera e all’ergastolo per delitti comuni, per mettervi uffiziali, magistrati, aristocratici, vescovi e preti, lui che si era presentato al Banco di Napoli e si era fatta aprire la cassaforte appropriandosi della dote di Maria Cristina di Savoia, madre di Francesco II, 4 milioni di ducati mai restituiti, lui che non pagava le tasse. Il dittatore di Napoli, con decreto del 12 settembre 1860, avocava i beni dei Borbone. Ci andava giù con mano pesantissima, rapacissima, Garibaldi. Non contento, egli espropriò la villa Caposele di Formia, che Ferdinando II aveva acquistato, con il proprio peculio, nel 1852, per farne una residenza estiva e che lasciò in testamento al figlio Lasa, che vi firmò poi la resa di Gaeta, quindi la fine del Regno delle Due Sicilie. Non pago di avere incamerato le sostanze dello Stato più ricco dell’Italia d’allora, il Padre della Patria si impadronì anche dei cucchiaini da caffè. Così si faceva l’Italia una ed indivisibile.

Il Risorgimento fu un disastro per molti nobili spiriti, a cominciare da Dostoevskij, che così si espresse sull’unità d’Italia, nella rivista “Il Cittadino”: “Per duemila anni l’Italia ha portato in sè un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita, (ma è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? E’ sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, … un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!”.

L’autore de “I fratelli Karamazov”, fautore di un Cristianesimo evangelico, libero e generoso, contro il nihilismo distruttore, ebbe, quindi, una ripulsa per l’Italia unita, artificiosamente imposta, e per il cieco colonialismo sabaudo. Non sappiamo quando prese forma il suo beffardo giudizio, se nel 1862, durante il primo soggiorno italiano, o nel 1868, durante il secondo. Lo stesso Giuseppe Garibaldi, in una lettera del 1868 all’amica Adelaide, riconobbe che la sua impresa, nel Meridione d’Italia, aveva “cagionato solo squallore e suscitato solo odio”. E pensare che il giudizio è stato espresso da uno dei massimi artefici del Risorgimento!

La colonizzazione delle genti e dei territori meridionali non si trova scritta in molti libri. Nessuno ha avuto interesse a ricostruire la storia nei dettagli, passo dopo passo, mettendo a fuoco la “zona grigia” della storia del Sud di quel periodo, anzi innalzando una “cortina di silenzio”. In queste omissioni sono incorsi, per servilismo, per opportunismo, per partigianeria, anche storici di chiara fama, che hanno piegato la schiena e lustrato gli stivali dei vincitori, propinandoci ossessivamente strumentali falsificazioni.

In molti casi la storia non ci tramanda la verità “vera”, per la martellante disinformazione che gli intellettuali giacobini, da una parte, e risorgimentali, dall’altra, salariati di regime, per non parlare della massoneria, che aveva introdotto nell’ex regno di Napoli un processo di scristianizzazione, rivolsero contro il Regno delle Due Sicilie, spregiando la religione e minando, con le loro corrosive e dissolvitrici idee, i costumi aviti e i valori naturali e cristiani. Spesso le fonti sono inquinate da mistificazioni, da pregiudizi, da imprecisioni e da un pizzico di superficialità. Ed è esattamente quanto successo nel caso della “Legge Pica”; legge famigerata che mietè molte vittime. Essa fu una cruenta guerra civile, quella tra i cosiddetti “briganti” e l’esercito piemontese, che logorò sia la gente del Sud, sia le truppe impiegate per la repressione, in cui militavano farabutti e fottutissimi ladri, che hanno inzaccherato il blasone del Risorgimento, in maniera tale che non c’è candeggina che possa porvi rimedio, e che meritavano il deferimento al tribunale di Norimberga, come criminali di guerra, avendone fatte di cotte e di crude.

 

Alfredo Saccoccio

 

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