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Il fascino di Garibaldi sul Clero italiano

Posted by on Lug 22, 2019

Il fascino di Garibaldi sul Clero italiano

Personaggio considerato da molta storiografia tradizionale come emblema di ciò che il Risorgimento aveva di anticattolico e persino antireligioso, Garibaldi andrebbe – in verità – riportato ai contesti e alle diverse fasi del suo operare.

Il suo mito, non di meno, inizia a diffondersi fin dagli anni sudamericani all’interno di un discorso “unico” del Risorgimento italiano, né anticattolico né anticlericale (Banti 2000, 120, 139). Infatti, fin da prima del suo rientro in Italia, nel 1848, la figura del capo della Legione italiana a Montevideo non è molto caratterizzata in termini ideologici, ma rappresenta un po’ per tutti l’uomo del riscatto dell’onore italiano. Lo stesso Garibaldi si descrive in questi termini nelle prime biografie affidate a Cuneo, Dumas, Carrano e i cui episodi salienti vennero talvolta ripresi da vari periodici italiani (Mengozzi 2012a). La figura dominante è quella di un soldato volontario, che si batte per la libertà e che riscatta la cattiva opinione diffusa in Europa, secondo la quale la perdita della libertà ha significato per gli italiani la perdita della virilità. Gli italiani “non si battono”, secondo la famosa definizione, che allude anche a una presunta rilassatezza morale (Belardelli 1999, 66-67; Mengozzi 2011, 89-97). In questo contesto, la critica della “decadenza” italiana coinvolgeva la società non meno della famiglia. Sicché il mito di Garibaldi, fondato sulle sue imprese militari e sulla sua figura morale di uomo integerrimo, veniva a incontrare il discorso nazionale italiano, addensando sulla sua figura molte e diverse aspettative: dall’eroe al campione del riscatto militare, dall’uomo d’onore al combattente per la libertà.

Ora, un primo elemento da sottolineare nella prospettiva di questo saggio è che i maggiori tratti di tale costruzione retorica rispondono a “figure” diffuse dal clero patriottico. Mediante prediche, sermoni, quaresimali, abili predicatori trasformatisi in formidabili oratori politici, come i barnabiti Ugo Bassi e Alessandro Gavazzi, avevano percorso l’Italia del centro-nord denunciando la decadenza morale e additando il dovere di una rinascita civile e religiosa della patria nazione. Enrico Francia ha bene ricostruito questo evento e non è il caso di soffermarvisi di più (2007, 440). Per altro una nota pubblicazione come il Panteon dei martiri della libertà italiana, uscita nel 1851, riassumeva quella fase di formazione della coscienza nazionale scrivendo che “la parola era per divenire una suprema potenza in Italia – il verbo dovea esser Dio” (1851, 560). Va da sé che i predicatori patrioti, in questa fase, sono avvantaggiati: il loro abito li protegge e possono spesso eludere la sorveglianza poliziesca portandosi sul pulpito di Stati diversi, per quanto – in certi casi – mal tollerati dal clero conservatore.

In ogni caso, il clero patriottico mobilitato nel 1848 non abbandona il campo neppure dopo la nota allocuzione di Pio IX, con la quale il papa si dissociava dalla guerra all’Austria (Gariglio 2011). Anzi, nei casi più noti, come Gavazzi e Bassi, i predicatori della patria non recedono neppure di fronte alla fuga del papa da Roma e alla radicalizzazione della lotta politica. Se mai la sconfitta dell’ipotesi neoguelfa li porta a dissociare la religione patriottica dalle gerarchie e naturalmente dal papa, per un ritorno alla primitiva figura di Cristo martire e liberatore degli oppressi. Da questa svolta, la storia del “clero affascinato da Garibaldi” diventa essenzialmente una storia di singole personalità. Per rivedere un’adesione di tipo quarantottesco e una comparabile creatività di forme e modi della religione patriottica e dei suoi predicatori, in abito talare o col saio, al movimento nazionale, occorrerà attendere un altro evento capitale della storia del Risorgimento come l’impresa dei Mille. Allora potremmo azzardare l’ipotesi di una Chiesa meridionale largamente simpatizzante e in parte militante con i garibaldini. Ma poi di nuovo i destini si separano, e la costruzione dell’Italia unita, dal lato del clero “garibaldino”, tornerà a essere una storia di singole personalità.

1.

Garibaldi rappresenta sulla scena italiana del 1848 una varietà di suggestioni. Campione dai tratti esotici dei volontari che non si arrendono, secondo il democratico e federalista Carlo Cattaneo; figura cristologica e benedicente, secondo una celebra stampa in circolazione nel 1850; patriota combattente al servizio del re Carlo Alberto e del papa Pio IX. Dal canto suo, come si è dichiarato a disposizione del re Carlo Alberto, benché repubblicano, così ha fatto per la causa neoguelfa. Già a Montevideo ha messo le sue armi a disposizione di Pio IX attraverso una lettera spedita al nunzio apostolico Bedini in Rio de Janeiro nel 1847. La lettera sarà ripresa e pubblicata nelle prime biografie di Garibaldi, come quella di Cuneo apparsa a Torino nel 1850, ma anche in Dumas e altri scrittori garibaldini (Dumas 1860, 99-100). Bedini rispondeva elogiando l’offerta.

Nella lettera, Garibaldi lodava le riforme iniziate da Pio IX esaltando anche la religione cattolica e il ruolo del papa: “tutto infine ci ha convinti che sia finalmente uscito dal seno della nostra patria l’uomo il quale, comprendendo i bisogni del suo secolo, ha saputo, secondo i dettami della nostra augusta religione, sempre nuovi, sempre immortali, e senza derogare alla loro autorità, piegarsi all’esigenza dei tempi” (in Dumas 1860, 99). Seguiva l’offerta del suo braccio armato, dopo una sapiente evocazione di possibili pericoli, minacce e tentativi di rovesciare “l’ordine delle cose”. Perciò, scriveva Garibaldi insieme all’esule e amico Francesco Anzani, “se oggi delle braccia che hanno qualche pratica delle armi sono bene accette da Sua Santità, è inutile dire che con il maggior piacere del mondo le consacreremmo al servizio di colui che tanto fa per la patria e per la Chiesa” (Ivi, 100).

Ora, fra queste prime posizioni garibaldine e le prediche patriottiche di Bassi e Gavazzi c’è un terreno comune: gli entusiasmi per il “papa liberale” e la chiamata alla guerra d’indipendenza. Garibaldi rappresenta in questo contesto l’eroe morale, che ristabilisce l’onore nazionale e della famiglia, contro le insidie degli occupanti violenti. Si tratta di un tema ampiamente presente in una vasta letteratura patriottica e nel filone del cattolicesimo liberale, da Alessandro Manzoni alle prediche patriottiche. Alla religione cattolica è riservato il compito di costituire il vincolo fondamentale di quella nuova patria grande famiglia italiana, che gli eventi del 1848 promettono ormai prossima.

Gavazzi agisce soprattutto a Roma, dove solleva l’entusiasmo dei giovani, con i quali è in contatto come professore e soprattutto come predicatore. Il disegno qui riprodotto mostra con efficacia tutta la sua maestria di oratore (foto 1), nel catturare l’attenzione del pubblico (un pubblico inglese, in questo caso). Gavazzi guida la leva dei volontari romani nella prima guerra d’indipendenza, fino a Venezia. Con la Repubblica romana sia lui che Ugo Bassi si affiancarono a Garibaldi. Gavazzi è cappellano del Battaglione italiano della morte. Più fortunato di Bassi, riesce a sfuggire alla caccia dei nemici riparando in Inghilterra, dove aderirà al movimento evangelico. La dissociazione di Pio IX dalla guerra patriottica porterà Gavazzi su posizioni antigerarchiche e antipapali. Nel 1860 era di nuovo con Garibaldi, in qualità di cappellano militare fra i Mille e ancora riprendeva le armi fra i garibaldini nella guerra del 1866. Ugo Bassi, invece, curava la ritirata di Garibaldi da Roma verso Nord nell’estate del 1849. A lui Garibaldi affidava la delicata missione di convincere i reggenti sammarinesi ad accogliere i garibaldini ormai allo stremo sul territorio della Repubblica. Bassi era poco dopo catturato dagli austriaci nelle paludi ravennati, durante la sortita per raggiungere Venezia, condotto a Bologna e fucilato. Ma i religiosi non sono solo compagni d’armi, bensì occupano anche posizioni di rilievo nella struttura del movimento garibaldino. Mi riferisco al caso del brianzolo Giuseppe Sirtori. Sacerdote nel 1838, maturava la rinuncia ai voti quando era studente a Parigi allorché faceva esperienza delle giornate rivoluzionarie del febbraio 1848. Rientrato in Italia, partiva come volontario alla difesa della Repubblica di Venezia. Era poi promosso capo di stato maggiore da Garibaldi in occasione dell’impresa dei Mille. Avrà una lunga carriera militare nell’esercito italiano; uno dei non molti ufficiali garibaldini incorporato nell’esercito regolare.

Bassi, Gavazzi, lo stesso Sirtori, per non fare che alcuni esempi, rappresentano senz’altro casi di giovani cattolici, che maturano autonomamente un impegno nel movimento patriottico, ma che finiscono con l’individuare in Garibaldi la principale figura di riferimento, alla quale restano fedeli nonostante il variare degli orientamenti della gerarchia ecclesiastica. Certamente ne subiscono la leadership carismatica, anche in ragione di riferimenti religiosi da non sottovalutare (Mengozzi 2008, 2012; Gentile 2001). È ormai appurato da una recente storiografia dedicata alle religioni politiche, che linguaggi, retoriche, prestiti, calchi, perfino oggetti sacri come le reliquie sono stati impiegati dal discorso nazionale in formazione (Grevy e Burkardt 2015). E che molti contenuti dell’universo religioso tradizionale sono stati risemantizzati in senso laico dai patrioti. Tutto ciò ci porta a dire che uno dei principali fattori dell’ascendente esercitato da Garibaldi sul clero è, appunto, un fascino di tipo religioso. Non per nulla la sua figura è stata spesso avvicinata con appellativi cristologici. Il caso ha voluto, poi, che il suo viso, se incorniciato – come vuole il personaggio -, con lunghi capelli, barba e baffi rossicci, acquistasse una singolare vicinanza con il Cristo della tradizione iconografica più diffusa.

Ma il richiamo a Cristo, come ha ben mostrato Alberto Mario Banti, è iscritto al centro del discorso nazionale italiano. L’eroe che accetta il martirio per riscattare la libertà fa parte di quel “canone” patriottico che nutre l’immaginario risorgimentale. Banti parla di un linguaggio politico, che per acquisire larga cittadinanza si avvale delle “risonanze profonde” lasciate nella tradizione dalla religione cattolica (morte, salvezza, tradimento, fedeltà, verginità e purezza). Tale uso profano della sacralità non è al momento avvertito come concorrenziale o sostitutivo della fede cattolica. Forse i soli gesuiti ne intuiranno per tempo i pericoli, ma non subito (Menozzi 2007, 454).

Prendiamo un’opera di largo successo come quella di Atto Vannucci dedicata ai “martiri della libertà italiana”. Più volte ristampata e ampliata, a partire dalla prima edizione fiorentina del 1848, l’opera estendeva il concetto di sacralità e di martirio ai caduti per patria, evitando cesure con la religione cattolica. Introduceva, tuttavia, nuovi criteri politici di giudizio, fra salvati e dannati. Demonizzava, per esempio, la violenta repressione del cardinal Ruffo contro i democratici del 1799 ed esaltava per contrasto le vittime della reazione, quali martiri della vera religione di Cristo: ossia i martiri di Piperno, di Altamura e di Venafro (Vannucci 1877-1880, 37-42).

Con un indirizzo molto simile all’opera di Vannucci, ma più ampia nell’impianto, usciva a Torino nel 1851 il Panteon dei martiri della libertà italiana. Ancora biografie, ossia martiri individualizzati, ma questa volta al nome era associata una stampa raffigurante il volto. La sacralità era trasferita su queste figure descritte come santi moderni, vittime del dispotismo. In entrambi i campi, secondo gli autori del Panteon, operano per il bene e per il male anche religiosi, gli uni fanatizzando le popolazioni arretrate e analfabete contro i patrioti, gli altri caduti in nome della fede nella libertà. I nuovi eroi, però, sanno distinguere. Nella biografia dei fratelli Bandiera, per esempio, è detto che i due prigionieri seppero rifiutare il prete mandato dai carcerieri, ma non il conforto prestato loro dal prete liberale Beniamino De Rose, che con “vera carità cristiana” li consolò fino all’ultimo (Panteon 1851, 190). Il sacrificio di Ugo Bassi, invece, confermava per il Panteon la separazione fra la nuova religione patriottica e il papa “traditore”. Ugo Bassi, vittima della reazione austriaca:

“sofferse il martirio a Bologna, annunziando l’unione del sacerdozio futuro coi propugnatori della indipendenza e libertà italiana, quando il presente sacerdozio rinnegava o tradiva la patria, e credeva sacrilegamente privare del carattere spirituale l’eroe che per lei saliva animosamente la croce” (Panteon 1851, 553).

In questo stesso periodo viene diffusa una stampa raffigurante Garibaldi come Cristo benedicente (foto 2). Martiri non sono solo i morti, infatti; c’è un martirio anche nel patire la sofferenza nelle carceri, il dolore delle ferite e nei lutti. Garibaldi attraversa queste soglie durante la drammatica fuga da Roma nel 1849, quando perde la moglie, i compagni, ed è costretto nuovamente a emigrare. A un prete deve la vita, don Giovanni Verità, che subito nell’iconografia è rappresentato come colui che prende sulle spalle Garibaldi e lo salva portandolo oltre il confine fra Stato pontificio e Toscana. Garibaldi lo gratificherà in varie occasioni e ancora nelle Memorie definendolo “vero sacerdote del Cristo” (1920, 225). Ma la figura cristologica di un Garibaldi vittima ed eroe valoroso ha una diffusione che va oltre l’ambito elitario, come lasciano credere numerose testimonianze circa l’accorrere di donne che gli portavano i figli da toccare. Così ancora nella guerra del 1859, a Varese e a San Fermo, come notava G. Visconti Venosta nei suoi Ricordi di gioventù: “né meno degli uomini erano entusiaste le donne che gli portavano persino i loro bambini perché li benedicesse e li battezzasse” (1904: citato da Banti 2000, 173). Il garibaldino Tosi rammentava a decenni di distanza che “le trasteverine lo avevano assomigliato a Gesù, e più tardi le donne di Palermo lo adoreranno” (1910, 68-69). Evidentemente, in questo periodo o meglio in questi diversi momenti, poca presa ha il contro mito di un Garibaldi anti Cristo. Del resto, solo ai primi anni Cinquanta data una pubblicistica specifica sugli atti sacrileghi che sarebbero stati compiuti dai garibaldini durante l’esperienza della Repubblica romana. E solo dopo il rientro in sede di Pio IX padre Bresciani elaborerà un contro mito di Garibaldi mettendo all’opera il personaggio di Lionello (un anti Garibaldi), settario pentito, il cui ciclo di “avventure” inizia, appunto, nel 1853.

Quando si può parlare, dunque, di una frattura “definitiva” fra il movimento nazionale e il mondo cattolico? Molti storici hanno collocato l’evento nel periodo 1848-49, fra l’allocuzione di Pio IX e la Repubblica romana. Lucy Riall riprendendo alcune osservazioni di Giuseppe Battelli ha osservato che quel periodo rappresenta il vero spartiacque nei rapporti fra Stato e Chiesa in Italia, più di quanto non lo sia il 1870 (2007, 81; Battelli 1986, 809-810). Non sarei del tutto d’accordo con questa tesi, che guarda i vertici. Ma forse ai vertici è giusta. Alla base, però, mi sembra che l’entusiasmo visto per il 1848 si ripeta in parte nel 1859 e soprattutto in occasione dell’impresa dei Mille, quando di nuovo si osserva la corsa dei volontari alla guerra nazionale. Al Sud, in particolare, metà della Chiesa, quella dei nove milioni di abitanti residenti nel Regno borbonico, non è in rotta con la prospettiva unitaria, almeno fino all’estensione delle leggi restrittive dello Stato italiano. Azzarderei questa ipotesi facendo affidamento, soprattutto, sull’osservatorio garibaldino. Già Maurice Agulhon, in un noto saggio sul mito di Garibaldi in Francia del 1982, pronunciato durante il LI congresso di storia del Risorgimento italiano, a Genova nell’autunno del 1982, aveva sostenuto che solo dopo il 1860 Garibaldi era divenuto quella figura che sommava su di sé, agli occhi dei cattolici, l’incrocio d’una rivoluzione liberale, democratica e mortale per il potere pontificio (1988, 89).

2.

Il fascino di Garibaldi sul clero tocca sicuramente il vertice più alto nel 1860. Non più singole personalità, ma un’adesione di massa del clero meridionale. I diaristi garibaldini lo ricorderanno come un ritorno al ’48. L’impresa, per altro, non avvenne sotto il segno dell’anticlericalismo, benché fosse ormai chiaro – dopo il 1859 e l’adesione al Regno di Sardegna della parte Nord dello Stato pontificio – che l’unità d’Italia si sarebbe fatta contro il papa. La storiografia ha insistito sul vuoto politico e di autorità che regnava nell’Italia borbonica e specie in Sicilia (Riall 2011). Una crisi che coinvolgeva anche la Chiesa, nelle sue varie componenti e non solo nel basso clero, su cui aveva già chiamato l’attenzione Giorgio Candeloro (1982, 99; Brancato 1965). Anzi, per certi versi, l’ascendente di Garibaldi fra il clero, ma perfino fra suore e monache, sia nella prima fase palermitana, sia in quella messinese e calabrese, poté crescere in un’atmosfera che potremmo definire improntata, di fatto, a una forma di “autonomia” da Roma.

Non per nulla andrà notato un certo tatto garibaldino verso la Chiesa meridionale nel suo complesso.

Uno dei primi proclami di Garibaldi, emanato a Salemi o forse già a Marsala, era una appello ai “preti buoni” affinché seguissero la “vera religione di Cristo” attribuendo loro un ruolo di guida per “combattere gli oppressori” e liberare la “nostra terra” i “nostri figli” e le “nostre donne” e il “nostro patrimonio” (Riall 2007, 274). Confermava il garibaldino Giuseppe Cesare Abba che “laggiù nell’isola, dove il clero viveva ancora delle passioni civili del popolo, i sacerdoti in generale erano caldi patrioti”. E che “anche i preti, i frati e le monache dicevano bene” di Garibaldi (1910, 108, 156). Giuseppe Bandi, segretario di Garibaldi, raccontava di un funerale cattolico celebrato a un caduto garibaldino nella chiesa dei francescani di Alcamo: al centro il catafalco con sopra la camicia rossa, dal pulpito un frate che grida “Dio lo vuole” (1914, 182). Sulle barricate di Palermo il clero predicava dicendo che chiunque fosse morto avrebbe meritato, subito, un posto bellissimo in paradiso. Gli insorti avevano appiccicato sul calcio dei fucili le immagini di santa Rosalia e lo stesso sulle culatte dei cannoni (Bandi 1914, 186). Del resto, i conventi dei frati erano i soli veri rifugi per i garibaldini. I paesi, fatti di capanne, mettevano sgomento, secondo il ricordo di Abba; non c’era neppure l’acqua da bere (Abba 1910, 104). I monasteri, invece, offrivano cibo e riparo. Fonti un po’ maliziose vedevano suore in gara nel preparare dolci e nel salutare Garibaldi baciandolo sulla bocca.

Come che sia, l’impresa è l’occasione d’una “andata” a Garibaldi. Qui si salderanno nell’universo garibaldino figure di notevole importanza. Il prete Luigi Gusmaroli, quarantanovenne da Mantova, parroco fino al 1846, che girava per Palermo a confortare i feriti e portando loro i saluti dei combattenti. Come prete, tuttavia, rifiutava di impugnare armi. “Essere ucciso poteva; uccidere no” (Ivi, 189-190). Una singolare popolarità gli derivava dalla sua straordinaria somiglianza fisica con Garibaldi, tanto che i picciotti lo prendevano per lui (Ivi, 190). Fra tutti, certamente la recluta di maggior spicco fu il frate Giovanni Pantaleo. Si fece avanti a Salemi, dov’era lettore di filosofia dei minori osservanti. Garibaldi lo accolse immediatamente ribattezzandolo l’Ugo Bassi delle sue nuove legioni (Ivi, 108). Secondo Abba, fra Pantaleo ricordava nel viso i sacerdoti del ’48, quelli che predicavano e benedicevano la patria dal pulpito. Infatti, Pantaleo con la coccarda tricolore sul saio e la spada al fianco, come appare in una stampa del tempo, rappresenta con efficacia l’immagine di una Chiesa siciliana militante e patriottica. Il frate si era presentato a Garibaldi dicendo: “In mezzo a questa gente superstiziosa e cieca, la croce e la parola d’un frate patriota valgono per cento delle vostre sciabole” (Bandi 1914, 128). Pantaleo usava tenere in mano una croce di legno, che una palla borbonica gli aveva spezzata in due, mentre esortava i picciotti alla zuffa (Ivi, 203).

“Piacque ma non a tutti – notò Abba -. Tra quella gente dell’Alta Italia, v’erano i diffidenti e gli avversi per sistema agli uomini di chiesa; ma poiché Garibaldi accolse bene il monaco, e lo chiamò l’Ugo Bassi delle sue nuove legioni, anche quelli rispettarono il frate e lo lasciarono predicare” (1997, 108).

3.

Messe al campo, comunioni, promesse di salvezza: la guerra al Sud era anche una battaglia fra simboli e riti religiosi. Si combatte fra reliquie, immagini sante, benedizioni delle vittime. Predicatori con la tonaca o il saio incitano o guidano i soldati, dall’una e dall’altra parte, fra i garibaldini come fra i borbonici. Garibaldi dal canto suo non trascura nulla: usa il suo carisma fino alla promozione del culto per la sua persona. Benché ufficialmente scomunicato, come gli ricorda fra Pantaleo, asseconda i suggerimenti del frate, come quando ad Alcamo si fa benedire di fronte al popolo sui gradini della chiesa. Lo racconta anche Dumas: la città era in festa. Garibaldi “si lasciò cadere in ginocchio sui gradini esterni della chiesa, davanti ai contadini, ai soldati, alla popolazione”. Il frate, preso allora il santissimo sacramento dall’interno, tornava fuori e gridava: “Guardate tutti! Ecco il vittorioso che si inchina a Colui che dà la vittoria” e benedisse Garibaldi “in nome di Dio, dell’Italia e della libertà” (1996, 73, 74).

Sempre su consiglio di Pantaleo, Garibaldi renderà omaggio in forme solenni a santa Rosalia a Palermo e a san Gennaro a Napoli. E proprio a Napoli, il 31 ottobre, affacciatosi dal balcone della Foresteria, diceva alla popolazione. “Io sono cristiano, sono un buon cristiano, e parlo a dei buoni cristiani; io amo e venero la religione di Cristo, perché Gesù Cristo è venuto al mondo per sottrarre l’umanità alla servitù, che non è lo scopo per cui Dio l’ha creata. Ma il papa, il quale vuole che gli uomini siano schiavi, e chiede ai potenti della terra ceppi e catene per gli Italiani, il papa-re misconosce Cristo; misconosce la sua propria religione” (Du Camp 1963, 374-375). Garibaldi, dunque, distingue la gerarchia ecclesiastica dal messaggio cristiano, verso il quale ha un atteggiamento di rispetto. L’una, cioè il papa, simbolo di “servitù” politica, l’altro ossia il ritorno alla parola di Cristo quale autentica “religione della libertà”, come notava il garibaldino Maxime Du Camp, che ricordava come Garibaldi avesse terminato il suo discorso inneggiando all’Italia, a Vittorio Emanuele e al cristianesimo (Ivi, 375).

I diaristi garibaldini sono prodighi di episodi intorno all’attiva partecipazione di religiosi alla guerra antiborbonica. Abba li ha visti nella battaglia di Calatafimi: sei o sette francescani, i quali “dopo aver combattuto fino con tromboni, partivano per tornare al loro convento. Erano accorsi là da Castelvetrano. A quell’ora se ne andavano giù dal colle nei loro tonaconi grossi, con le loro armi in spalla, seri e tranquilli, come se tornassero da aver fatta la questua tra quei soldati che avevano fame, e stavano divorando pane e cacio distribuito in fretta già quasi nel buio” (1910, 130). Durante la battaglia di Palermo, sempre secondo Abba: “Dei frati veri, molti parevano più rivoluzionari dei garibaldini stessi” (Ivi, 185). Il sacerdote siciliano Antonio Rotolo guidava una grossa squadra di Picciotti (Ivi, 171).

Secondo l’Album storico artistico del 1862, fonte ufficiale dei garibaldini, la rapida risalita dei volontari attraverso la Calabria sarebbe dipesa essenzialmente dal fatto che preti e frati avevano aderito in massa all’appello di Garibaldi. “Questi forti montanari – si legge -, disertando a frotte i loro abituri, armati, erano corsi ad ingrossare le compagnie di Stocco, di Morelli, del parroco Foresta, del prete Bianchi e di tanti altri generosi che organizzarono quel meraviglioso movimento. Preti e frati s’erano posti alla testa degli insorti, e, armati de’ loro fucili, precedevano a capo delle bande” (1862, 104). L’Album riproduceva integralmente l’indirizzo presentato a Garibaldi dagli agostiniani di Monteleone, a conferma dello spirito che animava quei frati. Aperto con un richiamo alle radici storiche “dell’italico sermone”, per dirla con Dante, il manifesto dei “poveri frati” esprimeva gratitudine al “gran cittadino d’Italia” Garibaldi, “per quanto avete operato a pro’ della patria comune”. Né i frati scartavano il pronunciamento politico, per quanto subordinato al fine primario dell’ordine di “professare la dottrina di Cristo”. Alla quale, tuttavia, essi attribuivano il merito di essere “sovranamente inspirata dalla carità dell’amore di patria”. E così concludevano: “Dio è sempre coi giusti, Egli sarà quindi con voi e coi forti che guidate, sino al giorno nel quale la vostra spada trionfatrice potrà scrivere sulle sponde dell’Isonzo e sui dirupi dell’Alpi marittime: Oltre questi confini non passeranno d’ora innanzi eserciti di barbari o di civili stranieri” (Ibid.).

Anche la letteratura antigaribaldina di un don Buttà, confermava il coinvolgimento del clero e perfino di un alto prelato come monsignor Caputo, vescovo di Ariano Irpino in provincia di Avellino, che naturalmente don Buttà vedrà morire più tardi fra gli spasimi dell’inferno, come l’“ateo” Voltaire (1985, 241). Ma don Buttà dimenticava il vescovo di Monreale, Benedetto D’Acquisto, che compiaciuto aveva visitato il forte di Castellamare di Palermo, conquistato dai garibaldini, e dato da demolire alla popolazione (Riall 2007, 284). A voler essere, infine, un po’ impertinenti, anche l’acrimonioso don Buttà non era stato del tutto esente da frequentazioni garibaldine. Si avvicinava ai garibaldini anche uno “strano” frate, già socialista, e che Abba non ricorda per nome (Mengozzi 2010). Un tipo dal quale aveva avuto modo di udire obiezioni rimaste senza risposta. Quel frate gli aveva spiegato che la rivoluzione non bastava, che non di quella guerra la Sicilia aveva bisogno, perché troppo grande era la miseria. “Insomma quel monaco – scriveva Abba – voleva la guerra non soltanto contro i Borboni, ma contro tutti gli oppressori grandi e piccoli, che si trovavano laggiù dappertutto”. Anche contro frati ricchissimi: “ma col Vangelo in mano e con la Croce”. E allora anche lui ci si sarebbe messo. Ma così gli pareva inutile, concludeva il garibaldino (1910, 152).

4.

Ebbene, chiediamoci a questo punto quando finisce tale reciproca intesa o meglio quel tipo di attrazione e simpatia per la figura di Garibaldi o, in altre parole, quando viene meno l’attenuazione dell’anticlericalismo fra i garibaldini, da un lato, e dall’altro riemerge la centralità gerarchica del papa fra i cattolici? Senza levare lo sguardo dalla Chiesa meridionale, potremmo rispondere senz’altro con Vittorio Gorresio, quando in un suo libro del 1958 imputava all’estensione a tutt’Italia delle leggi piemontesi contro i privilegi ecclesiastici, il divorzio della Chiesa meridionale (2011, 111-112). Ma a mettere tutto nel bilancio, non è da dimenticare l’evolvere dello stesso orientamento spirituale e politico di Garibaldi. Con Aspromonte nel 1862, poi Mentana nel 1867, la questione della presa di Roma diviene quasi un’ossessione per lui. Anzi, per raccogliere adesioni, si mette a fare il prete laico, dispensatore di sacramenti, battesimi, e predicatore di una nuova religione del vero, di cui darà un saggio al congresso internazionale della pace a Ginevra (Mengozzi 2008, 31-32).

Garibaldi (non meno di Pio IX) rifiuta la legge sulle guarentigie e la separazione cavourriana fra Stato e Chiesa, radicalizzando il suo anticlericalismo, che in certi tratti appare come una guerra contro la stessa presenza della Chiesa, i suoi istituti e le sue cerimonie nella società, specie quelle vicine ai costumi popolari (Candeloro 1982, 129-135). In parallelo anche la sua concezione filosofica e religiosa si sposta progressivamente dal deismo verso un materialismo scientista. Dio eguagliato a infinito, spazio, materia, rassomiglia sempre più a una formula matematica, alla quale Garibaldi domanda – ultimissima e vaga inquietudine metafisica – se possa ancora appartenere alla materia il pensiero, e cioè – pare di capire – una sorta di anima, del tutto simile – però – alla personalità o all’identità del singolo.

Prende forma sempre più religiosa anche il culto per la sua persona, con rituali e catechismi. Nel 1866 uscirà il primo, forse di mano di Gusmaroli, nel quale vengono offerte preghiere a un Garibaldi divinità laica (Dottrina 1866). Egli assume sempre più le sembianze di un papa laico, che somministra sacramenti, immortalità o dannazione, avente una propria fonte di sacralità, autonoma, fondata sul proprio corpo di eroe.

Nel corso degli anni Settanta, infatti, Garibaldi consegna alla stampa quattro romanzi storici, con i quali si propone di rivedere la lista degli “amici” e dei “nemici” nelle lotte per l’unificazione italiana, gli uni da spedire all’inferno della memoria, gli altri in paradiso. E di farlo rivolgendosi alle nuove generazioni, dando quasi per scontato l’impossibilità di un “dialogo” con la classe dirigente attuale, specie nel definire la sua ultima e gloriosa impresa, la spedizione dei Mille (Isnenghi 2007, 106-130), la cui mitologia – i Mille, appunto – nasceva proprio sotto la sua penna in quegli anni (Mengozzi 2012, 251-255). La forma romanzata gli permette libertà narrativa e anche inventiva. Infatti, nel ripercorrere la liberazione del Sud apriva ampie parentesi per mettere in scena le trame antigaribaldine di un nemico “attuale”, ma che al tempo egli non aveva ritenuto altrettanto pericoloso, e cioè la Chiesa e il papa, con la sua corte di gesuiti, “loschi” preti e monsignori.

In verità, in questo periodo Garibaldi non può più contare su quei preti in camicia rossa, che lo avevano accompagnato e consigliato. Perfino l’amico e biografo Guerzoni non gli risparmierà una certa ironia in merito alle prediche e agli atteggiamenti da sacerdote laico (1882, 470), che pretendeva avanzare la candidatura di don Verità a futuro papa.

Di fatto, Garibaldi ritiene ormai irrimediabile il divorzio fra Chiesa e nazione o addirittura fra clero e nazione, al quale imputa le difficoltà maggiori che il neonato Stato nazionale stava incontrando nel “fare gli italiani”. Nei romanzi storici e nelle Memorie del 1872 fa spesso del clero il capro espiatorio dei mali nazionali, dalla scarsa propensione dei giovani alla vita militare, una debolezza che per Garibaldi deriva dalla passata volontà dei preti a fare chierichetti invece che uomini virili, alla mancata partecipazione dei contadini al volontariato in camicia rossa, perché trattenuti nelle parrocchie dai loro parroci, o infine per il fenomeno del brigantaggio meridionale. In Clelia, romanzo storico del 1870, scriveva, infatti, che “La Nazione italiana vide alla luce del sole il ceffo deforme degli impostori, marciare col crocefisso in mano alla testa delle masnade straniere, suscitando dovunque quel brigantaggio che devasta ancora le nostre provincia meridionali con ogni specie di orribili delitti, per tentare la dissoluzione dell’unità nazionale sì felicemente costituita” (2006, 140).

In tale radicalizzazione dello scontro fra clericali e anticlericali, i cui linguaggi spesso si copiano a vicenda, i preti garibaldini, quelli che non l’avevano ancora fatto, lasciano la tonaca e muoiono da laici impenitenti, come Gusmaroli e Pantaleo, fra i più noti. Tra i pochi che non lo fanno è don Verità, ma al prezzo dell’emarginazione nella sua piccola parrocchia di montagna a Modigliana, sull’Appennino tosco-romagnolo. Sarà, tuttavia, ugualmente punito dalle autorità clericali con la negazione del funerale religioso e punito ancora, dopo morto, con la ritardata traslazione della sua tomba nel nuovo cimitero di Modigliana, all’epoca dei Patti lateranensi. Ancora più triste la fine di Gusmaroli: la lapide per lui, dettata da Garibaldi, nel cimitero della Maddalena sarà poi tolta, si può bene indovinare da chi, e con quella sparirà anche il suo sepolcro.

di Dino Mengozzi

fonte http://storiaefuturo.eu/il-fascino-di-garibaldi-sul-clero-italiano/

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