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Il governo dei Nobili a Napoli: Autonomismo, decentramento, partecipazione governativa dei Seggi cittadini. (quarta parte)

Posted by on Set 15, 2017

Il governo dei Nobili a Napoli: Autonomismo, decentramento, partecipazione governativa dei Seggi cittadini. (quarta parte)

l principe di Macchia giunse, pure, a lanciare un proclama onde convincere la nobiltà reticente (specie quella spagnola o filo-francese) a scendere in aiuto ai congiurati, senza però riuscire a persuadere gli Eletti cittadini.

Lo scontro decisivo con le truppe regie ed un piccolo nucleo alleato di nobili, guidati dal principe di Montesarchio, avvenne il 24 settembre all’altezza tra lo Spirito Santo, Port’Alba e S. Lorenzo, con la messa in fuga dei ribelli. Si sedarono, poi, le rivolte scoppiate in Aversa, Isernia e Salerno. Il dopo-sommossa fu costellato da una violenta e sanguinosa repressione, voluta dal viceré Medinaceli per punire duramente i principali colpevoli(28). Il fallimento della rivolta fu, a detta di molti storici, da imputarsi alla “grande massa del popolo, su cui aveva fatto leva il Gambacorta per convincere gli altri nobili alla sommossa, resta assente, indifferente allo svolgersi dei fatti”.

Nella rivoluzione “passiva”(29) del 1799, che vide la nascita della Repubblica Napoletana, una parte della nobiltà si rese protagonista, con il ceto della borghesia “avanzata” e di quella intellettuale radicale, di un programma di iniziative riformiste ed anti-assolutiste dell’assetto istituzionale, seppur con l’ausilio di una forza militare straniera, comandata dal gen. Championnet(30). Durante la breve durata di questo governo giacobino-democratico-illuminista furono varate le leggi sulla eversione-soppressione della feudalità e scioglimento dei fedecommessi e majoraschi.
I sedili lasciarono il posto a sei municipalità indipendenti(31) e furono poi aboliti i titoli di nobiltà. A Napoli tra le fazioni politiche affermatesi vi fu quella che sosteneva che il governo cittadino fosse affidato, non al vicario Pignatelli(essendo il sovrano ritiratosi in Sicilia), bensì agli Eletti del senato municipale. Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, con altri nobili rivendicarono, inoltre, un governo aristocratico con nuovo re, scelto dalla Spagna (32).
La Repubblica partenopea sopperì con lo sviluppo delle insorgenze controrivoluzionarie della Santa Fede, capitanate dal cardinale Ruffo. Al rientro di re Ferdinando si ordinarono arresti e condanne a morte verso i ribelli, incriminati di lesa Maestà per aver collaborato con l’invasore francese e per insubordinazione verso il vicario.

Tale classe di cittadini, formante il “patriziato” con dignità gentilizia trasmissibile ai discendenti, costituì “antica istituzione sociale” governativa con poteri politici presso le popolazioni greca, romana e successive dominazioni barbariche (germani, goti, galli), come asseriscono gli storici Draco (35) ed il Gentili(36).

 

Nel periodo ellenico-romano, rimase, invece, esclusa dai centri di potere la classe dei popolani, che, per i loro impegni nelle mercanzie, arti  meccaniche,  agricoltura  o  studio   delle  varie lettere e discipline, “non poterono aver quest’ozio di convenir nelle piazze a trattar co’nobili de’ pubblici affari”.

 

 

 

 

Il primo nucleo di nobili, frequentanti dette aree, si identificò, probabilmente, in quella “Gens” con sue peculiarità di romana memoria(37). Secondo il Tutini(38) la tradizione urbanistica greca, inoltre, prevedeva un numero di queste aree di incontro, presenti sia a Napoli che in altre colonie della Magna Grecia, pari a quattro (da cui deriva il termine “quartiere”).
Gli storici Giovanni Villani, Falco e Lettieri sostennero, di contro, che la città fosse all’origine divisa in “tre sole piazze o strade lunghe per dirittura, e l’altre per traverso erano dette Vichi”. Quest’ultimo termine fu usato dallo stesso Petrarca per definire, in lingua latina, questi seggi di Napoli, Vici cioè vichi”. Le fratrie, riferisce, poi, Annibale Di Niscia erano dedicate ad un nume, dal quale prendevano il nome (Phratria Eumelidarum, dal dio Eumelo, Ph. Heboniorum, dal dio Ebone, Ph.Castorum, dal dio Castore). Filippo Pagano(39)  aggiunge che ivi, difatti, si radunavano le persone per “esercitare il natio culto, e venerare i patri numi”.
La trasformazione delle fratrie in seggi avvenne alla fine del IX secolo, come asserisce il medesimo Pagano, allorquando “popolani e gentiluomini” cominciarono ad erigere molti portici  in epoca di espansione della religione cristiana. In seguito, furono edificati appositi sedili di sosta o seduta dei cittadini, dai quali derivò l’uso di tale denominazione per indicare detti luoghi, seppur cominciò anche a propagarsi la dizione di “tocchi” per indicare le riunioni delle brigate in specifiche zone. Secondo il citato Tutini, comunque, occorreva mantenere la distinzione tra “seggio” e “piazza”, per la seguente motivazione: “benché sia più generico il nome di Piazza, che di Seggio, ad ogni modo il nome di Seggio alla Piazza si considera come specie al genere, onde si può dire è Seggio, dunque è Piazza, perché è una parte di essa; dove convengono i nobili, che dimorano in quella piazza. Ma non vale dire è Piazza dunque è Seggio, perché nella Piazza si comprendono i nobili, che sono fuori del seggio e cittadini che abitano quella piazza”.

Altri storici hanno, altresì, concordato sull’uguaglianza di significato di Seggio e Piazza.
Il Capecelatro nei suoi Annali(40) individua nella Piazza quel luogo, ove si riunivano i nobili, facendola corrispondere al Seggio, secondo la definizione del Tutini. Si diffuse, inoltre, la consuetudine di chiamare i seggi in base al luogo, ove furono eretti gli edifici che li ospitavano(41), nonché in base a quello della famiglia importante ivi residente, che espletava funzioni amministrative. Nel basso medioevo, pertanto, il governo politico della città partenopea rimase sotto il controllo del gruppo di queste famiglie patrizie di origine greco-romana, mentre l’impero romano d’Occidente finiva (476) con Romolo Augusto, esiliato nella villa di Lucullo in Castel dell’Ovo e si andava affermando l’indipendente Ducato di Napoli del regno Longobardo. Queste famiglie native, con il precipitare degli eventi, si trovarono costrette ad integrarsi con altre forestiere, giunte a seguito delle varie dominazioni barbariche susseguitesi con i rispettivi sovrani.

Ettore d’Alessandro di Pescolanciano

fonte

nobili-napoletani.it

 

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