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Il governo di Francesco II in esilio e il problema dell’unità d’Italia

Posted by on Mar 23, 2017

Il governo di Francesco II in esilio e il problema dell’unità d’Italia

povero giuseppe galasso non riesce a darsi pace perchè ha capito che fra qualche anno, quando si parlerà di storia, verrà relegato nel girone degli storici salariati, come li definiva Gramsci, e sta cercando ultimamente di rivedere un pochino le sue posizioni sul risorgimento. purtroppo per lui il dado è tratto e nemmeno se farà una giravolta a 360 gradi lo potrà salvare. di seguito pubblico un suo articolo che vi invito a leggere.

È un vero servigio agli studi storici il recente lavoro di Eugenio Di Rienzo, L’Europa e la “questione napoletana”. 1861-1870 (D’Amico Editore, Nocera inferiore). Di Rienzo ci ha dato, infatti, la molto attesa trattazione di un tema storico rimasto finora  in ombra, e cioè la vita e l’attività del governo napoletano in esilio, formato a Roma dall’ultimo Borbone, il giovane Francesco II.

Quel governo era presieduto da Pietro Calà Ulloa, che era pure ministro dell’Interno, della Giustizia e per gli Affari di Sicilia; Leopoldo Del Re era ministro degli Esteri e della Marina, Salvatore Carbonelli era ministro delle Finanze e degli Affari Ecclesiastici, e Antonio Calà Ulloa, fratello di Pietro era ministro della Guerra. Non erano nomi di primo piano nel Mezzogiorno borbonico, e il cumulo degli incarichi rivela la difficoltà di far nascere un vero e proprio organismo ministeriale dopo il 1860. Il nuovo Stato italiano fu riconosciuto dalla maggior parte delle potenze nella primavera-estate del 1861, e ciò pregiudicò in partenza il credito di quel governo in esilio, del quale dopo il 1865 rimasero solo la Santa Sede e l’Austria a far conto.

In esso si affrontavano due correnti. L’una di esse, con la regina madre Maria Teresa d’Austria, conservatrice e intransigente, puntava sull’agitazione e la guerriglia nel Mezzogiorno per rovesciarvi il regime “piemontese” rinnovando il “miracolo del 1799”. L’altra, con Pietro Calà Ulloa, era costituzionalista; voleva liberalizzare il vecchio regime borbonico; non riluttava a una unità federale dell’Italia a struttura pluristatale; e credeva che la guerriglia del “brigantaggio” non potesse far altro che mostrare come la nuova Italia controllasse il Mezzogiorno solo con una violenta repressione. Calà Ulloa mirava, così, a tener vivo il problema napoletano nella diplomazia europea, sperando che una revisione europea del nuovo assetto italiano consentisse un ritorno borbonico a Napoli (la Sicilia era, ormai, fuori causa). Anche la linea Calà ebbe, però, in sostanza, scarsa eco in Europa. Né ad essa giovarono le critiche, che in alcuni paesi non mancarono, al governo italiano nel Mezzogiorno (Di Rienzo ci dà anche la ristampa del discorso di Lord Lennox alla Camera dei Comuni l’8 maggio 1863: una terribile requisitoria che condannava il governo italiano coi termini usati a suo tempo da Gladstone per il governo borbonico).

Questo esito negativo era, in effetti, scontato in anticipo; e i governanti italiani di allora si preoccuparono molto più del brigantaggio che del governo esule di Roma. L’alleanza italo-prussiana e la guerra del 1866 tolsero poi, come nota Di Rienzo,  alla causa borbonica anche la speranza e portarono al finale scioglimento del governo in esilio.

Le valutazioni di Di Rienzo sul governo italiano del Mezzogiorno sono molto critiche, e sulla materialità dei fatti non gli si può dare torto. Chiari appaiono pure i tratti delle lotte civili di altri paesi (diversi, invero, tra loro), nelle quali, però, lo schieramento sociale era ampio e massiccio. Nel Mezzogiorno di  allora la borghesia meridionale fu, invece, molto assente, così come lo era stata nel 1860, quando il Regno finì con un crollo tale da smentire ogni rappresentazione del Sud come un paese ordinato, soddisfatto del suo regime e delle sue condizioni, in equilibrio economico-finanziario e sociale, con un forte attaccamento alla dinastia e legato alla sua indipendenza, senza alcun fermento di idea italiana: un crollo vergognoso, riscattato solo dal valoroso comportamento dell’esercito napoletano.

La borghesia si adattò subito, nella sua massima parte, al nuovo regime; si fece eleggere largamente al Parlamento italiano, e vi svolse una parte molto attiva, a presidio, innanzitutto, dei propri interessi; e il cripto-borbonismo, di cui spesso si parlò, si rivelò ben presto, più che altro, un mezzo di speculazione politica. La guerra del brigantaggio reclutò, tutto sommato, appoggi e partecipazioni insufficienti; e, anzi, dovette fin troppo spesso strappare appoggi con la violenza. La massa dei combattenti di quella guerra fu quasi tutta di contadini, pastori e popolani, di ex soldati e (meno) ex ufficiali borbonici, di una parte del clero. Irrilevante fu la partecipazione straniera di legittimisti di vario genere; e si spiega, perché non uscì, in effetti, da quel brigantaggio nessun grande messaggio etico-politico in grado di mobilitare l’opinione europea. Anche il motivo dell’indipendenza napoletana, che in esso si pretende centrale, non assunse mai il rilievo di una grande lotta di indipendenza come quelle dei popoli balcanici contro i turchi, o della stessa Italia contro l’Austria (l’unità italiana apparve, anzi, uno dei più grandi fatti della storia europea). Al contrario, l’inserimento dei meridionali nei quadri civili e militari della nuova Italia si ebbe da subito e progredì rapidamente; e vi si inserirono, senza travagli laceranti, anche i ceti più legati alle memorie borboniche.

Per le vicende di allora va tenuto presente tutto ciò e, ancor più, che nel Mezzogiorno esisteva già da decenni un movimento liberale o democratico e nazional-italiano di non piccola consistenza. Questo movimento fu una forte componente sia del Risorgimento italiano sia del logoramento del regime borbonico. Ignorarlo ci porta solo a un racconto traviato e traviante del Mezzogiorno nell’unità italiana, che non giova a nessuno, salvo che a chi commercia in certi best seller pseudo-storici. Il libro di Di Rienzo, come vero lavoro storico, ne è l’esatto opposto; e l’accurato articolo di Carmine Pinto, Il patriottismo di guerra napoletano. 1861-1866, nella “Nuova Rivista Storica” di settembre-dicembre 2016, è una ulteriore conferma di quanto abbiamo qui detto.

Giuseppe Galasso

(Pubblicato il 12 febbraio 2017 – © «Corriere del Mezzogiorno»)

Fonte nuovarivistastorica.it

 

 

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