Alta Terra di Lavoro

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Il museo della follia. Da Goya a Maradona, a cura di Vittorio Sgarbi

Posted by on Dic 14, 2017

Il museo della follia. Da Goya a Maradona, a cura di Vittorio Sgarbi

Nel centro antico di Napoli c’è la chiesa di Santa Maria Maggiore della Pietrasanta, una chiesa antica. Costruita nel VI secolo, fu ammodernata, più di mille anni dopo, da Cosimo Fanzago (1591/ 1679), grande architetto il quale, nato in Lombardia, si napoletanizzò a tal punto da esprimere un suo spirito tutto napoletano. La Pietrasanta si presenta all’esterno con una grande cupola che lascia presentire l’ampio, libero spazio del suo interno.

 Bombardata durante l’ultima guerra, a lungo chiusa e dimenticata, da qualche tempo è riapparsa, priva del suo apparato figurativo, ad accogliere nel suo spazio attività artistiche. Qui c’è stato il grande successo, durato dal 6 dicembre 2016 al 2 luglio 2017, della mostra di Vittorio Sgarbi “Tesori nascosti” (“nascosti” perché di collezioni private), che efficacemente raccontava, riassumendola in pochi e significativi esempi, la storia dell’arte italiana dal Medio Evo  ai nostri giorni. 

 Ora, da sabato 3 dicembre al 27 maggio, la Pietrasanta accoglie l’ultima fatica di Vittorio Sgarbi; la spericolata mostra de “Il museo della follia. Da Goya a Maradona”, che già il 2 dicembre, giorno della sua presentazione ufficiale, ha ottenuto il successo di una platea affollatissima di giornalisti, collezionisti, gente del ramo e gente comune. Tanto affollata, da costringere, le sedie erano tutte occupate, centinaia di persone a stare in piedi per ore .

 Per la presentazione di questo evento, Sgarbi si è avvalso di personaggi di alto livello culturale. In ordine di entrata (si può dire così?): Monsignore Vincenzo De Gregorio,  Rettore della Pietrasanta, il magistrato Nicola GrazianoAnna Maria Minicucci, direttrice dell’ospedale Pausillipon-Santobono, a cui Maradona ha donato il cachet ricevuto per l’utilizzo del suo nome, il direttore del Museo Madre Andrea Viliani e Raffaele Morelli. Tutti loro hanno fatto discorsi appropriati e interessanti.

 Ci si interroga sul cervello umano, sul genio, sull’arte e sulla follia.

 A queste domande cerca di dare una risposta da specialista Raffaele Morelli, psicologo e psicoterapeuta, oltre che scrittore e personaggio televisivo. Si interroga su quello che Edoardo Boncinelli (Rodi 1941), biologo e genetista, ha definito “il più grande miracolo del mondo”: il funzionamento del cervello. Sul quale la scienza non ha mai smesso di interrogarsi.

In quanto alla follia, Morelli ci dice che, in un tempo lontano, il folle veniva rispettato. E poteva anche succedere che venisse considerato come un essere divino. Questo accadeva, nella nostra civiltà, soprattutto fino a circa tremila anni fa, fino al tempo dell’Iliade e dell’Odissea – ci dice Morelli. E ci parla dell’attività del nostro cervello che, come si sa, ha due lobi: il sinistro, che è quello razionale, e il lobo destro, che è il centro dell’intuizione e dell’arte e che è, o meglio era, soprattutto “il luogo dove venivano ricevute le voci degli dei”, come scrisse lo psicologo americano Julian Jaynes, in un bel libro del 1976 : “The origin of Consciousness in the Breakdown of the Bicameral Mind”.

 Questa è certo una storia affascinante.  Al tempo dell’Iliade e dell’Odissea, cioè ancor prima che il cumano Omero ce ne raccontasse, c’era la divisione tra i due lobi del cervello, e il lobo razionale sinistro non poteva frenare, come oggi fortemente frena, l’attività del lobo destro.  Che quindi era più forte e la sua opera più libera e profonda. E gli uomini, attraverso questo lobo, intuivano i segreti del mondo, cioè ascoltavano, per così dire, “la voce degli dei”.

 Poi la separazione tra i due lobi scomparve: la razionalità ebbe il sopravvento. E l’intelligenza intuitiva divenne sempre più debole e rara. Fu riservata ai maghi, ai sacerdoti, alle sibille, agli indovini, a qualche santo, come Jeanne d’Arc,  e poi, a poco a poco, la ritroviamo soltanto nei geni, negli artisti e nei poeti. Oggi, infatti, l’Occidente è diventato assolutamente, intollerantemente e astrattamente razionalista. Forse è questo la ragione della sua dilagante follia?

 Dopo i vari relatori, parla Sgarbi.  Li elogia, dichiarandoli, modestamente, a sé superiori. Il suo discorso è lungo ma non stanca. Sgarbi cita fatti diversi ma li lega a un sol filo, gira sempre intorno allo stesso enigma, usando un tono conversevole, quasi confidenziale. Cerca di parlare di sé senza remore, dice che la verità, se è nascosta, non esiste, non è verità.

 E sembra riferirsi all’origine greca di questa  parola: “a-leteia”,  “la non nascosta” (“a” = senza, “leteia” da “lantano” = “mi nascondo”). Parla anche dell’arte e degli artisti. Alcuni ebbero una vita turbolenta, come Van Gogh e Caravaggio. Genio e follia. Ma perché Caravaggio era così inquieto e ribelle e Leonardo no? si domanda Sgarbi. Forse la risposta è che la società del tempo di Leonardo era più tollerante e quella del tempo di Caravaggio (c’era la Controriforma regolamentata dal Concilio tridentino del 1445/1553) era più severa e persecutoria.

 È anche vero, però, che Gianlorenzo Bernini e Francesco Borromini vissero nella stessa epoca. Avevano due caratteri diversi, però, espansivo l’uno, introverso l’altro. Bernini ebbe grande successo e molti estimatori, anche se i denigratori non gli mancarono; così in Francia, dove non fu mai capito. L’altro, Borromini, era troppo originale, troppo diverso dal suo ambiente e non fu capito. Ebbe, sì, il favore di papa Innocenzo X ma non riuscì, infine, a sopportare le  critiche di questi. E si uccise.

 Scrisse di lui Bruno Zevi: “Il suo rifarsi al gotico e al tardo antico non era solo per legittimare la sua eresia con riferimenti colti ma era soprattutto un modo intimo, disperato di cercare un interlocutore.” Questa è la follia, secondo Sgarbi, quella che nasce dal non sentirsi compresi e accettati, dall’essere diversi e perciò emarginati.

 Vittorio Sgarbi si avvicina ai folli con rispettosa sensibilità, cercando di comprendere il loro disagio e ci parla degli sguardi disperati dei folli dipinti dagli artisti.  Essere artisti o essere geniali, in fondo, è essere folli, diversi ed è difficile farsi accettare. Perciò si è spesso borderline. Sgarbi, che certo è una persona vitalissima e non comune,  ha bisogno di esprimersi, di confidarsi, per trovare interlocutori che possano comprenderlo. La presentazione della mostra è stato un evento talmente affollato e il discorso di Sgarbi talmente affascinante, che, dopo aver sentito gli altri relatori, sono rimasta in piedi ad ascoltarlo, ancora per altre ore. Stanchissima, non ho voluto tuttavia rinunciare a visitare la mostra.

 Il cui sottotitolo, “ da Goya a Maradona”, chiarisce: si va dagli incubi e dai mostri di Francisco Goya alla straordinaria capacità nel gioco di Diego Armando Maradona.

* Sgarbi accosta Maradona a Caravaggio. “Maradona è il Caravaggio dei nostri tempi” – dice. Genio e sregolatezza, incapacità di contenersi? Ma la sua scelta di Maradona è quanto mai azzeccata.  Un’iniziativa geniale. Maradona è un folle. Sebbene lo sia soprattutto il pallone. Maradona ne comprende la follia. C’è una piccola scoperta personale che si può ricavare dal Georges Calonghi. o dal Campanini e Carbone, i vocabolari della lingua latina.

 Che incomincia col dire che la parola ragione nasce etimologicamente dalla parola latina ratio, che, in origine, significava semplicemente far di conto. Cioè contare delle palline facendole scorrere sulle aste diritte di un abaco, di un pallottoliere. Solo più tardi, al contatto con la Magna Grecia, la ratio divenne filosofica ragione. Ma conservò dell’antica ratio il suo procedere in linea retta, come le palline dell’abaco: “la diritta ragione” ancora si dice.  Inoltre, se cerchiamo follis nel vocabolario latino, troviamo che significa otre di pelle di animale.

 A questo fatto si aggiunge la notizia che anche gli antichi giocavano a pallone. Naturalmente usavano come pallone il follis, l’otre fatto di pelle e riempito d’aria. Era un pallone con la forma di una sorta di sfera irregolare che, cambiando nell’aria il suo asse di rotazione, determinava una sua strana traiettoria, difficilmente prevedibile. Una traiettoria folle.

 Che i razionalisti romani condannarono giudicandola stravagante. Così come non avevano accettato il gioco. Giocare, come si sa, in greco antico si dice paizein, che rimane nella lingua napoletana con il suo significato scherzoso: pazziare. La folle traiettoria  dell’otre gonfio d’aria è propria anche della “palla con l’effetto” (me lo spiegò mio figlio da bambino). E “l’effetto” del pallone lo si ottiene calciandolo in un modo particolare, quello tipico dei “miracolosi”, imprevedibili, folli goal del nostro campione.

* All’entrata della mostra un grosso (è alto tre metri – dicono) corno rosso regalmente incoronato. Opera di Cesare Inzerillo, è una sorta di simbolo, tra freudiano e vesuviano, della mostra stessa.  All’interno, uno dei protagonisti è il buio. In cui ci si sente a tutta prima smarriti. Serve a suggerirci lo smarrimento di quanti “uomini e donne come noi, sfortunati, umiliati, isolati e ancora vivi nella disperazione dei loro sguardi…”sono diventati pazzi e richiusi in manicomio, “condannati senza colpa, incriminati senza reati, per il solo fatto di essere diversi, cioè individui.” ci dice Sgarbi.

 Sembrano smarriti in un mondo sconosciuto e alieno. La follia, nel suo aspetto più brutto, è alienazione e disperazione. Questo ci narrano gli sguardi smarriti dei personaggi di Vincenzo Gemito e di Antonio Mancini. Mentre ci parlano della ipocrisia di questa società, della sua mancanza di verità, i volti deformati disegnati da Francis Bacon. E ci parlano di follia le opere di Francisco GoyaTelemaco SignoriniFausto Pirandello, figlio di Luigi, Antonio Ligabue e di tanti altri ancora. Una mostra importante di quadri belli e significativi.

 Che suggeriscono il desiderio forte di rivederli. Ci sono anche filmati di ex manicomi, visti attraverso delle lenti. Una fredda e arida conoscenza, attraverso una perfetta tecnologia, di una realtà terribile e terrificante. Da cui si distoglie lo sguardo, che non se ne compiace.

 All’uscita dalla mostra “c’è ancora Sgarbi, che parla cordialmente con i suoi fans. A proposito di follia e del fatto che la mostra ora si tenga a Napoli. “Una città piena di follia. – dice Sgarbi – “Una follia che ha coinvolto anche il suo sindaco, tanto che vi avrebbe voluto mettere un corno gigante sul lungomare. Prima l’ho criticato. Ma ora non sono più tanto sicuro che avessi ragione io”.

 Gli domando: “mi scusi, Professore: alcuni dicono che Napoli, con la sua follia, salverà il mondo. Che ne pensa?” E lui: “ma che ce ne importa? tra sessant’anni né io né lei ci saremo più.” “Eh no, – faccio imperterrita – ho detto che Napoli salverà il mondo, nel senso che ora già lo sta salvando, perché nella mente dei napoletani il futuro non esiste..”. E, giustamente lui: “ma lei ha usato il futuro!” “sì, per parlare in italiano; ma  ecco, Professore, il fatto è che il tempo progressivo e il suo futuro a Napoli non c’è, tanto che nella lingua napoletana il futuro quasi non esiste”.

L’informazione sulla lingua  lo interessa e si mette a domandarsi se esista un’altra lingua in cui il futuro non c’è. Forse l’avrà trovata. Certo i bambini piccoli hanno difficoltà a comprendere il futuro. Spesso, nei loro capricci, vogliono tutto subito. E mi viene anche in mente quella terribile  consecutio temporum della lingua latina, imparata a liceo, che, con il prima e il dopo, rispetta precisamente l’andamento diritto, non per niente per i romani la ratio era diritta, del tempo progressivo. Una tale consecutio  nella lingua greco-antica invece non c’è. Vorrei parlarne a Sgarbi. Ma non vorrei essere importuna.

 Fuori la Pietrasanta, la folla dei turisti va verso via San Gregorio Armeno, la famosa strada dei pastori. Penso: “già, tra poco viene Natale, domani scrivo  l’articolo. Speriamo che poi a Sgarbi piace.” Aiuto! uso il presente anche pensando in lingua italiana. Ma è proprio vero che a Napoli al futuro non ci si pensa troppo, si vive alla giornata. Ed è anche vero che anche il passato qui è presente. È presente nel centro storico di questa città stratificata, in cui ogni edificio conserva il ricordo e comunque è il ricalco di un altro più antico.

 Napoli: la città che ha la più lunga continuità storica del mondo occidentale! In cui anche i morti sono vivi. Tanto che sono vive pure le capuzzelle, quei teschi  di persone  sconosciute che sono nella chiesa delle Anime del Purgatorio e nelle Fontanelle. I napoletani gli parlano e ne cercano protezione. E, in fondo, anche i santi, e San Gennaro su tutti, sono ancora vivi. E sono vivi i morti nelle fotografie poste nelle edicole votive e nelle fotografie che qui, nelle case popolari, soprattutto nei bassi, hanno davanti un lumino sempre acceso perché gli dia luce.

 A Napoli, la vita si evolve, ma il tempo non passa.  Pericolosa Napoli, che non ha remore morali perché non teme l’inferno di un aldilà che non c’è. La vera guida morale per il popolo napoletano è espressa nel “Se no, pare brutto”. “Kalòs kai Agatòs”.  È un atteggiamento che Vittorio Sgarbi comprenderebbe appieno: a Napoli il Bello e il Buono coincidono. In fondo, Napoli è nata greca e greca rimane…

 

Museo della Follia Da Goya a Maradona

3 dicembre 2017 – 27 maggio 2018

lunedì a venerdì 10.00 – 20.00 /Sabato e domenica 10.00 – 21.00

Basilica di Santa Maria Maggiore alla Pietrasanta Piazzetta Pietrasanta 17 – 18

(angolo Via dei Tribunali), Napoli

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