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IL SACCHEGGIO DI CAPOLIVERI NELL’ISOLA D’ELBA: UN ESEMPIO DI FALSO STORICO

Posted by on Ott 19, 2019

IL SACCHEGGIO DI CAPOLIVERI NELL’ISOLA D’ELBA: UN ESEMPIO DI FALSO STORICO

1. PREMESSA

Fra i numerosi saccheggi effettuati dalle truppe francesi all’isola d’Elba, uno dei più ingiustificati ed efferati fu quello perpetrato nella cittadina di Capoliveri, nella parte meridionale orientale dell’isola

Le radici cristiane dell’isola d’Elba risalgono all’apostolo della sua «prima evangelizzazione» san Cerbone, vescovo di Populonia (Grosseto) del VI secolo (2); la chiesa di San Michele di Capoliveri è citata in scritti dell’inizio del XIII secolo; che poi il cristianesimo vi avesse attecchito in modo fecondo è dimostrato, fra gli altri, da questo episodio accaduto nel 1779, anno in cui si verificò una grande siccità: «Piove pochissimo nell’autunno; passa tutto l’inverno e comincia la primavera senz’acqua, talché i pozzi, le fonti e perfino le polle si seccano. Il popolo di Capoliveri implora la Divina assistenza. Sono ordinate processioni a S. Filippo Neri e a San Sebastiano. È esposto S. Vincenzo Ferreri. E sebbene nel primo giorno del triduo che fu il 27 marzo cadesse un poco di pioggia, pure non fu sufficiente. Il dì 5 d’aprile si portò processionalmente detta immagine e il dì 11 il simulacro di Cristo morto da preti scalzi, ma invano. Il dì 12 il popolo va processionalmente al Santuario della Vergine di Lacona, in cui entra, dietro alla confraternita, il clero scalzo, ma invano. Il dì 17, veduta il popolo l’inclemenza del cielo e accortosi che Dio era sordo alle sue preghiere, porta con grande solennità il quadro della Vergine delle Grazie in paese. Bandita una processione popolare, i fanciulli precedono gli uomini senza cappa, questi le donne, la confraternita del Corpus Domini e questa il clero. Giunti al Santuario, entrano scalzi sacerdoti e chierici soltanto: l’arciprete col canapo al collo e una corona di spine in testa, con pianto universale. Tengono esposta per undici giorni la sacra immagine, guardata notte e giorno dalla milizia […] muovono a visitare la Vergine le Confraternite della Piazza e della Marina di Longone e di Rio: un popolo innumerevole, moltissimi vestiti alla foggia di pellegrini con cappa e bordone e altri non pochi scalzi con corone di spine in capo e una corda al collo» (3).

D’altro canto, pochi anni prima, nel 1735, si trovava a Capoliveri san Paolo della Croce (1694-1775), fondatore dei padri passionisti, «[…] a dare le missioni» (4). Il santo visitò più volte l’Isola d’Elba, dove voleva stabilire la sede dell’ordine da lui fondato, ma «[…] nel 1730 si vide respinta una richiesta intesa ad ottenere il santuario della Madonna delle Grazie ed allo stesso modo, successivamente, gli fu negato di ritirarsi con i suoi confratelli nel santuario della Madonna di Monserrato di Porto Longone» (5).
 

2. IL SACCHEGGIO DI CAPOLIVERI

L’episodio narrato di seguito conferma che la storia è sempre scritta dai vincitori, e che, spesso, non è rispettato nella ricostruzione il criterio di verità circa gli accadimenti. Nel nostro caso, quanto è stato trasferito dalla «storiografia ufficiale» , è che il saccheggio di Capoliveri abbia costituito una giusta rappresaglia, a seguito di gravi provocazioni ed attacchi operati dagli abitanti contro i francesi (6). A questo proposito, si deve tenere presente, che, mentre a Portoferraio regnava il Granduca di Toscana Ferdinando III di Lorena (1769-1824), e Porto Longone, l’attuale Porto Azzurro, era sotto il dominio della casa di Borbone, l’isola nella sua restante parte — che comprendeva Capoliveri e le zone limitrofe — apparteneva ai nobili Appiani, signori di Piombino — sulla costa toscana di fronte all’isola —, che erano alleati della Francia. La cittadina, quindi, non avrebbe dovuto essere ostile ai francesi.

Ancora, occorre ricordare che Giuseppe Ninci, giacobino di Portoferraio, autore di una nota Storia dell’Elba (7), fu parte attiva nel tentativo di imporre la Repubblica nell’isola, tanto che, quando la guarnigione granducale di Portoferraio tentò di opporsi all’incorporazione della piazzaforte, l’ultima rimasta libera, alla Repubblica Francese, nel marzo 1799, fu lo stesso Ninci a essere protagonista degli eventi. Nella sua storia egli infatti racconta che «[…] fortunatamente lo scrittore della presente opera, trovandosi a diporto sul molo, sentì, con raccapriccio ed orrore le minacce di quegli empi [i difensori della piazza].Egli volò ad avvertire i capi guardia [degli assedianti] dei posti indicati, affinché si ponessero a difesa» (8). Autore di parte, dunque, che l’altro storico dell’Elba, Vincenzo Mellini Ponçe de Leon (9) conferma abbia partecipato alle trattative fra i rivoluzionari e la piazzaforte, soprattutto al momento della consegna della lettera «[…] con cui si ordinava alla municipalità di Capoliveri di mettersi sotto il governo francese e somministrare alle truppe di quella Repubblica tutti i soccorsi possibili» (10). Il cronista elbano riferisce che il 4 aprile 1799 alla consegna della lettera, a Capoliveri, Ninci fosse presente: «[…] vuolsi che fra detti emissari vi fosse il nostro Giuseppe Ninci» (11). 

Ma la posizione di attesa dei capoliveresi ha termine proprio in questo momento. Si ignora «[…] ciò che riposero gli anziani, sappiamo solamente che gli emissari mandati allo scopo di democratizzare i capoliveresi, trovarono in essi una ripugnanza invincibile alle nuove idee; e, corse offese da una parte e dall’altra, andarono debitori alla velocità delle gambe, della salvezza delle loro spalle» (12).

3. LA RICOSTRUZIONE «UFFICIALE» DI GIUSEPPE NINCI

Lo storico filo-giacobino racconta che, quando scoppiò il conflitto fra Regno di Napoli e Francia repubblicana nel 1799, nel corso dell’assedio stretto dai francesi alla piazza napoletana di Porto Longone, nell’aprile dello stesso anno, i capoliveresi «[…] passati ai campi francesi, invitarono gli assedianti di portarsi a Capoliveri per approvisionarsi, e che, per contrario, massacrarono. Il tradimento di questi, però, non andiede impunito; imperciocchè il generale Miolis [sic], passato da Livorno a Portoferraio e che comandava le forze francesi nell’Elba, spedì il giorno appresso [9 aprile] a Capoliveri un mezzo battaglione di fanteria, con l’ordine di saccheggiare quella terra, e passare a fil di spada chi si fosse opposto con le armi in mano» (13). Nel mese seguente, perdurando l’assedio di Porto Longone, la situazione ebbe un’evoluzione, nel senso che i francesi tentarono di pacificare gl’«insurgenti» (14), anche perché, dalle altre parti dell’isola, si erano manifestati contemporaneamente altri focolai di contro-rivoluzione, che rischiavano di mettere in difficoltà i giacobini.

In un primo tempo, i capoliveresi, rispetto agli altri moti reattivi, si mantennero neutrali, ma, secondo Giuseppe Ninci, «[…] non fu però, che i capoliveresi mancassero di maleanimo contro i francesi, ma solo non si mossero per non troppo arrischiare alla scoperta, imperocché, armatisi i medesimi, e ben postati alle finestre delle loro abitazioni, riceverono a colpi di fucile un picchetto francese, che ai loro nuovi inviti si era portato ad approvvisionarsi a Capoliveri. Questo secondo, non men del primo marcato tradimento per parte dei capoliveresi, meritossi la giusta vendetta delle truppe francesi. Queste la fecero di fatti, imperciocché la mattina del dì seguente, portatesi in numero sotto Capoliveri, e circondatolo in un momento, vi entrarono a baionetta in canna, ponendo a morte tutti quei che si vollero opporre, e dando un sacco generale a quella terra non senza attaccare il fuoco» (15). 
 

4. LA VERITA’ STORICA RISTABILITA DA VINCENZO MELLINI PONÇE DE LEON

Il maggiore storico elbano ricostruisce la vicenda in altri termini, partendo dal fatto che Capoliveri nell’aprile del 1799 fu occupata da un presidio di circa 60 francesi, sloggiato successivamente, nel maggio, dai soldati napoletani di Porto Longone. Questi uomini, fuggiti da Capoliveri, si unirono alla colonna francese inviata contro Capoliveri con l’ordine del comandante francese di mettere Capoliveri a ferro e a fuoco e di ritirarsi successivamente a Portoferraio: «[…] quell’orda di feroci predoni più che soldati, giunse silenziosa nel cuore della notte a quel castello; lo investì improvvisamente da tutti i lati, ne sorprese gli abitanti che dormivano quieti e tranquilli nei loro letti e tutt’altro pensavano che dar piglio alle loro armi che non avevano, ed a scontare con il sangue le strette di mano scambiate con loro compatrioti a servizio di Napoli, e vi cominciò un sacco così tremendo, da far dimenticare l’altro del 6 di aprile che durò dal giovedì notte a tutto il lunedì veniente […]. Sacerdoti, vecchi, donne, e fanciulli, massacrati, donne violate nelle pubbliche vie e persino in chiesa, bambine stuprate, chiese profanate, oggetti consacrati al culto, sacrilegalmente rotti, rubati; immagini sacre guaste e deturpate; case completamente svaligiate; mobili preziosi a calciate di fucili infranti; quadri di famiglia sciabolati; botti di vino, a spillarle a colpi di fucile, forate, lasciandone scorrere il liquido per le cantine, per le vie; orgia dovunque; e il paese ridotto prima ad un pianto, poscia ad un deserto. Non mancò che il fuoco a compiere l’opera nefanda ed a distruggerlo» (16).

Fra gli episodi più raccapriccianti c’è la morte, il 23 maggio 1799, di don Antonio Becci, anziano prete di antica famiglia capoliverese, da tutti conosciuto per le sue virtù, assassinato a colpi di arma da fuoco e di baionetta, per aver alzato la voce contro i violatori delle donne e delle bambine in chiesa e nelle pubbliche vie (17). Il limite tragico e grottesco di questa come di altre vicende è delineato da un episodio che ha inciso sulla memoria storica di Capoliveri e dell’Isola d’Elba in modo irrimediabile: la distruzione dell’archivio dell’antichissimo municipio. Il cancelliere della cittadina, certo Luigi Bracci, nella notte tra il 23 e il 24 maggio 1799, mentre i francesi imperversavano, temendo la loro ferocia, «[…] tolse i libri e le filze di maggior interesse dagli scaffali, e, favorito dalla vicinanza del Palazzo Pubblico alla Chiesa Parrocchiale, li portò a nascondere alla sepoltura degli uomini. Vi si calò dentro e poscia, sui libri e su se stesso calò la lapide che la chiudeva» (18). Poco dopo, la Chiesa fu invasa da donne, vecchi, e fanciulli che cercavano scampo pensando che la sacralità di quel luogo avrebbe fermato i francesi, che invece li inseguirono anche lì per depredarli. A questo punto il Bracci, non si sa per il fetore della sepoltura o per la paura, o per la curiosità delle grida udite, sollevò un poco con la schiena la lapide. A questo punto, i soldati francesi, prima meravigliati e poi incuriositi, la scoperchiarono e tirarono fuori per il colletto il vecchietto ben vestito, scambiandolo per un ricco che aveva nascosto i propri tesori nel sepolcreto. E, non trovando invece niente altro che carte e ossa, furibondi, stracciarono e bruciarono tutte le carte e i libri ivi giacenti, prendendo a colpi di calcio di fucile il cancelliere e lasciandolo semivivo sul pavimento della chiesa. L’archivio di Capoliveri era stato risparmiato da tante guerre e saccheggi nei secoli passati, perfino dai saraceni e dai turchi.

5. CONCLUSIONI

Amore di verità impone di stigmatizzare le menzogne che vengano lapidariamente consacrate dai canali della storiografia ufficiale, anche se si tratta di piccoli episodi della vita quotidiana, di cui pure la storia si compone. Grazie a Dio, spesso la grossolanità delle bugie nel racconto storico è tale da trasparire e da fare scoprire di suo l’imprecisione del relatore. Anche in questo caso, lo storico filo-giacobino, e giacobino egli stesso, Ninci cade in un insuperabile imbroglio, quando omette di citare la presenza dei francesi in presidio a Capoliveri dal 6 aprile, e omette altresì di menzionare la data del saccheggio del 22 maggio, giorno del Corpus Domini, che lasciò gli abitanti senza alcuna difesa, prostrati dal dolore e dalla falcidie di anime. Semplicemente afferma che l’inazione dei capoliveresi fu data dalla loro ignavia, pur sapendo gli stessi, che i napoletani necessitavano di appoggio dalle popolazioni territorialmente vicine. Un’altra menzogna del racconto di Ninci sta nella descrizione del saccheggio e della strage, che secondo lui avvenne in pieno giorno, così che la popolazione avrebbe potuto respingere l’attacco, mentre in realtà l’assalto fu proditoriamente effettuato nella notte del 22 maggio, quando i capoliveresi giacevano nel sonno. Da ultimo, il fantomatico invito rivolto dai capoliveresi ai francesi — appena scacciati o ancora di presidio! — di andare ad approvvigionarsi presso gli assediati, per poi aggredirli con fucili di cui già non disponevano più a causa del saccheggio subito. Non è chi non veda una profonda ingenuità, assai poco probabile, da parte dei francesi che sarebbero di certo caduti in un agguato, dal momento che il contrasto infuriava in quei giorni tra l’una e l’altra fazione. Vero è, purtroppo, che i contemporanei dei fatti, come in tutti questi frangenti accade, si distinguevano in due categorie: coloro che, come i capoliveresi, per essersi mantenuti fedeli ai propri principi, vennero passati a fil di spada fra atroci sevizie, e chi, come certi storici svelano con il proprio oscuro lavoro di ricostruzione, si fa corifeo del dominio straniero, volendo la sottomissione o, in caso contrario, lo sterminio di chi la pensava diversamente, appoggiandosi alle baionette straniere.

Benedetto Tusa

Note

(1) Situata sopra un monte spianato in vetta ed elevata a m. 167 sul livello del mare, è posta nella parte sud ovest dell’Isola. Fondata, si dice, da liberti o da adoratori «libertini” del dio Bacco, «Caput Liberum» era abitata da una popolazione con marcati caratteri di autonomia, la cui istituzione più eminente nei secoli è stata il «consiglio degli anziani» , organismo di governo con forti poteri legislativi e deliberativi.
(2) L’esistenza storica di San Cerbone non è del tutto certa; cfr. Piero Bargellini, Mille Santi al giorno, Vallecchi-Massimo, Milano 1980, p. 567.
(3) Cfr. Vincenzo Mellini Ponçe de Leon, Delle memorie storiche dell’Isola d’Elba, Tipografia Raffaele Giusti, Livorno 1890, vol. V, rist. a cura di Gianfranco Vanagolli, Le Opere e i Giorni, Roma 1996, pp. 92-93.
(4) Cfr. ibid., p. 77.
(5) Cfr. ibidem, ex archivio Mellini Ponçe de Leon, cit. in Enrico Lombardi, Santuario della Madonna del Monte di Marciana nell’Isola d’Elba, a cura dell’Opera del Santuario, Queriniana, Brescia 1964, p. 77, nota 125; cfr. anche Idem, Vita Eremitica nell’Isola d’Elba, Queriniana, Brescia 1957, pp. 51-52, e A. Ripabelli, S. Paolo della Croce all’Isola d’Elba, in Corriere Elbano, 10-9-1975 e 20-9-1975.
(6) Per il quadro generale della situazione elbana nel 1799, cfr. 1799: l’Insurrezione popolare contro-rivoluzionaria dell’Isola d’Elba, in ISIN, Nota Informativa, anno II, n. 5, gennaio-aprile 1997, pp. 3-10.
(7) Cfr. Giuseppe Ninci, Storia dell’Isola d’Elba, Portoferraio (Livorno) 1815, rist. anast., Forni, Bologna 1968.
(8) Ibid., pp. 215-216.
(9) Maggiore storico dell’Isola, nacque a Marina di Rio, nel 1819; il padre, Giacomo, era stato un ufficiale al seguito di Napoleone. Laureato in giurisprudenza e in scienze naturali, rinunciò alla carriera universitaria per vivere sulla sua isola e studiarne la storia e le tradizioni. Fu anche sindaco del suo paese natale e direttore delle miniere di ferro dal 1871 al 1891, senza però smettere di esplorare archivi e biblioteche. La sua opera maggiore sul periodo del triennio giacobino (1796-1799) è il quinto libro — intitolato I francesi all’Elba —, della sua Storia (Giusti, Livorno 1890). Morì a Livorno nel 1897. Per una più completa notizia bio-bibliografica, cfr. V. Mellini Ponçe de Leon, op. cit., pp. VIII-IX, da cui sono state tratte anche le seguenti notizie. Cfr. anche Alessandro Canestrelli, Elba, un’isola nella storia, Litografia Felici, Ospitaletto di Pisa (Pisa) 1998, pp. 20-23.
(10) V. Mellini Ponçe de Leon, op. cit., p. 33.
(11) Ibid., p. 38, nota 32.
(12) Ibid., p. 33.
(13) G. Ninci, op. cit., p. 217.
(14) Ibid., p. 219.
(15) Ibid., p. 220.
(16) V. Mellini Ponçe de Leon, op. cit., pp. 171-172.
(17) Ibid., p. 172.
(18) Ibid., p. 173. sto



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