Alta Terra di Lavoro

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IL SAN PAOLO DI PASOLINI: UNA PROFEZIA DEI NOSTRI TEMPI ?

Posted by on Giu 3, 2016

IL SAN PAOLO DI PASOLINI: UNA PROFEZIA DEI NOSTRI TEMPI ?

in italia le persone non allineate sono molto scomode se poi sono dotati di particolare intelligenza lo sono ancora di più ma se poi si chiamano pier paolo pasolini, cattolico, marxista ed anche omosessuale allora si scatena un putiferio e siccome a me piace provocare e a molti il personaggio non piace allora pubblico di nuovo un articolo che ne parla. Soltanto per come amava napoli e per la bellissima poesia sulla terra di lavoro merita il mio grande rispetto. di seguito un articolo con le fonti.

counterpunch.org –

L’opposto della religione non è il comunismo. L’opposto della religione è il capitalismo (senza regole, crudele, cinico, puramente materialista), la causa dello sfruttamento di esseri umani da parte di altri esseri umani, culla del culto del potere, orrenda tana del razzismo.” – Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini (1922-1975), disse che era credente perché fu blasfemo. Intendeva dire che fu tale in un film su San Paolo. (Nelle sue intenzioni) il film sarebbe dovuto essere religioso, spiegò, perché “nei sacri riti antichi, come in tutte le religioni contadine, ogni benedizione è pari a una maledizione”.

 

La sceneggiatura, che scrisse tra il 1968 e il 1974, non fu mai portata sul grande schermo, in parte perché il Vaticano (che peraltro, gli aveva assegnato un premio per Il Vangelo secondo San Matteo, un film del 1964), attaccò il suo film Teorema, del 1967, (narrante) la storia di un Dio che discende in terra in una tradizionale famiglia borghese, vicino a Milano. Egli ne seduce sessualmente i membri – padre, madre, figlia, figlio, e la domestica – e poi li lascia. Le conseguenze di questa seduzione e di questo abbandono sono tragiche: il suicidio, la promiscuità, la follia, e il miracolo, a rischio della vita, della levitazione della cameriera da un alta balconata. Trasformazioni ontologiche radicali. Il padre, deciso a togliersi la vita, sale nudo su una collinetta, che i Milanesi chiamano “la montagnetta”. Ricoperta ora di fogliame, la collina è costituita dalle macerie accumulatesi durante i bombardamenti alleati su Milano, nella seconda guerra mondiale.

In Vaticano (il film) non piacque. Il suo organo di stampa, l’Osservatore romano, scrisse che in Teorema il diavolo (in persona) aveva visitato la famiglia per cui, guardarsi bene dall’andare a vedere il film al cinema. Effettivamente, nella sua raffigurazione del venir meno delle convenzioni sociali e dell’abbandono alle passioni, il divino era rappresentato da un dio Dionisiaco in una manifestazione apocalittica, ovverossia la rivelazione. Non si poteva essere così imperdonabilmente blasfemi da far annunciare il messaggio della rivelazione da un dio pagano. Così, il San Paolo di Pasolini divenne una vittima di Teorema e non fu mai portato sul grande schermo.

Ma noi abbiamo la sceneggiatura. Tradotta magistralmente e con un’eccellente introduzione di Elizabeth A. Castelli, pubblicata dalle edizioni Verso con una prefazione di Alain Badiou, il “San Paolo: una sceneggiatura” di Pasolini, rappresenta, nelle parole di Badiou, “un lavoro letterario di primaria grandezza”. La domanda principale che porta al cuore del problema è: può ogni ideale rivoluzionario (nel caso specifico, il Cristianesimo, NdT), sopravvivere alla sua istituzionalizzazione?

Come acutamente osserva Badiou:

“La sceneggiatura dovrebbe essere letta non come un opera incompiuta come in effetti fu, ma come il manifesto sacrificale di ciò che costituisce, qui come altrove, la realtà di ogni Ideale (e cioè): l’apparente impossibilità della sua (effettiva) realizzazione.”

In una sorta di testamento spirituale, pubblicato postumo, Pasolini scrisse:

Ogni religione formale, nel senso che la sua istituzione è diventata ufficiale, non solo non è necessaria per migliorare il mondo, ma addirittura lo peggiora.”(1)

Per Pasolini, il Cristianesimo, nel suo contesto originale è stata una positiva forza sociale, opponendosi allo schiavismo e cambiando (per sempre) l’Impero Romano, ma, come la sceneggiatura fa chiaramente intendere, si trattò di una breve fase rivoluzionaria fra due diritti, la legge imperiale dell’antica Roma e la nuova legge imperiale della chiesa Cristiana. In questo interregno quando “il vecchio non è ancora morto e il nuovo non è ancora nato” (Antonio Gramsci) è possibile dar vita ad una (vera) democrazia popolare in una società comunitaria.

Ci sono voluti quarant’anni perché la tesi provocatoria di un Cristianesimo sovversivo riaffiorasse con forza nella comunità degli studiosi. Ed è un peccato che Pasolini non portò mai su celluloide il suo San Paolo perché la sua analisi del primo Cristianesimo inteso come forza scardinante la dominazione Romana è centrale per una rivoluzionaria comprensione del Cristianesimo pre – istituzionale.

Oggigiorno, la tesi pasoliniana di un Cristianesimo anticolonialista, emergente dai domini orientali dell’Impero (Antioca fu la terza più importante città dell’Impero Romano) avrebbe aperto nuovi scenari negli studi tradizionali Paolini. Nel corso degli ultimi trent’anni, i ricercatori e i teorici postcolonialisti (2), le femministe e gli studi di antropologia politica hanno insistito sull’importanza del contesto storico nella lettura delle Lettere di San Paolo. Già ai tempi di Pasolini, il revisionismo incalzava. Nel 1962, uno studioso svedese di San Paolo, Per Boskow, pubblicò uno studio: “Rex Gloriæ. La regalità di Cristo nella Chiesa primitiva” (edizioni Stockolm: Almquist and Wiksell, 1962), che ipotizzava che le prime forme nascoste di rivolta (verso Roma) erano da ricercarsi nei primi culti e rituali cristiani. Un San Paolo (seppure discretamente) compromesso nei giochi politici dell’Impero avrebbe cozzato contro la tradizione Protestante che lo vedeva, altresì, come l’apoteosi dell’uomo religioso (pio), “l’uomo di fede”, (e questo) fin da quando Martin Lutero trovò nelle lettere di San Paolo ai Romani la sua personale “giustificazione nella fede” per rompere con la Chiesa di Roma.

Il ritrovato interesse in San Paolo nel dopoguerra, comunque, non poté, (suo malgrado), dissociarsi dagli interrogativi sempre più incalzanti riguardanti le responsabilità della Chiesa Cristiana nell’orrore del genocidio degli Ebrei europei – l’Olocausto. Particolarmente nella tradizione protestante, la conversione di Paolo (al Cristianesimo, NdT) è stata elaborata in antitesi all’Ebraismo. Per definizione, nel Cristianesimo, un Cristiano non è un Ebreo e dunque le origini di San Paolo nel Giudaismo sono state oscurate evidenziando (altresì) favorevolmente una (sua) personale e avvincente ricerca della salvezza in Cristo. Contribuì all’Olocausto questa versione Manichea della doppia identità di San Paolo – e, di conseguenza, della doppia identità del Cristianesimo?

L’impulso a leggere San Paolo diversamente dal canone tradizionale è così diventato un imperativo morale ed un compito storico. Gli studi esegetici rivelanti forme di resistenza (verso l’Impero Romano) nel Nuovo Testamento cominciarono seriamente e diedero i loro frutti negli anni ‘80. A partire dai lavori pioneristici di Simon R. F. Price: “Rituali e Potere”, (trattante) il (tema del) culto nell’Impero Romano in Asia Minore. (Studiando le pratiche religiose) nelle città dove San Paolo si rese e predicò fino (ad arrivare) agli studi di antropologi politici come James C. Scott, Erik Heen e altri, avrebbe dovuto essere confermata l’idea Pasoliniana di presentare il Cristianesimo come un attore politico nel quadro conflittuale tra l’Impero e i suoi sudditi orientali e del mondo Greco. Sicuramente, mettersi al passo con questa rivoluzione (esegetica) degli studi Paolini ha pesato sulla decisione di tradurre e pubblicare per la prima volta in inglese questi testi vecchi di decenni.

Non possiamo essere sicuri che Pasolini abbia subito l’influenza dei tumulti teologici che covavano sotto la superficie degli studi Paolini nel mondo Protestante, ma quello che noi sappiamo con certezza è che, negli anni in cui lavorò al suo San Paolo (1968 – 1974), s’incontrò e intrattenne un regolare carteggio con un cordiale teologo in Vaticano, che doveva senz’altro essere informato sull’importantissimo svolta morale che stava attraversando la teologia Cristiana a causa dell’Olocausto. Gli interrogativi sul ruolo svolto dal Vaticano nell’indulgenza verso il Nazismo abbondavano, dopo tutto.

In tutti i suoi scritti dell’età matura, Pasolini accusò la Chiesa di essersi trasformata, all’inizio del 19° secolo,nel giocattolo di una borghesia religiosamente apatica, nello strumento della sua legittimità, in uno sforzo di sopravvivenza, forse, per seguitare a essere una efficiente istituzione compiacente i valori delle democrazie liberali introdotti dalle lotte sociali durante la Rivoluzione Francese. Nella visione di Pasolini, il compromesso della Chiesa con una cinica, secolare, avida e controrivoluzionaria borghesia ha rimosso l’anima dal suo corpo. Non stando più dalla parte degli oppressi, la Chiesa è diventata irrilevante. Anzi, più che irrilevante: è diventata criminalmente repressiva. Ma, è stato questo compromesso con la classe dominante un fatto a sé stante, oppure si tratta di una costante nell’evoluzione del Cristianesimo? E’ stato questo il verme che ha divorato il cuore della Chiesa fin dai suoi albori?

Naturalmente, è estremamente rischioso “chiudere l’argomento” sugli evanescenti, autodistruttivi, volutamente instabili, lavori di Pasolini. Facendo eco a Marx, (questi studi) urlano “domande su ogni cosa,” e in particolare sull’autore medesimo. La sceneggiatura appare essere lanciata in un furioso vortice dialettico di contraddizioni. Non appena si pensa di avere afferrato cosa Pasolini volesse dire, subito dopo la certezza non esiste più. La sofferenza di San Paolo, per esempio, tormentato e debilitato da una misteriosa malattia, sembra essere rappresentativa della sofferenza dell’umanità intera, costituendo la sua componente religiosa. La sua sicurezza nell’organizzazione delle comunità cristiane, risultato dalla sua alta condizione sociale, la sua educazione, la sua professionale (e retorica) formazione, costituiscono il suo lato attivo, energico, mondano. “Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” (San Paolo, Romani 7:14-25), implora San Paolo, riferendosi ai suoi bisogni corporei e ai suoi doveri verso Dio. L’agitazione mentale ed emozionale che il testo crea con queste contraddizioni (almeno in questo lettore, Luciana Bohne, NdT) deriva dai “più puri e provocatori effetti di Brechtiana alienazione”. Il film avrebbe intensificato questo effetto, ponendo la parola e l’immagine in un conflitto di significato sullo schermo. Tuttavia, vorrei azzardare una risposta: la sceneggiatura si sforza di confermare che il dilemma era lì fin dall’inizio. Il racconto negli Atti degli Apostoli della fondazione del Cristianesimo mistifica la storia. Pasolini fa un esempio: l’incontro della dirigenza evangelica in un evento conosciuto come “l’incidente di Antiochia”. Non solo San Paolo si era attirato l’inimicizia mortale dei fanatici farisei a causa dell’evangelizzazione della nuova religione, ma (si era attirato) anche l’opposizione di Pietro e dei suoi seguaci per aver convertito i “Gentili”, senza prima averli “giudeizzati” (cioè trasmettendo la Legge di Mosè).

Durante “l’incidente di Antiochia”, la sceneggiatura raffigura Pietro e Paolo in un faccia a faccia ravvicinato quasi venendo alle mani sulla questione della “giudeizzazione” dei Gentili. Luca, l’autore degli Atti (la storia della fondazione della Chiesa), appare distaccato, aristocratico, ironico, divertito dalla cacofonia di questo turbolento incontro che si trasforma in un cupo silenzio. Più tardi, nel suo studio lussuoso, Luca, spassionato, metodico, butta giù, nella sua “elegante scrittura”, una versione sterilizzata, il compendio di una soluzione amichevole alla planetaria disputa sul rapporto tra cristianesimo ed ebraismo, al termine del quale si alza dalla sedia e fa un rutto soddisfatto. L’Ebraismo si è dissolto. Luca è raffigurato come un consumato propagandista; Pasolini lo descrive come l’incarnazione di Satana. E a Satana, (presenza) invisibile, Luca, con tono dimesso (dirà): “La Chiesa è solo una necessità” (il corsivo su “solo” è di Pasolini). Per illustrare ulteriormente l’inaffidabilità di Luca, Pasolini gli dà un complice: Satana. Quando la Chiesa è tutto fuorché essere fondata, con l’incombente adesione di Timoteo alla diocesi di Efeso, Luca e Satana (quest’ultimo appare solo di schiena) brindano alla ” loro chiesa ” con una bottiglia di champagne: Bevono e si ubriacano, evocando tutti i crimini della Chiesa: una enorme lunga lista di papi criminali, di compromessi della Chiesa con il potere, di prepotenza, di violenza, di repressioni, di ignoranza, di dogmi. Alla fine, i due sono completamente ubriachi e se la ridono pensando a Paolo, che è ancora là fuori, in giro per il mondo, a predicare e a organizzare. In un tono rievocativo delle poeticamente splendide “bestemmie” del Faust dell’iconoclasta Christopher Marlowe, Pasolini racconta i pensieri di Satana: La Chiesa è fondata.

Il resto non è altro che una lunga appendice, un’agonia. Il destino di Paolo non interessa a Satana: si salvi e vada in Paradiso, in ogni caso. Satana e il suo sicario [l’eventuale assassino di Paolo, un picchiatore fascista che disprezza l’ideologia “anti – israelita ” di Paolo] ridono sarcastici, soddisfatti. Non solo il corso della Chiesa ufficiale, ma anche il destino di Paolo è segnato, non ci sarà più bisogno di evangelizzare; la Chiesa si farà carico “delle cure pastorali” e gestirà i suoi fedeli dai pulpiti delle ormai proliferanti Chiese.

Uno di queste è in Efeso, che Pasolini ambienta nella Napoli contemporanea. Mentre una voce fuori campo continua a far sentire la voce di Paolo comporre la sua lunga lettera a Timoteo, offrendo purezza, modestia, prudenza, continenza, gravità, pietà – tutte le virtù dell’umiltà che limitano l’orgoglio – la cinepresa ci mostra lo scandalo dell’orgoglio, del lusso, del potere di classe, dell’eccesso:

In grande pompa, ecco Timoteo, vestito letteralmente in oro, schiacciato sotto la mitra, quasi irriconoscibile. E tutt’intorno, il multicolorato e magnificamente carnevalesco coro degli altri prelati … Un gruppo di autorità: alti ufficiali, gonfi come tacchini nelle loro grandi uniformi; uomini politici, nei loro doppiopetto neri, con facce vecchie volgari e ipocrite; la folla delle loro dame ingioiellate e i loro servi, ecc , ecc. L’altare è incastonato in oro – un vero e proprio vitello d’oro – pieno di plateali ostentazioni barocche, un’opera di incredulità totale, ufficiale, minacciosa, ipocritamente mistica e glorificante, clericale, del maestro (Pasolini, NdT).

Ite, missa est. E’ finita, (resta ancora a) sbarazzarsi di Paolo, il cui zelo evangelico sembra essere inarrestabile e istituzionalmente imbarazzante. Il San Paolo (di Pasolini), come noto, è ambientato nel 20° secolo. I luoghi sono, dunque, modificati: Gerusalemme diventa Parigi, soprattutto durante l’occupazione nazista (i nazisti stanno ai romani; i farisei sono i collaborazionisti Petainisti e i francesi reazionari, di cui Paolo ne fa parte); Damasco diventa Barcellona, all’indomani della vittoria fascista in Spagna; Antiochia è la “razionale” Ginevra; Atene diventa la moderna, intellettualmente scialba, “dolce vit(osa)” Roma; e la Roma Imperiale è collocata a New York, il ventre della nuova bestia imperiale.

Dopo la conversione di Paolo alla Parola (del Signore) (per analogia, la Resistenza antifascista), che praticamente coincide con la fine della seconda guerra mondiale, i suoi viaggi evangelici lo portano attraverso tutta Europa, (un continente) ora in festa nel consumismo post-bellico. I suoi viaggi acquistano una caratteristica picaresca. In alcune delle scene più comiche e satiriche, (Paolo) predica assurdamente a un pubblico immorale: a Bonn, predica agli industriali, provocando una rivolta neo – nazista; a Ginevra, sconvolge gli imperturbabili simpatizzanti cristiani e potenziali benefattori con la sua eccessiva enfasi sulla continenza sessuale; a Roma annoia i suoi sonnecchianti e arricchiti ospiti con la sua retorica arcaica sulla fede Cristiana, mentre prima hanno ascoltato una mistica celebrità pop, simile a Krishnamurti; al Greenwich Village di New York, predica obbedienza alle autorità ad un sonnecchiante gruppo di ribelli neri, giovinastri strafatti di mariijuana, attivisti contro la guerra, femministe, e ai giovani e disperati profughi dall’entropia mentale ed emozionale della classe media di periferia. Anche qui, (Paolo) provoca una rivolta, nella quale la polizia interviene e lo arresta. Così, alla fine, se non altro per aver provocato le autorità e avere predicato male, bisogna sbarazzarsene. Pasolini lo fa uccidere (dal sicario di Satana, il fondamentalista pro – israelita picchiatore fascista) come Martin Luther King, sul balcone di un sudicio hotel nel West Side di Manhattan, l’esatta replica del Lorraine Motel a Memphis (dove Martin Luther King fu ucciso, NdT). Il suo sangue gocciola giù sul marciapiede e forma una “pozzanghera rosa”.

Gli eventi della vita di questo San Paolo cinematografico vanno dal periodo nazi- fascista al 1968, “l’era della falsa libertà, in realtà voluta dal nuovo potere riformista e permissivo, che è anche il potere più fascista della storia” (dalla postfazione di Ward Blanton; il corsivo è mio). In altre parole, fino al tempo del nostro fascismo liberale postmoderno (Pasolini effettivamente utilizzò il termine “fascismo liberale” negli anni settanta). Ma cos’è che a noi importa alla fine, (forse) questo antico crimine della Chiesa istituzionale? Anche prima della morte per sofferenza(3) del pio San Paolo – (alla fin fine) che cosa significa tutto questo? Per un intellettuale come Pasolini e la sua generazione di italiani anti- fascisti, non c’era (forse) una “fede” alternativa nel materialismo scientifico – nel marxismo? Ci sono dei passaggi nella sceneggiatura che mostrano ciò che Pasolini chiamava “l’ipocrisia del marxismo [istituzionale]”, un tema che già aveva elaborato ne “Le ceneri di Gramsci”, nel 1957. (Pasolini), per esempio, lamentava che gli intellettuali culturalmente borghesi del Partito comunista italiano (di cui lui faceva parte), fossero generalmente astrusi dalle masse e dai (suoi) amatissimi pasoliniani innocenti furfantelli che erano i giovani insignificanti criminali del sottoproletariato (dopo tutto non rubavano soldi pubblici, come (invece fanno) i rispettabili senatori e i politici), (gli intellettuali erano astrusi) dai contadini e dai lavoratori che, diversamente dalla borghesia, ancora riuscivano a sopravvivere grazie all’assistenza della solidarietà umana – del comunismo, religioso o scientifico. Infatti, la critica al marxismo istituzionale, al “partito”, ecc., corre parallela ed è analoga alla critica verso la Chiesa, (due istituzioni) entrambe fallite nel coltivare una cultura popolare proletaria da opporsi alle edonistiche, individualistiche, consumistiche e, infine, anti – umane perversioni ideologiche della neo – capitalista (sue parole) cultura borghese. E qui, devo per forza riprendere Gramsci, una delle maggiori e permanenti personalità che influenzarono Pasolini (uno dei primi fu Rimbaud). In senso figurato, di fronte alla tomba di Gramsci, (Pasolini) implora il suo maestro ne “Le ceneri di Gramsci”: “Mi chiederai tu, morto disadorno, d’abbandonare questa disperata, passione di essere nel mondo?”.

Antonio Gramsci (1891-1937), intellettuale marxista, teorico politico, sociologo della cultura, fu un membro fondatore del Partito Comunista Italiano e morì in una prigione fascista. (Gramsci) è meglio conosciuto per la sua teoria dell’egemonia culturale, che spiega come la classe al potere mantiene il suo status quo e lo perpetua attraverso le sue istituzioni culturali. Già Lenin aveva utilizzato il termine. Era una elaborazione di Marx ed Engels i quali sostenevano che “le idee dominanti di ogni epoca sono sempre state le idee della sua classe dominante“, sebbene l’Ideologia tedesca (opera di Marx ed Engels), scritta nel 1846-1847, non fu pubblicata fino al 1932 (e solo in Unione Sovietica). Se l’affermazione di Gramsci era vera, come avrebbe potuto affermarsi una rivoluzione proletaria se la coscienza di classe del proletariato era formata esclusivamente dalle istituzioni borghesi? Oppure, come potrebbe piuttosto una società di contadini e di lavoratori sostenere l’assalto del consumismo di mercato che annebbia la mente e che avrebbe condotto, a suo avviso, ad un “cataclisma antropologico” irreversibile trasformando le persone in cose, in un colpo solo sfruttatori e sfruttati, vittime e carnefici?

L’avvento alla metà degli anni ’50 del “boom economico” in Italia, l’accessibilità ai beni materiali, in particolare la televisione, ha causato l’immediato imborghesimento della vita quotidiana italiana, rappresentata satiricamente ne “La Dolce Vita” di Federico Fellini, “La speculazione edilizia” di Italo Calvino, “La noia” di Alberto Moravia e “L’avventura” di Michelangelo Antonioni. Il San Paolo di Pasolini, scritto negli edonistici anni ’60 e negli anni ’70, gli “anni di piombo”, la campagna terroristica condotta dai servizi segreti italiani – “lo stato parallelo” – in collaborazione con la CIA per far fare un salto indietro alla democrazia popolare, oggi suona come una profezia. Inspiegabilmente, come se ci vedessimo allo specchio, in un futuro non troppo lontano, Pasolini descrive una Parigi in preda al terrore di un “anti – terrorismo” nazista. Stefano, un giovane partigiano in una nascente resistenza, a malapena in età di arruolamento (come il fratello più giovane di Pasolini, Guido, partigiano, ucciso a diciannove anni in un imboscata nel 1945), viene fucilato dai nazisti. Paolo, in questa fase, uno zelante ufficiale, di fatto, una acritico collaborazionista delle forze di occupazione naziste, assiste all’esecuzione del giovane Stefano. Egli ne è angosciato, persino ossessionato, ma non (per questo) viene meno il suo zelo collaborativo verso gli occupanti nazisti. Essi sono la legge, e lui è un avvocato. Il suo dovere è quello di servire la legge. “Nel volto di Paolo” si legge nella sceneggiatura. Assistiamo a qualcosa di peggio del male: vediamo la bassezza, la ferocia, la decisione di essere abbietti, l’ipocrisia che motiva tutto in nome della Legge, della Tradizione – o di Dio. Tutto questo non può che rendere quel volto disperato, troppo.

Quello che segue la scoperta dell’attività della Resistenza e l’esecuzione di Stefano è un’orgia di crudeltà, che si estende fino ai limiti del genocidio e oltre. Partendo da una citazione, “Era come un segnale per la persecuzione” (Atti 6:1-8:3), Pasolini descrive come l’oscenità della repressione nazista debba essere rappresentata: Nuovo materiale documentario d’archivio. Ma questa volta (lo scenario) deve essere rappresentato nel modo più tremendo possibile, quasi insopportabile alla vista: arresti, incursioni, sparatorie, impiccagioni, deportazioni di massa, esecuzioni di massa, sparatorie nelle strade e nelle piazze, cadaveri abbandonati sui marciapiedi, sotto i monumenti, penzolanti dal lampioni, impiccati, impiccati. Le deportazioni degli ebrei nei campi di concentramento; vagoni pieni di cadaveri. Si aggiungano teste decapitate, bombe e ancora bombe tossiche, gli ospedali e le scuole bombardate. Droni killer. Rifugi antiaerei bombardati. Assedi in stile medievale (chiamati sanzioni) esigere le vite di 500.000 bambini (un record). Due, tre, molti Abu Ghraib: uomini trasformati in cani, l’osceno sadismo della più grande democrazia del mondo. Aggiungiamo a tutto questo molto altro, e vediamo nelle immagini d’archivio dell’era fascista l’immagine dei nostri tempi.

C’è ancora qualcuno che dubita che il San Paolo di Pasolini non sia stata una profezia?

Luciana BOHNE è cofondatrice del Film Criticism, un giornale di studi sul cinema, e insegna alla Edinboro University in Pennsylvania.

 

 

 

 

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