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IN MEMORIAM Gerardo Marotta di Fernando Di MIeri

Posted by on Feb 8, 2017

IN MEMORIAM Gerardo Marotta di Fernando Di MIeri

Era il 1975. Ricordo nitidamente l’impressione che, allora giovane studente di filosofia, provai nel sentire dell’Istituto Italiano di Studi Filosofici, appena fondato da Gerardo Marotta. Napoli poteva tornare finalmente al centro del dibattito filosofico internazionale. Per molti anni quell’Istituto, a cui Marotta aveva destinato somme cospicue del suo non trascurabile patrimonio, è stato generosamente sostenuto dai più vari enti pubblici. Ha ospitato molti tra i nomi più prestigiosi della cultura contemporanea, da Popper e Derrida a Levi-Montalcini e Gadamer, ottenendo riconoscimenti prestigiosi. Ben presto, però, si notava il carattere fortemente orientato delle posizioni culturali di Marotta, che si riflettevano inevitabilmente sulle scelte adottate dalla sua creatura.

Ne è seguita, da parte mia, una disillusione risultata molto più cocente proprio perché posteriore ad una speranza forte della sua ingenuità. In ogni caso, restava la grandezza di un’iniziativa, che suscitava l’ammirazione del mondo. Ora, però, che è possibile fare dei bilanci, non so se i risultati ottenuti siano stati corrispondenti alle energie, materiali e morali, profuse.

Marotta è scomparso il 25 gennaio scorso. Ne parlo solo ora, proprio per proporre una riflessione più ragionata. Ho avuto modo di incontrarlo solo occasionalmente, a Vatolla, da coordinatore di una scuola estiva sui diritti umani, che, nella mia qualità di presidente di un’Istituzione comunale, avevo organizzato in collaborazione con l’Istituto. Non ho, quindi, nulla da offrire per arricchirne la memoria. Intendo solo cogliere qualche punto dell’eredità morale, che egli ci lascia. Devo dire, fin da subito, che di quella eredità posso apprezzare soltanto una certa coerenza e, soprattutto, la dedizione ai suoi propositi. Non altro.

Nato nel 1927, nel secondo dopoguerra Marotta faceva parte di quella generazione di rampolli della borghesia napoletana, che cercava nel PCI la possibilità di elaborare progetti di ricostruzione, storicamente significativi per la Repubblica appena costituita. Era fra gli animatori di Cultura Nuova e del Gruppo Gramsci. Aveva un pensiero organico? Probabilmente no. Sicché forse ha ragione Gianni Ferrara, quando scrive che Marotta era un po’ tutto: marxista e giacobino, utopista e illuminista. Tutto questo, si potrebbe aggiungere, confluiva in lui, e tratti di questo tutto prevalevano con maggior forza a seconda del periodo. Quello che è rimasto poi costante, pur se non sempre ben definito, è il giacobinismo difeso fino alla fine.

Marotta coltiva, dopo l’espulsione dal PCI avvenuta nel 1954, per lunghi anni la sua professione di avvocato, specializzato in espropriazioni, finché non decide di dare voce alla sua vocazione civile, proprio fondando l’Istituto già citato. E’ il 1799, quello dei rivoluzionari, paradigma di una visione di civiltà (e ovviamente di anticiviltà, quella borbonica e dei lazzari), che costituisce il suo riferimento forte. E con quel 1799 tutta la linea del progressismo napoletano.

Sono posizioni, quelle di Marotta, da cui mi sento abissalmente distante, legato come sono alla tradizione cattolica e, più nello specifico, scolastica. E’ inutile intervenire su questo, sul suo laicismo radicale proprio ora che ha lasciato questa terra. C’è un tratto di Marotta, tuttavia, su cui non posso non manifestare tutte le mie perplessità: il trattamento che riservava a movimenti, periodi e personalità, che non si muovessero entro gli ambiti di tolleranza o di valorizzazione che egli stesso definiva. Autori come Colangelo, Fergola, Capocasale, De Grazia, Parascandolo, Sanseverino, Liberatore, Prisco, Talamo ne risultano sostanzialmente ignorati, o da contestare e poi ignorare, nonostante il ruolo ricoperto nella storia culturale della città e, spesso, di tutto l’Occidente..

Marotta, in questo buon illuminista, mancava di ogni serenità, dimostrando, se mai ce ne fosse stato bisogno, che al di sopra della sua città, egli amava l’ideologia. Gianni Ferrara, nel suo intervento commemorativo, ha scritto di come entrambi, al tempo della loro formazione universitaria, rifiutavano e lottavano “ogni residuo pur marcescente, ma mai sradicato di plebeismo borbonico, di fideismo dei lazzaroni del cardinale Ruffo, di borghesia trasformista, di nobiltà parassitaria” (Il Corriere del Mezzogiorno, 29 gennaio 2017). Già il linguaggio rivela la spocchia di certa borghesia napoletana, che si sente illuminata e adatta a giudicare ogni cosa. E questi ambienti continuano ad usare, in barba ad ogni “politically correct” che rivendicano per sé, un linguaggio di disprezzo nei confronti dell’avversario storico o attuale, che viene demonizzato ed archiviato fra i mali della storia da schiacciare e, se schiacciati da dimenticare. E’ quanto è accaduto per i briganti del periodo immediatamente postunitario, ad esempio. E’ un atteggiamento che Marotta ha continuato a tenere fino alla morte.

Ed è qui che proprio non ci sto. Nella sua incapacità di vedere le ragioni difese da chi era su posizioni essenzialmente diverse (troppo facile accettare la diversità all’interno del laicismo e dell’immanentismo). L’esempio migliore, per restare proprio nel suo campo prediletto, rimane il 1799. In quel caso, i lazzari sono i veri eroi, essi che lottarono e morirono pro fide et patria, quindi in nome di ideali concreti, quelli che animavano e davano un senso alla loro esistenza. Furono quei lazzari, morti a migliaia tra il ponte della Maddalena e Porta Capuana (bombardati non solo dal nemico francese, ma anche dagli stessi napoletani filo-giacobini), a far capire che il popolo vero non era in vendita, come tanta parte della borghesia o del patriziato cosiddetto illuminato. La dimostrazione sarà data poi dal coinvolgimento dei ceti più umili che la Santa Fede saprà poi suscitare ed infiammare.

E, se vale quel che è stato detto, che solo il sangue purifica davvero, ebbene quei popolani analfabeti e malvestiti in quei giorni indossarono una porpora molto più nobile di quella del sovrano fuggiasco. Eccolo, il “plebeismo borbonico”. Eccoli, i lazzari. Colpevoli di cosa? Di non aver ceduto alle lusinghe del nemico? Forse che a molti non era chiaro che i francesi invasori, al di là delle chiacchiere di cui si riempivano la bocca, erano pronti a tradire ogni ideale pur di portare avanti i loro interessi politici?. Ma quando mai s’era visto che la libertà arriva gratuitamente dagli stranieri? La lezione di Campoformio (ricordiamoci della disillusione foscoliana), con cui era stata barattata la libertà veneziana, era ancora ben viva nella mente di tutti. Non erano stati dimenticati gli eccidi della Vandea e della Bretagna. Non erano stati dimenticati gli oltraggi alla Fede e alla Tradizione. Nulla era stato dimenticato. Perché i lazzari avrebbero dovuto comportarsi diversamente e tradire la loro storia, i loro interessi, i loro valori? Ecco, Marotta (e con lui tutti gli altri laicisti) non ha mai fatto tesoro delle più importanti osservazioni critiche, neanche quelle del suo diletto Cuoco. Ovviamente, era troppo altezzosamente convinto delle sue tesi per tenere in qualche conto la saggistica filosanfedista, di Colangelo o Petromasi. Non solo, taceva o distorceva le conclusioni dell’aritmetica, implacabile ed incorruttibile come nessuno, secondo le quali le vittime ordinate dallo schieramento rivoluzionario furono tante di più di quelle volute dai sanfedisti o, addirittura, più di quelle volute dalla reazione, genericamente intesa.

Ecco, è il disprezzo verso queste nobili forme di impegno civile, guerriero, culturale che ha contraddistinto Marotta e che non mi riesce di condividere. Ma… la morte, signora delle cose terrene, ha ora steso il suo velo su di lui e a me non tocca altro che manifestare, deferente, la mia pietà, come ritengo doveroso nei confronti di tutti, soprattutto dei nemici ed avversari.

Fernando Di Mieri

 

 

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