Alta Terra di Lavoro

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LA FINANZA DEL REAME DELLE DUE SICILIE E LA PUBBLICA PROSPERITÀ

Posted by on Ott 18, 2018

LA FINANZA DEL REAME DELLE DUE SICILIE E LA PUBBLICA PROSPERITÀ

IN CONFUTATONE

Dell’opuscolo intitolalo i Bilanci del Regno di Napoli e degli Stati Sardi 

con note e confronti di A. Scialoja.

PER NICCOLA ROCCO

(Articolo estratto dal Giornale La Vinta)

 NAPOLI

STABILIMENTO TIPOGRAFICO  DEL CAV. GAETANO NOBILE

1858

Non si dubita, sì nell’ordine de’ fatti economici, si nell’ordine delle scientifiche speculazioni, che la finanza, e la prosperità pubblica d’uno Stato sien come gemelle, non si potendo ammetter quella e rinnegar questa.

 V’ha fra loro colai e sì intima relazione ch’elle s’includono a muta a muta, e con vicenda mirabilmente proficua il ben dell’una riflette sull’altra; e soppresse di si nobile amistà congiunte edificasi il vero ed immancabile progresso di qual che si sia nazione. E per quella logica ragion degli opposti, non fia possibile che il male e ’l pravo non si comunicasse fra loro con la stessa inesorabile necessità. Talmenteché dov’è un sistema di finanza ben istabilito, e sopra i veri principi della politica economia attemperato, ivi c’incontra di leggieri ritruovar la pubblica felicità, e il progresso ben inteso, che vorrem dire la civiltà d’un paese. Ché se e converso la finanza si fondamenti su di false basi, e frantesa nel suo indirizzo, per raccoglier il frutto ne venga isbarbando la radice, inutil fora isperar social meglioramento di sorta alcuna.

Ed a chi s’addentri nelle cose attenenti alla finanza si fa manifesto come e insino a qual segno lo storiai corso de’ finanziari instituti d’un dato popolo sia per molti rispetti la storia stessa del suo incivilimento. In su la culla delle nazioni, in quel vivere disgregalo de’ primi padri di famiglia, infra quelle tribù che tutta quanta componean la vita sociale di que’ tempi, non v’era che l’occupazione e la preda che avesser potuto sustener cotali piccole associazioni. Poco appresso, per la conquista ottenute più larghe terre, e meglio atteggiate alla coltura, la vita errante si soffermò in certi luoghi, ed un’ampia estensione di fondi e di boschi compose i primi demani; i quali e con le miniere e la pesca ed altre cose di simil guisa furono la prima certa rendita. Nell’origine delle monarchie d’Europa risappiamo essere state queste e non altre l’entrate del fisco. Così accadde in Inghilterra, così in Francia, così presso noi a’ tempi di Ruggiero e di Federigo. A lutto questo col processo del tempo si fé la giunta delle tasse o pene pecuniarie, le quali con larga mano riscuoteansi quinci e quindi, o per le offese a’ singoli cittadini inferite, ovvero ai baroni, o anco alla società intera. E si trasmodò siffattamente, che non v’era misfatto, il qual atroce che fosse non si castigasse mediante alcuna multa, che vai a quanto dir non si riscattasse mediante moneta. Quasi tutte le pene dell’età di mezzo erano di simil risma. Quest’era il dettato delle leggi gotiche, e delle ripuarie, e delle longobardiche, e di tutte le leggi barbare. E David Hume nella sua storia inglese discorrendo degl’irlandesi sotto il regno di Giacomo I. Stuart, nota altresì che ogni reato e l’omicidio stesso punitasi con ragion di multa ammisurata alla qualità dell’offesa persona. E ne ha tramandato a’ posteri il nome del capo d’una di quelle barbare tribù che al Lord Deputalo, il qual l’avvertiva di voler colà inviare un certo giudice, rispose che l’avesse fatto di buon’ora consapevole del prezzo del capo di lui, per poterne immantinente raccome l’importo nella sua Contea se per a caso talun de’ suoi vassalli si fosse indotto a troncarlo. E la finanza per cotal modo taglieggiando le persone, alla giustizia si togliea ogni fondamento di verità, e al viver civile qualunque sicurtà.

Si principiò a meglio coltivar le terre e le arti e le industrie, crebbe pur un poco l’interno e l’esterno commercio, e però una novella sorgente s’aprì alle pubbliche rendite la mercé de’ balzelli in su l’uscita e l’entrata delle merci e delle manifatture. Se non che, per mezzo de’ pedagi e per tanti diritti proibitivi che s’immaginarono, si vennero tostamente come ostruendo le scaturigini d’ogni pubblica prosperità. Ma lé civili società facendosi ognor più splendide, e le spese dello Stato cresciute in rispondenza de’ nuovi bisogni, é «istituiti man mano gli stabili eserciti, fu giuocoforza di venirne al sistema delle contribuzioni, or volontarie, or forzose; e queste ultime quando in forma di testatico, e quando determinate in ragion de’ frutti della terra, onde le quinte le decime e via discorrendo; A’ tempi del primo Alfonso aragonese, appo noi, tutta l’allor iscarsa finanza s’incentrò in un sol balzello, cioè il ducato per fuoco, senza far la cerna del povero e del ricco; laudandosene con grassa ignoranza e la semplicità e l’agevolezza. E per arrota, v’andava annessa la pena del doppio sempre crescente per ogni dieci giorni di negletto pagamento dopo la scadenza, sicché la gravezza s’involveva nell’indefinito e nell’assurdo. Poco stante, surse il sistema di spesso spesso tendere certi gradi di nobiltà, e fin certi balzelli, e talune regalie dello Stato, e si trovò altro modo come augumentar la finanza.

Esaurite per tante ed isvariate vie le sorgenti della pubblica ricchezza mediante gravezze, le quali direttamente l’infestavano; si pensò alle prestanze, onde nacque il debito pubblico, in su le prime ipotecando la proprietà dello Stato, e per manco di quella, la pubblica fede.

Da tutte queste accennate cose, a chi acutamente indaga, di leggieri si fa palese insino a qual punto la finanza dello Stato e la condizione del benessere generale fossero fin da remoti tempi state congiunte, e qual non dissociaci legame s’intramettesse fra loro. Se la società era per assai versi bistrattata, e da molte cagioni pur ripeter ’si doveano i malori che l’affliggeano, certo che inesauribile e precipua causa di ogni sventura pubblica e privata s’era il metodo finanziario, il quale procedea a ritroso di quel che n’addita la scienza e  ‘l comun senso, vai quanto dire che in luogo di crescer la nazional ricchezza per augumentar di rimbalzo l’entrata dello

Sialo, si pensava a disseccar quella con tante gravezze irrazionali e insopportevoli. Le dottrine economiche poco o nulla riconosciute, il disordine in tutte le branche dell’amministrazione, ed una ignoranza inveterata in iscorgere i rapporti dei fatti sociali erano a quella stagione tante cause e permanenti della pessima economia degli Stati.

Ondeché, essendo la finanza e ‘l metodo di quella il principal elemento delle condizioni sociali, possiam con agevolezza didurne, che quanto c’incontri al di d’oggi di rinvenirla in buono stato non s’abbia da istupir se le altre sieno in fiore. Épperò non sono né solide né sensate le meraviglie che si van trombettando intorno al grado di generai prosperezza d’un paese, che per ritruovarsi precedente, ad investigarne le alte ed economiche e dottrinali ragioni, s’invoca il corso degli avvenimenti estraordinari, e fin delle fortuite combinazioni, ed altrettali parole insignificanti, e non so quante altre ombre e fantasmi s’adoperano muti d’ogni luce, e d’ogni valor scientifico sforniti. E fin si dice che quel Governo, il qual regge e modera i destini d’un cotal paese, dovesse più che ad ogni altro Iddio, sagrificar alla Fortuna, da cui tanto ben s’ebbe.

Un somiglievol argomento a trattar ci presta un’opericciuola non é guari pubblicata nella parte subalpina d’Italia col titolo. — I Bilanci del Regno di Napoli e degli Stati Sardi con note e confronti di A. Scialoja. — Il che noi siam di credere di poter fare agevolmente e per sommi capi, tra per essere la parte dottrinale frantesa per tanti rispetti, tra per i fatti inconcussi che son da esaminare.

L’autor di quel libro intende dunque ad istituir un paragone esatto ed incessante della finanza del Regno di Napoli e degli Stati Sardi, comeché poi egredendo per tante vie s’implichi, e incespichi, e fin ismarrisca il suo proposto, e ne vada piaggiando certi punti di politica, addivenuti ornai vieti e alquanto noiosi, per il dir e ridir mai sempre le stesse cose appoggiate alle medesime mal ferme opinioni e a fatti insussistenti é chimerici, Tenendo noi ben altro contegno procàccerem d’aderir all’argomento, e dimostreremo come il progresso del sistema finanziario del Reame delle due Sicilie sia camminato di conserva, e d’egual passo che la prosperità dello Stato, che ambedue queste cose si stringano d’alleganza indissolubile, e che la condizione avvantaggiata e fiorente ed invidiata di questa in iscambio d’esser dipendente e come in balta della girevole ruota della fortuna, sia l’opera salutevole della provvidenza del Governo, lumeggiala dalle dottrine più sicure che ne porga la scienza, è fermamente e coscienziosamente voluta dal Re sapiente Ferdinando II.

Erari già posto mano ad assestar la napolitana finanza fin dall’epoca della restaurazione quando la Dinastia felicemente regnante riconquistò il Reame sotto Ferdinando I. E un cotal sistema immaginossi, il qual fosse sul social benessere fondato, e dalla miglior condizione di questo si volle derivare l’ubertosità di quella. Quindi i commetti interni ed esterni, e le arti e le manifatture, le speculazioni industriali e mercantili d’ogni guisa si posero tutte quante in movimento, e in consuonanza con l’entrate dello Stato. E l’opera perfezionativa camminava con tale e sì gran celerità, da parere mirabile a chi non riconoscesse la forza congiunta del buon volere e del potere della civil monarchia, riconfortata del sussidio delle utili e nobili scienze. Il quinquennio tracorso dal 1815 ai 1820 con tutti i copiosi monumenti di politica sapienza, di che ridonda, è, e sarà mai sempre ammirato dall’età presente e dall’avvenire. Ma gl’improvvisati e retrivi avvenimenti consumati fra il 1820 al 1821 furono la prima mal semenza che aduggiò in su l’albore un progresso immancabile e celere. È risaputo come il debito pubblico sul Gran Libro, che poco stante non aggiugnea se non che a soli annui ducati 1,420,000: fa di balzo traportato all’enorme cifra di ducati 5,190,850. E queste ed altre sciagure stampate in questo bel suolo in quelle nove lune infaustamente su di noi splendute, non era possibile che non si fossero risentite per lunga pezza, e con tenore ognor incalzante.

L’arrivo auspicato dell’Augusto Monarca Ferdinando IL al Trono del Reame delle due Sicilie fu il principio d’una età novella, l’augurio;d’un avvenire migliore, che per tanti rispetti ci è tocco di veder effettuato. Fu desso che rinvenne il primo remedio ad una piaga che reputavasi di non facil guarigione fin da’ sommi politici della preterita amministrazione, e cominciò con torre di mezzo quel verme, che più fieramente quanto men avvertiti n’eran i suoi pestilenti influssi, ne rodea le viscere dello Stato, vogliam dire il debito fluttuante aggiunto nientemen che a ducati 4,345,000. La civil prudenza del Re per isvariate vie attesa ad alleggiar le imposte, e ad isminuir il debito pubblico, ben si divisava onde avesse dovuto principiar il lavoro di ristauro d’una finanza, ch’era pervenuta nelle sue mani si bistrattala da’ politici rivolgimenti, e sua precipua cura si fu di far quanto prima iscomparire quel debito galleggiante e tuttodì crescente. E si grande fu il suo buon volere, che in men che non si credesse, dagli stati discussi ne rimase quello tutt’ affatto cancellato. Con lena incessante si continuò sempre in questo nobil aringo dell’ammortamento del pubblico debito, e dopo d’essere stato estinto quello delle lire sterline Anglo-Napolitane, s’addissero al fin medesimo dell’estinzione somme soprammodo rilevanti col metodo del sorteggio.

E se ci volgiam a’ dominii insulari, quella tesoreria con sollecitudine inversa degli stessi suoi creditori ne venne liquidando i suoi debiti, e gran porzione fra brevi periodi copiosamente satisfacendone, si sollevò a tale la fede pubblica in quella parte del Reame, che quando ne’ preteriti tempi i creditori dolorando la loro sorte quasi non nutrivan più speranza di riaver né i loro capitali né gl’interessi; d’allora in avanti estimavasi colui più avventurato che n’avesse potuto venir ischivando il pagamento del suo credito. Cosi puntualmente eran corrisposti gli annuali interessi! E cosi rigoglioso venne su il credilo dello Stato! S’estinse al pari il debito d’un milione di once, e quello d’un milione di ducati per le strade, e de’ ducati cencinquanta mila presi a prestito anco per lo scopo stesso delle strade.

La diminuzione de’ debiti della finanza non è pur un gran bene per sé stesso, e nel rispetto delle pubbliche spese iscemate, e nel rispetto del valor numerario che si pone in circolazione. Ma ne dee produrre pur un altro vantaggio all’universale, cioè il rispondente alleviamento dell’imposte, e questo segnantemente s’effettuò appo noi con celerità incredibile. Negli Stati continentali fu sminuito prestamente e per metà il dazio fiscale sul macino disposto con decreto del 28 maggio 1826. S’aboli intieramente il gravoso balzello su la rivela de’ vini, e quel de’ sei carlini a botte ne’ casali di Napoli, come rilevasi dal decreto del 26 di agosto 1833. E con altro decreto del 21 di novembre 1846,favoreggiando opportunamenle l’esportazion dell’olio di oliva, ne fu notabilmente isminuito il dazio d’estrazione. E nell’Isola con decreto del 22 marzo 1832 fu tolto il dazio di grana 4 a rotolo su la carne, sol eccettuati i capiluoghi delle provincie. Co’ decreti del 17 di dicembre 1838 e del 27 luglio 1842 s’apportarono utili innovazioni sul dazio fiscale del macino, col primo facendosene Una riduzione, col secondo rendendo men gravosi e semplificando i metodi d’esazione, meglio cosi provvedendo all’interna circolazione.

L’atto Sovrano del 13 di agosto 1847 contrassegna una dell’epoche più felici del Reame delle due Sicilie. I commerci e le industrie s’allietarono di più larghi mezzi d’indirizzo a prosperosi successi, e 1 buon governo politico di Ferdinando II. isfolgorò di nuova e non peritura gloria. Al di quà del faro s’abolì il dazio fiscale sul macino, e quindi cessò l’esazione de’ ducati 625,946: avanzo della primiera imposta di ducati 1,254,000. E il dazio civico sul macino stesso, che s’imponeano i comuni a’ termini dell’articolo 200 della legge del 12 decembre 1816,s’ordinò che non avesse potuto eccedere un carlino a tomolo. Oltre a tutto questo, il balzello sul sale al di quà del faro si scemò della terza parte, cioè da dodici grana a rotolo alla minuta ch’era, venne ridotto a grana otto. E a procacciar che l’intendimento di così generosi e segnalati alleggerimenti daziarii avesse pur riflettuto le provincie al di là del faro, né potendo al sale applicarsi perché ivi un cotal dazio non é conosciuto, si pensò al macino far riduzione, comeché desso per esser ivi un sussidio della finanza fin dal principio del secolo decimosesto fosse come a dir connaturato in quelle popolazioni; e niente men, che di ducati 300,000: annuali fu isgravata una cotal imposta. E le provvidenze finanziarie s’islargando d’una forma anco più diretta sul benessere generale, ad un capo soprammodo importante de’ commerzi e dell’industrie agricole di quelle provincie medesime si fé particolar provvisione, e si prescrisse che il dazio di ducati sette e grana venti sulla botte napolitana, imposto col decreto del 30 novembre 1824 e con le tariffe allo stesso annesse per i vini di Sicilia, alla loro immessione in Napoli, e nella giurisdizione de’ dazii di consumo, fosse ridotto a ducati tre e grana sessanta la botte napolitana.

In mezzo a tutti cosiffatti alleggerimenti delle pubbliche imposte, è fra cotanta enormezza di spese indiritte al salutar fine di torre debiti oltre misura, e i ducati 4,345,000: di debito pubblico fluttuante, e il debito con gli Americani in. ducati 2,538,000,e far l’ammortamento perseverante del debito pubblico iscemato di più centinaia di migliaia di ducati annuali; quali furono i bilanci e gli stati discussi dal 1831 in avanti, e quale la corrispondenza dell’entrata e dell’uscita? Chi fosse stato men consapevole degli accorgimenti economici ed amministrativi del Real Governo saria stato corrivo alla credenza, che pur un disavanzo e non iscarso s’avesse in quella stagione dovuto tuttavia andar dolorando. E il crederlo saria stato più facile per quanto lo Stato si trovò sopraccaricato di spese ingenti, e per l’acquisto de’ battelli a vapore da guerra, e per la costruzione della ferrovia da Napoli a Caserta e a Capua e a Nola, e per la costruzione di tante strade e in Napoli e in Sicilia, e per nuovi ponti fabbricati, e tante altre opere pubbliche principiate e condotte a termine. Eppure ben altramente accadde. Tutt’opera d’un’amministrazione saggia, rischiarata e fondata sopra i più sani principii di pubblica economia, le cifre presuntive dell’uscita e dell’entrata si videro presso a poco appareggiate, di taluni piccoli e insignificanti divarii in fuora, or per introito superante esito or per esito superante introito. E dal lato dell’entrate effettivamente asseguite, oh come si vide di buon’ora germinare della bella semente rigoglioso il fruito! Decrescendo per lunga tratta d’anni progressivamente da un canto le pubbliche gravezze, e dall’altro augumentando le instituzioni vantaggiose a’ commerzi e all’industrie, ed istabilendo siffattamente le basi d’un benessere sociale ponderoso e progrediente, per la necessità stessa delle cose accader dovea che dalla prosperità pubblica fosse pur pullulata la prosperità della finanza. Quindi abbiam assistito allo spettacolo oltre misura lieto e magnificente, cioè a dir del valor dell’entrate effettive della finanza ridondante di cifre mai sempre crescenti e sproporzionate al valor dell’entrate presuntive, e cosi il disavanzo apparente di taluni milioni discomparir innanzi alla realtà del fatto d’un introitò di più milioni accresciuto. E se questo economico, anzi che fortuito, fenomeno, è stato suo malgrado costretto d’osservar l’autore dell’opuscolo ne’ bilanci relativi al 1856,che dice d’aver tenuti sott’occhi. Oh come avrebbe a trasecolar anco più, se per poco sogguardasse a’ bilanci dell’anno 1857! Dove fosse pur restio d’iscorgere la verità di quel pronunziato dommatico dell’economiche discipline, che il benessere della società non sia che il benessere della finanza, e come la provvidenza umana de’ supremi reggitori de’ popoli, per un ordine provvidenziale anco: più alto che lega fra loro certi eventi soprammodo favorabili a’ civili convitti, non possa voler l’uno disvolendo l’altro, come sieno due effetti della stessa causa del buon governo politico, due rami indissolubilmente annestati in sul tronco medesimo.

E per non escir fuor dell’orbita che ci abbiam assegnata, e dove pur ne paia che per ispontanea provocazione n’accenni l’autor de’ bilanci sardi e napolitani, se non altro col suo apparente tema, noi più di costa ci farem a disaminare qual sia il logico ed intimo legame che passa infra la ragion della finanza del Reame e la ragione del benessere della social comunanza, per didurne poi come non il caso, non il fortuito accozzamento di circostanze imprevedute, non la fortuna; ma la provvida e benefica cura, e la ferma volontà, e la civil prudenza del Real Governo sieno stata la causa e la vera e non difettiva causa del benessere sociale che si godono queste pacifiche popolazioni.

E per vero, s’è condizione d’ogni finanza ben constituita, d’aver la ragion de’ suoi dazii e de’ suoi balzelli retta e governata secondo le norme più esatte e riconosciute dalla scienza, e sopra Una data forma attemperata, sì rispetto alla quantità, si rispetto alla qualità. Val quanto a dir, esser le pubbliche imposte discrete, e ottimamente ed equamente proporzionate alle sostanze de’  contribuenti, e ben distribuite fra i singoli, e riscosse con eccellenti metodi, e riuscir non pure innocue alle sorgenti della generai ricchezza, ma consuonanti all’interesse del civil convitto. In questa doppia indagine convien che per poco pur ci soffermiamo; onde si vedrà scaturir quel che forse dee molto dispiacer all’autor de’ confronti sardi e napolitani, ma eh’ egli medesimo essendo costretto di confessar spesso spesso per la prepotente virtù de’ fatti, sol s’isforza di gir tribuendo a cagioni cieche e sofisticate fuor d’ogni convenienza scientifica.

L’entrate della finanza degli Stati continentali del Re del Regno delle due Sicilie aggiungono per la cifra presuntiva a dica ducati 28,000,000: annuali. Questa cifra si é detto di crescere costantemente di più milioni, altaché l’effettiva ne porge un avanzo su dì quella or di 4,000,000: or di 5,000,000: Quindi é ben chiaro d’esser lontano ogni sospetto di deficienza. E se le spese relative alle molte opere pubbliche che sono in corso, e alle due ferrovie che si fanno di conto della Real Tesoreria, cioè quella da Capua insino a Ceprano là su i confini del Regno, e l’altra da Sarno per Sanseverino, e tante altre spese di simil risma non fossero state erogate, vi sarebbe ben un avanzo dell’introito in su l’esito, cioè a dir di quegli stessi milioni così ottimamente occupati in opere d’universal vantaggio. Tutto cosiffatto valor d’entrata niun poi dirà d’esser isproporcìonato alla forza territoriale e industriale del paese. L’augumento incredibile della popolazione asseguito in più milioni, ne sarebbe una pruova incontrastabile anco a’ più schifiltosi. E se non ci siam ingannati in quelle contraddizioni, in che s’avvolge un libro in cui l’autor s’ha scelto un poco felice assunto, par eh’ egli stesso convenga in ciò. Sol una quarta parte, e non già una terza, come malamente computasi, è rappresentata dall’imposta fondiaria. E questa stessa quarta parte é ben lungi da constituir elemento per giudicar della forza produttiva del territorio, giacché essa riscuotesi secondo l’imponibile d’un catasto ornai vetusto, né eseguito con sufficiente esattezza, e se non altro, nel corso d’assai lustri da che venne quello compito, l’agricoltura s’è migliorata per tante vie, si per l’impulso governativo, si per lo stesso natural corso de’ tempi. Né alcun vorrà rivocar in dubbio l’opportunità d’una tale imposta, e del metodo come si va riscuotendo, giacché se si cura il diritto della finanza, certo che non angustiasi il contribuente.

Tutti gli altri dazii poi, fuor che quelli doganali, si possono men addomandar del nome di gravezze, come sarebbero le privative, cioè le saline, i tabacchi, le carte da giuoco, la polvere da sparo, il sai nitro etc.; avvegnaché per essi in parte s’offre al consumatore un certo valor che si vien come comprando la mercé di quel che s’isborsa, e per taluni più per ispontanea profferta che obbligativamente pagasi. E la lotteria considerata sotto questo rispetto di spontaneità, la quale per altro c’é comune con parecchi Stati italiani, non esclusi gli stessi Stati piemontesi, certo che non saprebbesì riprovare insinattantoché non si rinvenga un’imposta che riuscendo al pari insensibile, possa la civil prudenza ventine consigliando il rimpiazzo.

Il Reame delle due Sicilie ha altresì i suoi beni patrimoniali, il Tavoliere in Puglia, la Sila nelle Calabrie, e il prodotto delle ferrovie, de’ telegrafi elettrici, le quali cose tutte van computate ne’ bilanci della finanza.

Né altramente va la bisogna ne’ domini insulari, dove con terre anco più fertili e strabendomi di maggior numero di produzioni, la ragion delle imposte à la stessa, se si eccettua il dazio sul sale e la privativa de’ tabacchi che ivi non riconoscono.

Ma se dalla quantità assoluta e complessiva ci farem a riguardar la relativa ed individuale, quella cioè che paga cadaun cittadino singolarmente, stando alle computazioni dello stesso autor dell’opuscolo, che non l’ha taciuta, dessa è presso noi nella proporzione di lire 21 per ogni persona, quando quella degli Stati piemontesi ricade per lise 26 e più per ogni individuo.

Fra noi le industrie e i commerci, le arti e gli opifizii e le manifatture d’ogni maniera, le professioni dotte e non dotte, nobili ed ignobili, di scienze e d’arti, non sopportano gravezza di sorta alcuna. Né nelle successioni, l’erede, e fosse la figliuolanza medesima che ricoglie l’eredità de’ genitori, che men la legge civile che la natura le conferisce, é obbligato di darne una quota al pubblico erario. L’autor dell’opuscolo non ha saputo rinnegar le gravezze smisuratamente ponderose che sopportanti negli Stati sardi. Ivi i commerzi e le industrie e le professioni e le arti d’ogni guisa son tributar rie, come la zolla stessa della terra. Ivi lo Stato fin attenta direttamente ad una porzione della proprietà de’ cittadini in ogni passaggio che avverasi di quella per via di successione.

Or se la ragion de’ dazi é fra noi ammoderata, ed equamente scompartita, e se regolare n’è la riscossione. Se per quantità e qualità non sono i balzelli d’indole gravosa ed intesta al general vantaggio. E se bene e sapientemente vedesi constituita la finanza del Reame delle due Sicilie. Non riman se non che divisare, se dal lato dei fatti economici che sono andati man mano. compiendosi nel nostro territorio, avess’ella pur prodotti frutti buoni ed utili e copiosi, che stessero in rispondenza dell’entità scientifica di lei; e se dalla causa passando all’effetto fosse da cogliere a colpo d’occhio quella relaziona intima del sistema finanzierò e del benessere generale, che fin dal principio di queste nostre parole s’è fatta ìntravvedere. E in ciò fare ci rivolgiam, comeché di passata, all’agricoltura e all’industrie e alle manifatture, alle professioni e alle arti utili, e alle arti stesse belle e venuste, e a’ commerzi interni ed esterni, per risaper come ed in quali condizioni economiche sien dessi allogati da cinque lustri e più a questa parte, e quale lo stato della loro floridezza assoluta e comparativa. Le condizioni agronomiche degli Stati del Re Ferdinando II considerale per sé stesse son più che buone, e nel pareggio a’ tempi che antecessero sono non pur precedenti ma maravigliose. Chi conosce il nostro paese in un’età per oltre a trent’anni più antica, ne iscorgerà il gran divario. Le terre son quasi per valor raddoppiale, da per ogni dove avvenuti stupendi meglioramenti, e industrie agricole di varie guise immaginate e poste in atto, e l’energia de’ privati cittadini si é emulata di nobil gara con l’energia dispiegala dal Real Governo. Una ben regolata amministrazione delle bonificazioni intende quà e là a prosciugar lande e zolle maremmose, a dar alle acque il miglior corso e più atteggiato a’ bisogni dell’agricoltura e della pubblica salute. Sono imponenti le opere che si stanno eseguendo nel bacino inferiore del Volturno. E un’estensione immensa di suolo ricoperta nella corsa de’ secoli dal lago Celano negli Abruzzi fra non guari spiccerà fuora con l’allegria della nativa sua feracità, e n’arricchirà il paese di nuove e larghe e strabondanti raccolte. Nè di cotanto progresso si vuol ripetere l’alte cagioni, come adoperasi nel precitato opuscolo, dalla natural fertilità del territorio. Niun mette in forse si bel dono che là Provvidenza ci ha largito, ma son queste le terre medesime che sei lustri innanti non rendeano tutto quello che or ne danno la mercé dell’azioni governativa saggia e progrediente.

Le industrie manufatte dir si. possono in gran parte opera di creazione, e in parte di notabil meglioramento arrecatone dal Governo di Ferdinando II. Quanti opifizi di tessuti in lane, ed anco in filo ed in cotone, aperti e condotti a cotal punto di perfezione e in Sora e in Piemonte e in Sarno ed in altri luoghi, per i quali accusiam noi poco bisogno dell’esótiche merci? Qual progresso non vedesi ne’ tessuti di seta nelle magnifiche fabbriche che sono in Catania, e in S. Leucio? E come e per quante vie l’industria di filar la seta non s’è distesa, intantoché vedesi addivenuta come casereccia presso la gente più minuta in is variate contrade? E qual doviziosa copia di valor numerario annualmente non immettesi entro, il qual rappresenta altrettanta quantità di seta greggia esportata fuor del territorio del regno? E le fabbriche di cuojami, e di cristalli e di cretaglie, e le cartiere, e tant’altri minori opifizì certo che non sono al dì d’oggi quel ch’erano una volta.

Nè son da preterir le ferriere di Calabria, e quélla non è guari fondata in Atina. Ed è primo ed unico in Italia lo stabilimento oltremodo magnifico di Pietrarsa, ove si costruiscono macchine di ferro fusola stare a paraggi con le migliori di Europa. E se non ci paresse noioso: anzi che no girne qui rimemorando tutti e i non numerosi:capi dell’industrie manufatte, in ben altre parole islargar ci potremmo che non son quelle già, dette. Sol vogliamo ché con guardo retrospettivo e comparativo per poco s’osservasse se tutto queste economiche utilità esisteano in altra stagione, e se negli Stati Sardi si possano, al dì d’oggi Vantare simili miracoli d’industriali speculazioni, che in sì brieve tempo si sono andati succedendo. E del gran divario si rinverrà appunto la cagione nel favor largheggiato alle arti e all’industrie nostrane, le quali non sono né punto né poco vessate da una finanza irrazionale;mentre nel Piemonte son aspramente e per più modi taglieggiate, e peri o distolte sul bel nascere, ovver malmenate via facendo, sì che non vi possano attecchire.

E se dalle arti utili si trapassi a quell’altre, le quali trovate per allegrar per un poco le noie de’ mortali quaggiù ci raffigurano come in compendio il bello ideale, di cui l’archetipo è nella mente stessa del Creatore, vogliam dire la scultoria e la pittura, è facile divisare come questuarti divine neglette per lunga tratta d’anni, era riserbato al gènio di Ferdinando II di riprodurle in fiore, restaurando una nuova é strabondante scuola, la quale viene sì splendidamente emulando le avite glorie. E nelle regie gallerie, è nelle basiliche, e in ispezialtà in quella magnificamente architettata di San Francesco in Gaeta, i moderni capi-lavori posti in nobile contrasto con le opere più magnificenti della vetusta scuola, son destinati ad additar a dii quest’epoca chiameranno antica la finezza del gusto, , e la vigoria artistica dell’età che corre.

Le professioni nobili ed ignobili, e gli stessi insegnamenti delle scienze gravi e severe son in Napoli largamente esercitati, e con fino e solenne magistero. Vi si contano e nelle fisiche e nelle morali discipline, sì nell’ordine speculativo e teorico, si nell’ordine pratico ed applicato agli affari della vita civile, professori di gran polso, da non invidiar a quantunque nazione più civile. E di ciò non dubita lo stesso Scialoja, aggiugnendo d’essere di cotali professori in si gran copia da poterne escir anco fuora. Or tutta cosiffatta dovizia scientifica e professionale non è forse dovuta insino ad un certo segno alla deficienza di qual che si sia-gravezza, che ne disvolga l’esplicamento spontaneo, e alla balia della scelta non refrenata da nessun impaccio? È un bel dire che nel Piemonte le professioni e le arti sien gravate perché il Governo è lì forte, e che in Napoli si godano l’immunità perché il Governo per temenza abbia un certo rattento d’adoprar lo stesso. Ben qui facciam senno di non esser obbligati a rintuzzar cotanta improntitudine perché non si potendo alla per fine volger il guardò all’evidenza del retto e del buono e del bello, si vuole ma invano annebbiarla soffiandovi sopra gli aliti inveleniti d’un livore insensato.

Non è facile con la stessa celerità additar le tante ed isvariate agevolezze porte per ogni verso a’ commerci e a tutti i traffichi e le mercantili speculazioni. Certo che precipua protezione si vuol giudicare la liberti e la franchigia da qual che si sia imposta. Presso noi i commercianti non sono di verun balzello angustiati, a cadauno essendo aperta la facilità d’un cotal mestiere, e nessun ostacolo s’interponendo perché vi si tragga dietro. Epperò dee a chicchessia farne afa quella i&alignazion monotona, che cioè tanta opportunità delle commerce voli transazioni fosse men da riferir alFintendimento di favoreggiarle, che di non irritar una casta numerosa e abbastanza cupida del particolar suo vantaggio. Se i folti economici della più grande importanza si vogliono andar per si fatto modo spiegando, la scienza dello statista si può aver in conio di vana e casuale, e l’opera più bella escita dalla man dell’uomo, cioè la fondazione de’ politici reggimenti, puossi dir venuta fuora come carnata dall’impeto cieco delle passioni, e da’ fini particolari de’  reggitori degli Stati. Ma lasciando pur da canto colali celie, di cui la scienza non fa alcuna stima, e seguitiamo a dir degl’intimi rapporti de’ commerci nostrali e del prospero corso di quelli con la rettitudine d’una ben regolata finanza. Perché, la scienza che presiede all’architettonica dei civili convitti, e le discipline economiche, senz’alcun contrasto, nella deficienza d’ogni balzello allogano la spinta più efficace per seguir i migliori successi commerciali. È per vero, è non solo dura cosa ma irrazionale, che un mestiere indeterminato, qual è il commercio che s’ha innanti un profitto ismisuratamente incerto, possa andar soggetto a gravezza, che finisce per isgominar quantunque attività. Non so se v’abbia chi felicitar possa le piemontesi popolazioni, che tollerano il grave pondo d’una finanza la quale ne va taglieggiando il foro commercio; che gli Stati di Ferdinando II sono gloriosi d’averlo libero ed immune.

L’opera del Real Governo non restrignesi a questo, procede pur oltre, e per tante vie distende la sua provvidenza. In Napoli sono state aperte le due prime ferrovie italiane, e già sono, come s’è notato, in corso’ di costruzione altre due, e queste per conto esclusivo del Tesoro. In ambedue lavorasi con energia sì che fra poco saran quelle dischiuse a’ traffichi.

Di due altre si è già fatta la concessione a privati capitalisti, quella cioè delle Puglie insino a Brindisi, e l’altra destinata a travalicar le montuose contrade degli Abruzzi. Una telegrafia elettro-magnetico spande da per tutto, e mette in comunicazione tutti gli Stati continentali ed insulari, e la felice immersione del filo elettrico nel Faro di Messina ha riempiuto di gioia tutt’i sudditi del Regno. E dirà a questi veicoli ferrati, quante altre strada non s’eran innanti fatte per la maggior facilezza delle commercevoli relazioni? E ne’ domini al di là del Faro quale non fu la sollecitudine di costruir strade consolari d’ogni maniera, attalché a chi è in istato da far un paragone di quelle regioni innanzi e dopo il 1830 potrà venir fatto d’avvertir il gran divario. E il nuovo ordinamento postale del franco bollo disposto nello scorcio dell’anno ch’è tramontato, già col novello anno che l’ha visto in atto comincia a dar i più utili risultamenti. Basta dir che con sol grana due per ogni foglio di caria vien tassala la corrispondenza de’ particolari destinala alla maggior distanza. E l’amministrazione de’ Ponti e delle Strade riformata sopra basi migliori fa da per tutto toccar con mano i suoi influssi benefici. Nè tacer si dee la costruzione de’ porti di Brindisi e d’Ischia e di Gallipoli. E un grande edilizio è stato già, decretato di farsi nell’amena contrada di. Posillipo per ivi a sua posta poter importare e riesportare le merci che vengono dallo straniero. E pur si pensa ad aggrandir il porto della capitale del Regno, essendo quello ch’esiste ben angusto al numero ognor crescente de’ bastimenti nazionali e forestieri, che di continuo ne vanno e vengono d’oltremare.

Se non che, per chi è corrivo a rifiutar la logica attenenza delle cose, tanto che non istà egli contento a divisar il principio per già tenerne logicamente la conseguenza, che in quello come nella sua buccia s’inchiugga, e rinnega con metodo abnorme gl’intimi rapporti de’ falli, fia d’uopo che pur tenghiam altromodo, e dopo d’aver con incesso progressivo che ha presole mosse dalle originasi vuole, benché di passala, con incesso retrivo dagli effetti risalir alle origini stesse; per riuscir a pruovar mai sempre l’assunto medesimo, per arguirne cioè costantemente l’alleganza delle condizioni finanziarie dello Stato con le condizioni del benessere della società.

S’esaminino pertanto tutt’i nostri negozi e le mercantili speculazioni d’ogni forma, e si scorgerà un’altitudine commerciale di lunga superiore a quel che s’avria potuto aspettare. Basta dir per tutto, che nella bilancia del nostro commercio d’importazione e d’esportazione avvertesi un movimento stragrande, e per se stesso sufficiente, e comparativamente a’ tempi preteriti appena credibile. Ad assai più di venti milioni di ducali ascendono annualmente i commerci d’importazione esercitati da napolitano e da straniere bandiere, e quelli d’esportazione s’hanno un avanzo sopra i primi ben di quattro in cinque milioni annuali. E nei domini insulari accade presso a poco lo stesso. Ecco come al fatto si collega la teoria. Ecco come la scienza ha operato da cinque lustri e più in man di Chi incessantemente ha provveduto al bene delle popolazioni. Non fia possibile che con tante larghezze fatte a’ commerzi e alle industrie, alle arti e a’ mestieri, e alle professioni dotte e non dotte, non si fossero raccolti questi ed altrettali frutti di civil utilità i quali porgendo nuovi e più ricchi capitali alle stesse industriali speculazioni ne debbono per necessità a maggior floridezza aprir il varco. Ma l’economia politica, e la scienza del buon governo degli Stati, e per poco non lutto lo scibile morale annullandosi dall’àutor dell’opuscolo, si contende un cotal legame de’ fatti con le loro cagioni, cd é curioso d’udir la solita cantilena della fortuna sollevata a causa efficiente di cotanto generai vantaggio. Pur bene per noi che i fatti semplici non si possan porre in obblio, perciocché conceduto pur una volta questo punto fisso, é vano andar sofisticando tante effimere e cieche ed impossibili ragioni di que’ fatti medesimi. Il buon governo politico di S. M. Ferdinando 11 ne reclamerà con dritto l’appartenenza.

Ed è veramente specioso, che si volendo poi per un altro fatto commerciale di gran rilievo instituir odioso paragone fra noi e gli Stati del Piemonte, cioè rispetto al numero dei legni mercantili dell’uno e dell’altro paese, e non si potendo contrastar alla nostra superiorità assoluta e relativa, fin si critica la fonte straniera onde s’attingea la cifra de’ nostri, certo non additata dal Governo di Napoli, e ch’è pur un documento senz’alcuna parzialità pubblicato nella Revue des deux mondes. E poi s’incalza sostenendo che bisognerebbe più istar alla portata de’ navigli, che alla quantità. Ed era certo da rifiutar questa sorgente, perché nientemen che in una statistica generale delle navi mercantili di tutta Italia sen attribuisce un numero assai più della metà al Reame delle due Sicilie. Ma noi non possiam accontentarci d’un’antica cifra del 1838 che si fa sembiante dallo Scialoja di non ritenersi, dovendo pur crescere quella calcolazione ben d’altre migliaia di bastimenti che in realtà s’appartengono a noi. Perché intralasciando ogni esotica autorità, e traendo dietro all’ultime nostre statistiche del 1854,del 1855,e del 1856,il numero de’ legni napolitani s’aumenta con proporzioni sempre progredienti, e nell’ultimo de’ dinotati anni sollevasi a nove mila e qualche centinaio. E ciò oltra a’ bastimenti siciliani, il cui numero spaziasi nella cifra de’ due a’ tre mille. E dell’anno or scaduto, comeché non sieno per anco stati raccolti i risultamenti statistici, l’augumento n’é altresì indubitato. E se pur al tonnellaggio si vuol aver rispetto, quel relativo a tutta la nostra marina mercantile è ismisuratamente più grande, e non reggono i termini di paragone con la marina mercantile degli Stati Sardi, la quale secondo lo stesso Scialoja non par che superi il numero di tre mila e poche centinaia di più, mentre la nostra per l’iintero Reame aggiugne oltre alla cifra di dodici mila legni. Se non che, non pare il caso d’andar facendo minuta ragione del tonnellaggio delle navi grandi e picciole, essendo ornai risaputo che desse si fabbricano secondo la portata e l’indirizzo de’ proprii traffichi.

E se nella marina militare istà la difesa e ‘l sostegno della mercantile, e se in questa il germe della fecondità e del progressivo incremento di quella si rinviene, e se l’una e l’altra sono per cosi dire le due braccia di che s’ajuta il commercio, polea non tornar in fiore la possanza marittima del Reame? È tutt’opera di Ferdinando li un’armata navale, prima in Italia, non ultima oltremare. Ond’è che se i nostri traffichi si son così avvantaggiati, non si vuol certamente ohbliar la stretta relazione de’ più utili e distesi commerzi, e del maggior nervo della forza di mare.

Molte cose hanno con forza convergente contribuito allo stesso intendimento. È risaputa appo noi la ragion dei prendi che si tribuiscono per la nuova fabbricazione di navi mercantili. E secondo le additate statistiche, nel 1854 colai prendi furono in ducati 18,801: nel 1855 di ducati 25,057,e nel 1856 di ducati 29,110,Da queste cifre progressive come fia possibile di non riconoscere gl’influssi diretti del buon Governo?

E mal s’adopererebbe se tacer si volesse d’un fatto soprammodo eclatante di civil sapienza, il qual per sé solo esser potria la scaturigine di gran parte de’ vigorosi nostri commerzi. Si può forse obbliar quel tratto d’isfolgorata provvidenza economica di Ferdinando II. quando la materia essendo ancor calda in Inghilterra d’animata disputazione, fu egli primo a dar nobile ed imitabil esempio d’un alleggerimento delle tariffe doganali in articoli importantissimi di commercio? E come fu accolta dallo straniero questa generosa e ben meditala deliberazione dell’animo del nostro Regnante? Parlino sì parlino per noi tutt’i dotti e gli statisti delle nazioni più culle, e gli stessi sommi politici della Gran Brettagna. Ma qual cosa derivò da questo gran fatto. Ciò appunto che accader dovea, vai quanto a dir nna più gran facilezza al commercio esteriore, e la piacevole occasione di tostamente porsi in ottimo accordo d’utili rapporti quasi con tutto il mondo commerciale. II Re con mirabile scambievolezza ne fu richiesto, e richiese taoto bene. Una quantità innumera di trattali di commercio e di navigazione venne fuora, dove i principi! più liberali in pro del commercio marittimo son fermati, ed ogni preferenza o privilegio di bandiera è spento. La bandiera forestiera, eccetto poche cose, é appareggiata alla bandiera nazionale, e le minzioni’ commerciali vi son stabilmente regolate. Epperò ci abbiamo trattati e con la Russia e la Francia e l’Austria, e con la Gran Brettagna e la Spagna, e con la Prussia e la Danimarca e il Belgio e la Toscana e la Sardegna, e con gli Stati Uniti d’America e con la Porta Ottomana ec. E se la vera civiltà non istà propriamente se non che ne’ rapporti di benivoglienza fondati sopra una ben intesa medesimezza d’interessi, tutto ciò vedesi largamente ottenuto la mercé di quelli. E se ivi a larga mano si truovan disseminati tanti principii pratici sopra oggetti che s’attengono al vantaggio di tutt’ i popoli, puossi dir d’esser la’ trattati un’opera di civiltà non peritura.

È gradevol cosa avvertire come nell’ultimo trattato rinnovato fra il nostro Regno e quel del Belgio, testé pubblicato, vedasi, per quanto noi ci sappiamo, la prima volta messo in atto e concretato in forma di solenne contrattazione internazionale per motivo di commercio fra due Sovrani, quella gran teorica che la ragion pura delle genti con tacito mormorio andava quinci e quindi ornai susurrando nell’animo degli addottrinati nella scienza, e degli statisti, e fin de’ Potentati che regolano j destini de’ popoli, la qual’era addiventata il desiderio commerciale di tutto il mondo, vai quanto a dire, che non pur la bandiera neutra difenda la mercanzia nemica, ma la mercanzia neutra sia rispettala comeché coperta da nimica bandiera, e che non s’abbia ad usar le lettere di marca a buona ragione addomandate del nome di pirateria organata e legale. E ancor prima, al 1855,fra il nostro Re e il Governo degli Stati Uniti di America, i diritti de’ neutri in caso di guerra erano stati già temperati sopra i più larghi principii della ragion delle genii, fin impegnandosi le alte Parti contraenti d’applicar i principii medesimi al commercio ed alla navigazione di qualunque Potenza avesse dal canto suo voluto adottarli come permanenti ed invariabili.

E se con tanta copia di commercevoli affari i rapporti degl’individui delle diverse nazioni si son dovuti accrescere e intersecar per più versi, il conflitto s’é fatto innanzi degli statuti dei paesi stranieri con gli statuti nostrali. Ond’é surta ad un’ora in queste regioni medesime, a paro della frequenza della materia sovra cui é destinata a lavorare, quella giovine e nobile disciplina del Diritto Privato Internazionale, che intende a governar le giuridiche relazioni d’individuò con individuo appartenenti a nazioni diverse. Tanta é ed inesorabile la colleganza dello scibile e del reale, della teorica e del fatto! Or tutti cosiffatti sussidii arrecati al commercio ne dovean altresi ammegliorarc la ragion de’ cambii, è crescere il nostro valor numerario. Epperò la nostra Zecca vien coniando quantità immensa di moneta in ogni anno, e sollevata la portata d’un tal opifizio, sen può coniare quanto n’abbisogni. Onde un doppio vantaggio, alla Finanza per un verso, e all’interesse sociale per tanti altri riguardi. E per le ragioni medesime intendesi perché la nostra Banca sia sopraccaricata di denaro, mentre senza esempio da che esiste, racchiude un valore di trentatré milioni, poco più poco meno.

L’augumentar poi del commercio e dell’industrie e della moneta, e la megliorata ragion de’ cambii, e l’interesse scemato sulle’ prestanze; ne dovean di necessità partorir un’altra Conseguenza, cioè l’elevazione del credito pubblico. Sarebbe incredibile se non fosse vero, come al riaprirsi del Gran Libro con l’esercizio dell’anno novello la pubblica rendita si fosse immantinente distesa a quella stessa ragione spaziantcsi fra il 114 al 115,com’era al finir dell’anno 1857,non ostante il valor del semestre già riscosso. E certo che questo fenomeno di rilevantissima attività commerciale ispiegar non si potria, senza presupporre immensa fiducia de’ governati verso il Governo. E come aver questa fiducia, senza fai’ stima degli elementi che la creano? E dall’altra banda, come ritener un tal fatto di tanta elevatezza del Gran Libro senza ammetter l’altro della ricchezza pubblica. accresciuta? Così con felice rimbalzo di forze, che a muta a muta s’iscambiano le utili lor influenze, la finanza che con tanta politica temperatezza avea assestale te cose in ordine all’industrie e aeonimorci. e a tutte le civili utilità, con alterna voce vedesi riguiderdonata di quel credito universale, che fa della forza dei singoli la forza collettiva dello Stato, e constituisce la principal leva del benessere di tutto il civil convitto.

S’invochi ora per quanto sì voglia la casual prosperezza degli eventi. S’invochi la fortuna, è quant’altro quaggiù ci s’aggira intorno materiale e volubile, e che non include alcun ideale concetto; Perché noi, e con noi quanti, son sinceri cultori delle utili discipline, e. leali ed acrili osservatori de’ fatti sociali, direm sempre, che magistero d’intendimento; qual è la ragion della prosperità dello Stato, non potersi dettare se non dal buon governo politico, e non mai da ciò ch’è senza ragione né intendimento né anima. Fedeli al tema che ci abbiano assunto, ne dovremo qui sostare con queste nostre parole, avendo purtroppo detto della relazione intima della finanza e della prosperità del Reame delle due Sicilie. Ma per dinotare fin dove siasi: trascinato con le suo mal; congegnate egressioni l’autor dell’opuscolo, me’ piaccia qui registrare sol talune; delle innumere assurdità.

Mentre che vuol egli girne tanto addentro nel paragono delle due finanze, allorché vedesi costretto dalle necessità aritmetiche a pur dichiarare la superiorità della nostrana, tutt’insiem insorge, e quasi vuol di sconfessare quel che poco stante avea detto, e ricorre ài ripiego d’essere la napolitana finanza Un segreto impenetrabile. Ma ninno ignora essere ufficio della Gran Corte de’ Conti nelle Camere Contabili appunto questo di discutere i conti di tutte le amministrazioni dello Stato, e quindi quelli della. Tesoreria Generate, e del Gran Libro del debito pubblico, e della Cassa di ammortizzazione, è di tutte le amministrazioni finanziere. E gli stati discussi a quanto largo e ripetuto esame non son essi soggetti per le leggi fondamentali del Regno? In primo luogo, ciascun ministerone presenta gli elementi relativi a tutte le sue dipendenze. In secondo luogo, il ministero delle finanze ne discute e controlla tutt’i bilanci delle spese particolari di cadaun dicastero, e preparandoli bilancio generale di tutti gl’introiti. e gli esiti dello Stato, viene in seguito l’esame del Consigliò de’ ministri, e in fine quello del Consiglio di Stato. Or dov’è in tutto questo l’arcano? Dov’é che manchinogli elementi della discussione? Se per difetto di pubblicità intende parlar di quella clamorosa e preoccupata da passioni, certo che questa non interviene. E i popoli del Regno delle due Sicilie contenti come sono d’una discussione pacata e grave, ne porgono la Rimostranza. più evidente di quel che sentono nell’imo dell’animo loro, allorché circondano della fede pubblica il Real Governo, tanto che le Banche di Napoli e di Sicilia sono non piene ma sopmccariche di denaro; e in Bari, centro del commercio delle Puglie, é stata necessità di venirne istituendo un’altra; ed il Gran Libro, come si è detto, ognidì più accreditasi. Alla vece de’ più templi alla Dea Fortuna, come con frase giocosa leggesi nell’opuscolo, si un altare, come Numa Pompilio racconta l’Istoria d’aver fatto, in Roma, erger si dovrìa Ara noi alla Fede Pubblicarla qual non si comanda, ma ispirasi più con la giusta rettitudine de’ fatti governativi, che con la curvità d’ipocrite parole.

Allorché parla della qualità dell’imposte nel confronto dei due paesi, riflette (il che per altro non ci pare), che in Napoli la contribuzione fondiaria sia maggiore che in Piemonte, e sembra che voglia farcene un torto, mentre circa alla ragion de’ dazi egli in teoria propenda più per le imposte dirette che per l’indirette. S’incontrando poi in tanti altri balzelli diretti e personali che si hanno i Stati Sardi, di cui fra noi non rimane se non che una storica tradizione, quali sono le patenti, le imposte sulle vetture, sopra le società ed assicurazioni, su i corpi morali e le manimorte, e in su le successioni, oltra al dover s’impaccia, or plaudendo a si e norme e molteplice forma di gravezze, le quali tarpano le ali alle arti è all’industrie, ed or laudando còme un vero progresso un tributo fondiario quale unica imposta per tutto lo Stato. S’attenta l’escir della pania, nella quale, senz’addarsene, è entrato, e tirandosi nei graditi campi della politica, professa due principi, uno di fatto, un altro di dritto. Quel di fatto, che tanti novelli balzelli inflitti alle popolazioni piemontesi da pochi anni in quà son odiosi, dispiacciono a coloro che li pagano, ma questo fastidio sarà men gravoso a seconda che si vada generando la persuasione che la cosa pubblica è cosa di ciascuno. Il principio di dritto è, che ne’ governi costituzionali v’ha più forza in ordine alla riscossione delle gravezze daziarie che non nei governi assoluti, ne’ quali è sol la sembianza della forza, e s’antepone di buon grado il sistema di non far gridar la gente. Alla prima cosa, ch’è un mero fatto, meglio che nol risponda il fatto medesimo di quella mala voglia e di quel natural dispetto che nutresi nell’animo de’ Piemontesi, i quali da poco in qua si vedono di troppo tassati ed oppressi da gravezze enormi ed isvarìanti. Vedremo se un tal crepacuore sia per cessare, come s’augura l’autor de’ confronti. Quanto è poi alla seconda cosa, ognun sa che la forma degli Stati in ordine al benessere de’ popoli è solo in ragion di mezzo, e non giù in ragion di fine, mentre il fine d’ogni civil comunanza è l’istar meglio che si possa, ed ottener il maggior grado possibile di felicità generale. Essendo qualità cosi appropriata de’ governi costituzionali di poter fare impunemente gemere i sudditi sotto l’oppressura d’orribili balzelli, mentre alla monarchia assoluta non sia dato di far lo stesso, è facile divisare come anco dal lato della politica, cui va egli piaggiando mai sempre, o che gliene venga q ho il concio, non s’abbia iscelta una ritirata abbastanza sicura.

Cresce le angustie il tentar che fa di giustificare la lassa in su le successioni. E per quante isfuggite si procacci, schifar non può in ultima analisi il risultamento, che la mercé di colai balzello, insolito ne’ tempi odierni, riprovalo dalle giuridiche ed economiche discipline, lo Stato sia in fin l’erede d’ogni cittadino. Noi con la stessa lealtà che ci gratuliam col paese nostro d’esser immuni di cotanta gravezza, che richiama in vigore anco con maggior ampiezza quella vieta legge de’ caduchi de’ tempi corrotti dell’impero romano, volentieri facciam voti che quegli Stati dell’Italia subalpina potessero venir per poco alleggeriti di simili enormità.

Per una ragione identica non ci sappiam persuadere di quell’altro odioso paragone voluto fare fra il registro e bollo presso noi, e quel che vigoreggia là nel Piemonte, il quale vedesi ben scompartito in triplice categoria, cioè di tassa d’insinuazione, d’emolumento, e di carta bollata. Dallo stesso Scialoja computasi la cifra totale di esso rispetto all’uno e all’altro Stato, rendendo in Napoli sol lire 6,075,000:, mentre in Piemonte ne dà nientemen che lire 18,200,000: Della pesantezza e de’ serii inconvenienti ch’emergono da balzello così sproporzionato non sa egli infingersi. Le simulazioni e le frodi per ischivar la svariante misura di quella simultanea e triplicata tassane riempiono di liti il foro, e accostumano i cittadini all’immoralità. Se non che, vuole qui eziandio illudersi, e va dicendo che la Banca di Napoli fosse cagione della minor entrala del registro e bollo fra noi, la mercé del sistema del giro delle fedi di credito. È chiaro per se stesso tutto il bene che produce questo nostro patrio istituto per tanti rispetti. Epperò vorremmo che si fosse più accorto allorché si parla delle nostre banche, valendo meglio averne delle buone, che molte ma stabilite sopra fragili basi. Ma malamente per tanto si conchiude chele banche stesse ne spiegassero il fenomeno perché renda cosi poco il registro e bollo; mentre è oltre modo copioso il numero degli affari della nostra vita civile, e se il Real Governo fa correre le carte bancarie con nel dorso le private contrattazioni, è questa un’altra pruova che non voglia riuscir gravoso dal lato del registro e bollo.

Notando i confronti delle due finanze in ordine alle spese, s’imbatte e con la lista civile e con le rendite che si pagano annualmente per il debito pubblico consolidato. Osserva che la lista civile di Napoli e di Sicilia in uno ascende a lire 8,289,000: delle quali la seconda ne corrisponde 1,740,000. Nel Piemonte ascende a lire 4,500,000: Or se si vuol istar alla proporzione della forza de’ due Stati, e delle popolazioni rispettive, la lista civile del Reame delle due Sicilie, il quale secondo le ultime e sicure calcolazioni statistiche aggiugne ad assai più di nove milioni di cittadini, è al di sotto di quella del Piemonte. E pare che questa sia la misura da tenere, essendo risaputo che la rappresentanza del Capo Supremo dello Stato, e le spese ch’ella è obbligata di sostenere variino a seconda dell’importanza del paese sopra cui imperiasi. Certo che saria assai ridicolo di voler assestare su di una misura identica la spesa della Corte della Gran Bretagna e della Russia e della Francia e dell’Austria, e la spesa della Corte delle minori Potenze. A parte, che lo splendor d’una Monarchia assoluta, nella quale si riuniscono tutt’i poteri dello Stato, certo che debb’essere più solenne e magnificente che non accade dove il Re divide con altri la rappresentanza dello Stato. Nè poi ignorar o simular doveasi che nella lista civile del nostro Regno van compresi e i maggiorati de’ Principi, e gl’interessi delle doti, e la soprantendenza di Casa Reale, e  ‘l mantenimento de’ siti Reali, che per la loro magnificenza son obbietto di curiosità di tutti gli stranieri. E né anco obbliar si volea, che l’antico assegnamento della nostra Corte fin dal 1831 per ispontaneo tratto di real clemenza fu ridotto da Ferdinando II di circa ducati 200,000: renunziati in pro del pubblico erario con decreto del di 11 gennaio di quell’anno.

Tutto il debito pubblico vedesi poi calcolato nel citato libro a 430 milioni di lire per Napoli, e 90 milioni per la Sicilia. Nel Piemonte è di 630 milioni, senza computar il debito contralto per la guerra di Crimea. Saria pur lungo il discorso, e in molt’ altre particolarità entrar si dovrebbe straniere al nostro scopo, se volessimo addentrar le cause primigenie dello stesso nostro attuai debito pubblico, le quali sono state mai sempre i politici rivolgimenti, le cui sciagure si voglion poi andar riparando con opera di ristauro progressivo. Ma stando alle dinotate cifre, se tenghiam conto, come si debbe naturalmente fare, della popolazione correspettiva, il divario è poco men di due doppi in danno degli Stati Sardi. Per vero, la cifra ne dovea parere di troppo strabocchevole per lasciarla passare senza il lenitivo di qualche comentario, e si cerca d’illudersi facendo ricorso alle utili spese erogate. E se noi vorrem dire le nostre, non ci mancherebbe per le mani copiosa la materia. Ma la questione non é questa. Trattasi del confronto di fatti attuali e permanenti, e fa d’uopo confessarlo, o si voglia o non si voglia, il debito pubblico del Piemonte n’offre una cifra smisurata ed isproporzionata assai, che dee darne a ripensare a qualunque statista di buon senno.

L’autor dell’opuscolo conduce la sua frusta finanziaria a traverso degli Stati sardi e napolitani. Ma il più delle volle men per rivocar in dubbio le spese effettive di ciascun ministero a tenore degli stati discussi, che per venir di balzo alla politica. Osserva che nel Reame delle due Sicilie l’ordine giudiziario ha soldi maggiori e più adeguali, che non son quelli del Piemonte assai inferiori. Confessa che le spese di polizia sieno nel primo di gran lunga più scarse che non nel secondo, benché ne volesse poi aggrandir le nostre di taluni proventi, come a dir l’importo de’ passaporti, e de’ permessi d’arme, e del giornale officiale; le quali cose tutte saper dovea d’introitarsi da molto tempo per conto della finanza, Se non che, la discorrendo del ministero degli affari ecclesiastici esce di bollo ad una censura, cui il lettore non s’altendea dal tenor della trattazione. Dic’cgli che siasi stato di troppo largo verso la Chiesa con le ultime concessioni fatte dal Re. Sì esistono queste concessioni, ma di qual tempra son desse? Includono, come s’asserisce, un’alienazione di parte del poterle temporale? basta leggerle per saper come quelle non riflettessero nella più gran parte che la giurisdizione circa alla materia beneficiaria, per poco aggrandita in favor delle curie ecclesiastiche, e il Regio Exequatur relativamente alle carte pontifizie, ch’è stato alquanto circoscritto dalla sapienza del Re. Or tutte queste cose erano nella esigenza de’ tempi mutati, i quali son bene d’altra qualità che non quelli d’una volta. Al presente, non pure gli Stati inciviliti, ma la scuola intera de’ dotti ne son venuti fondando un gius pubblico ecclesiastico attemperato sovra ben diversi principii. Essendo ornai riconosciuto da per tutto di constituir la Chiesa Cattolica una società ancor essa, la quale ne debba poter liberamente esplicar le sue facoltà ed esercitar i suoi diritti imprescrittibili e duraturi per tutt’i secoli, per tanto s’é fatta ragione di sogguardar da un lato con occhio non favorevole certe antiche sue pretensioni, ch’eran congiunte ad altro ordine di cose sociali, e dall’altro le sopravvenute reazioni del potere civile. E così facendo equilibrati i pesi della bilancia, or non si rinnega alla Chiesa ciò ch’è di sua appartenenza.

E al proposito della Chiesa, qual stima si vuol che facciamo di questa ed altrettale levità di sentenze, se da un’enumerazione de’ vescovadi napolitani e sardi, onde noi credevam che avess’egli pur voluto accennar a tutt’altro desiderio circa alla condiziou religiosa di quegli alpigiani popoli, si sospigne fin a rampognarci del miglior culto ecclesiastico appo noi? Dice dunque che negli Stati sardi son appena 41 vescovadi, mentre ne’ soli Stati continentali del nostro Regno sen contino 85,oltre a quattro badie, una prelatura ed un priorato; e quindi computando e supputando a modo suo ne tira che i Napolitani s’abbiano una diocesi per ogni 80,000: abitanti, ed i Sardi una per ogni 122,000: Oh sì che questo è un bel risultamento statistico in pro di que’ Cattolici! Dovrem dire d’oggi innanti che essere il proprio pastore a

più code distanze, dover quello pascere più iscarso numero di pecorelle, fosse non pur sprezzevole opportunità, ma d’aversi in conto di gran male. E v’ha forse cosa più importante e solenne, si dal lato della religione, sì dal lato della vera civiltà, che il cattolico episcopato? Non veggiam noi sotto i nostri propri» occhi, ohe generalmente parlando il vescovo nella sua diocesi è il miglior sussidio, di che s’aiuti la debolezza, l’indigenza e l’umana miserie? Forseché, non è questo la storia di tutto l’episcopato della Chiesa Cattolica, constante in tutt’i luoghi e in tutt’i tempi? In parlando delle spese del ministero di guerra e marina, ci le dice accresciute rispetto a’ tempi passali, e qui solo pon da canto la politica, e si riman elaborando in su le cifre, senz’avverlir quanto incremento da questo lato s’abbia sostenuto questo dicastero, sì riguardo all’armata di terra, sì riguardo all’armata di mare. Certo che non istà alcun termine di paragone infra le nostre milizie innanti al 1830,e le milizie attuali. È dovuto alle cure del Re e al suo ispezial genio militare, se ci abbiamo megliorata la soldatesca, e istruiti gli officiali, e cresciuta l’artiglieria e fornita di tutto ciò che ?’abbisogna, e disciplinato l’esercito intero. E come poi chiuder gli occhi a quello spettacolo grandioso d’una flotta e per numero e per portata di navigli rilevante, venuta fuora nello scorcio di pochi lustri? Né il molo militare è opera da metter da sezzo, tra per le difficoltà superate nella costruzione, e la spesa occorsa, tra per l’utilità che n’offre. Or s’intende assai bene come in lutto questo, e nelle somme che all’uopo s’isborsano, non pure sen sia afforzata la dignità e  ‘l nerbo dello Stato, ma la stessa ragion de’ traffichi e delle commercevoli relazioni avvantaggiala.

Ecco per egressioni di qual risma, il signor Scialoia esce spesso spesso di seminalo, intralasciando volentieri la finanza e la pubblica economia, e pèssimamente isdrucciolando ad ogni passo! Ma noi vogliam reassumere le dette cose, e possiam ornai chiudere queste pagine dicendo ed affermando. Che in punto generale di scienza politica, la finanza d’ogni Stato è in corrispettività delle condizioni del benessere sociale, e queste in corrispettività di quella. Che nel Regno delle due Sicilie, un tal fatto economico s’é compito, nell’ordine del reale, con esattezza pari alla dommatica verità nell’ordine dello scibile. Che la finanza e la pubblica prosperità addivenute Fra noi per tal modo corrispettive ed intimamente allegate fra loro, l’indirizzo della civiltà del paese è mai sempre verso il meglio. Ch’è, e sarà gloria incontrastabile per l’Augusto nostro Regnante Ferdinando li. d’aver con fermezza d’animo eguale alla civil sapienza ricongiunte queste due cose, che in tempi più oscuri, si credean dissociabili, cioè la prosperità della finanza e il benessere del civil convitto.

fonte

ELEAML.ORG

 

 

 

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