Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

LA GUERRA CIVILE NEL REGNO DELLE DUE SICILIE (III)

Posted by on Feb 15, 2020

LA GUERRA CIVILE NEL REGNO DELLE DUE SICILIE (III)

Ora un cumulo di tante e tanto gravi calamità, scoppiate improvvisamente addosso a popoli, che non ha guari riposavano nel seno delle pace, ciascuno accanto alla sua vite ed all’ombra del proprio fico, secondo la frase biblica, un tal cumulo, diciamo, saria paruto insopportabile, quand’anche fosse venuto da Governo indigeno, antico ed avente radici ferme e molto intime in quei paesi.

Si consideri quindi che dovrà essere, quando quelle calamità stesse si guardano come portate di fuori da gente straniera, sconosciuta e la quale essi cominciarono a conoscere la prima volta dalla boria del comando, dalla ferocia dell’opprimere, dall’avidità insaziabile del predare e dallo spregio di quanto tra genti cristiane e civili più si riverisce e si onora.
Questi sono i veri, i precipui motivi delle così dette Reazioni che infieriscono in Napoli e nella Sicilia; e gli eccitamenti che se ne pretendono ordinati e mossi da non sappiamo che comitati stabiliti in Roma, in Venezia ed altrove, sono invenzioni e menzogne che non hanno neppur l’ombra del verosimile. Certo le affezioni dinastiche, la tenacità degli antichi ordini e le speranze d’ogni gran bene concepite in un Principe, al quale poco tempo era bastato per farle di sé concepire grandissime, entrano per non poco in quel terribile commovimento, che ora agita i popoli dal Tronto fino all’estremo lembo meridionale della Trinacria. Ma già fu detto che essi forse si sarebbero rassegnati al giogo degli usurpatori, se la costoro o insipienza o nequizia non gli avesse sospinti alla disperazione colla realtà di quel mal governo, di cui essi attribuirono al Pontefice Romano ed al Re di Napoli la calunnia.
Questa, camuffata sotto gli ipocriti e filantropici compianti di una diplomazia senza onore e senza coscienza, potè far buon giuoco nel Congresso di Parigi, per insidiare turpemente ai troni amici e che dicevansi protetti. Ma i popoli tranquilli e contenti non si muovevano, non zittivano; ed in un secolo di regno di Pio IX o di Ferdinando 11 non saria stato necessario un millesimo di quella sanguinosa repressione, di cui si è dovuto puntellare il Piemonte in sei o sette mesi di dominio.
Proscritti senza processo a miriadi; incarcerati per politici sospetti più che a miriadi; dei trucidati per ordine o per connivenza della pubblica autorità non può trarsi più il novero; borgate, villaggi e perfino intere città arse ed incenerite, e tutto questo con un raffinamento di ferocia selvaggia che ne disgraderebbero al paragone le crudeltà croate descritte dai nostri poeti patriottici, con questa sola differenza, che per conto dei Croati quelle erano per nove decimi esagerazioni ed invenzioni poetiche; per gl’ltaliani nel Regno e nella Sicilia sono schietta verità di fatti, che attestano con quanto merito il Piemonte si arroga l’egemonia civile della nazione rigenerata.

Ma quello che nella presente materia dee recare maggiore maraviglia è il vedere come la fazione conquistatrice, la quale pel resto ha pure mostrato di non difettare di avvenimento e di astuzia, non abbia capito fin da principio che, quel contegno di alterigia sprezzante e di violenta compressione, avrebbe distrutto con una mano ciò che si contendeva di edificare coll’altra.
Ma noi, più che insipienza od imperizia, vediamo in questo contegno del Piemonte, a rispetto delle Due Sicilie, quella ineluttabile e quasi fatale necessità, in che spesso si trovano gl’iniqui, quando, per compiere o mantenere l’opera loro, si trovano costretti a valersi di mezzi che di quella sono la distruzione e la morte.
Quinci si origina nell’ordine pratico una specie di circolo vizioso, non guari díssomigliante da quello che i díalettici notano nello speculativo, quando a convincere vera una proposizione si reca un argomento che, in quella proposizione stessa attingendo ogni sua forza dimostrativa, non pure è incapace a convincerla, ma la distrugge.
Certo non ci voleva grande perspicacia per capire che a dieci milioni di esseri ragionevoli non si sottrae di punto in bianco l’autonomia di Stato politico, e non s’impone il giogo di un dominio nuovo ed ignoto, a furia di bruciamenti, di fucilazioni e di mitraglia: e la più volgare avvedutezza avrebbe suggerito di carezzare, di blandire al possibile, almeno sugl’inizii, le suscettività di quei popoli annessi alla corona sabauda, sicché essi appena si accorgessero del mutamento, e, se si fosse potuto, pensassero di avervi guadagnato qualche cosa.
Non vi è sacrifizio che il Piemonte non avrebbe dovuto fare a questo intento; e piuttosto che farneticare intorno a Roma, saria stato molto sottile accorgimento tramutare dalla Dora sul Sebeto, anche solo temporaneamente, la sede del Governo; col che si saria forse assicurato il Regno, non saria pericolato il possesso del Piemonte e di Torino; pogniamo che ne dovessero restare alquanto ferite le pretensioni municipali.
Ma ad ogni modo il non dar fondo alla pubblica e privata fortuna, il lasciare la pubblica cosa in mano ad indigeni, senza insediare troppi stranieri in uffizii anche supremi, e da ultimo il rispettare comunque, e fosse per semplice ipocrisia, la cattolica Religione, che in quelle contrade è parte principalissima della vita domestica e della civile, sarebbero stati tre avvenimenti facili, naturalissimi e da saltare agli occhi di uomini anche meno perspicaci che non sono gli statuali piemontesi, massime quando vi sedea a capo il perspicacissimo conte Camillo.
Ma, li vedessero o no, il certo è che essi furono nell’assoluta impossibilità di recarli in pratica; e ciò per la qualità medesima della loro opera, la quale gli strascinò pei capegli a fare precisamente il rovescio di quello che la più comunale prudenza avrebbe consigliato. E così si videro da ultimo ridotti a tutto dover commettere alla bestiale ferocia dei Cialdini e dei Pinelli, il cui solo intervento, in opera di vasta e sanguinosa repressione popolare, bastava a mostrare perduta moralmente innanzi all’Europa la causa della unità italiana, con molta probabilità che quell’intervento stesso non basterebbe ad impedirne eziandio la materiale ruina.
Della quale durissima necessità, in che si trova la fazione piemontese, di non fare altrimenti da quel che fa nelle Due Sicilie, fia pregio dell’opera accennare la precipua ed intima cagione, perché meglio s’intenda la suprema nequizia dell’opera e la impossibilità, in che questa versa di pigliare mai consistenza od acquistare durevolezza.

Salvo poche aderenze, apparecchiate di lunga mano colla pecunia o colle promesse nella città di Napoli ed in Palermo, in tutto il resto del vasto Reame il Piemonte, a rispetto delle moltitudini, non che nelle simpatie, non era entrato neppure nella contezza, che pure era indispensabile al desiderio.
Quindi avvenne che, compiutasi nel modo che tutti sanno nella capitale l’annessione, il Governo sardo si trovò sconosciuto e solitario in mezzo a popoli che, tenendosene in sospettosa distanza, stettero un tratto, guardinghi e diffidenti, osservando ove andassero a parare le cose.
Esso intanto non ebbe per sé che i reduci dagli esilii, gli usciti dalle galee, un pugno d’illusi, le cui illusioni si dileguavano innanzi alla dolorosa realtà dei fatti, e più di tutti tenacemente gli aderiva quella ribaldaglia vituperosa che parteggerebbe, non che pel Piemonte, ma pel Turco, quando da questo potesse essere licenziata ad ogni genere di ribalderie e di delitti.
Nel resto il clero maggiore ed il minore, il secolare ed il regolare, non volle aver che fare con un Governo che riputò scomunicato ed usurpatore; l’esercito anche sbandato gli si dichiarò fieramente avverso, e rientrato nei proprii focolari non aspettava che un segnale a riprendere le armi pel proprio Principe; l’aristocrazia se ne separò quasi in fascio, ed o si chiuse nei proprii palagi, o riparò a centinaia in Parigi, in Roma ed in altre contrade di Europa; la numerosa falange dei pubblici ufficiali, indigeni e non deposti dai nuovi padroni, se esternamente per domestiche necessità fe’ mostra di loro aderire, ebbe troppe ragioni di esserne stomacata, e non vedea l’ora di mostrare all’aperto ciò che pensa e vuole; l’immensa popolazione delle campagne, per le cagioni accennate di sopra, sospirando al ritorno dell’antico ordine di cose, stette un tratto spettatrice quasi indolente di quel subito rivolgimento, ma oggimai non sa più star alle mosse e si leva in armi e si ordina e combatte con disperato ardimento.
Che più?

Quei medesimi, e non erano pochi, i quali, soprattutto nella Metropoli e nelle città maggiori, allucinati da non so che lustre di beatitudini mai più non viste, aveano vagheggiato o il Governo parlamentare come arra di libertà, o l’unificazione italiana come mezzo di prosperità e di grandezza, hanno avuto tutto l’agio di prendere dai fatti disinganni amarissimi, ma salutari, ed oggi accetterebbero con tutti i suoi difetti, come una benedizione del cielo, quel Governo, verso cui furono od indifferenti od ostili per improvvido speranza di meglio; né forse minori sventure sariano bastate a metter senno in quei cervelli. E così il Piemonte nelle Due Sicílie veggendosi solitario, diserto, abbandonato dal fiore e dal grosso delle popolazioni, ha dovuto afforzarsi della loro porzione putrida e cancrenosa, sotto pena di non avere, in paese che dice suo, anima viva che parteggiasse per lui.
Or questa porzione corrotta e vituperosa del popolo è miserabile, è affamata, né si mantiene in fede che a prezzo di pronti contanti tratti dal pubblico erario già esausto e dalle private fortune lasciate alla mercé loro.
Oltre a ciò essi vorrebbero pubblici carichi, come strumento di prepotenza e fondo da smungere pecunia; e pei minori sono comunemente fatti paghi, intantochè la polizia è tutta in mano di certa schifosa melma, che chiamano Camorra, con bacia di tutto fare contro i reazionari ed i sospetti di borbonismo; ma quanto ai più alti uffizii, questi alla gente onesta e capace fan ribrezzo, non si potrebbero commettere ai traditori dell’antico Governo, i quali, ricevutone il prezzo, dovettero essere, come merce contaminata, buttati via; e quindi la necessità, che si sperimenta in Torino di doversi valere di stranieri imperiti e nuovi, e che offendono i paesani colla medesima loro qualità di stranieri.
Da ultimo, appunto perché le aderenze piemontesi in quelle contrade sono quasi alla sola feccia ristrette, e questa abomina tutto che si attiene a Religione ed a Chiesa, il Governo sardo è obbligato, quando pure non lo volesse, a secondare quelle ire sacrileghe e quel furore di persecuzione ecclesiastica, la quale si mostra, come il carattere più scolpito del nuovo ordine introdotto, per somma nequizia, in quelle contrade.

Ed ecco chiarito quel circolo vizioso, al quale dicevamo sopra essere gli usurpatori colà condannati dall’indole medesima della loro opera innaturale e violenta. Essi, per mantenerla, sono trascinati col capestro alla gola a fare proprio quello che è il mezzo più spedito per distruggerla.
Per avere aderenze e braccia che la sostengono, sono obbligati ad una dilapidazione della pubblica fortuna e ad uno smungimento della privata, che in men di un anno han condotto quelle già sì liete ed opulente regioni ad uno stremo di miseri, di cui ivi la presente generazione non ha memoria. L’impossibilità di trovare nel paese persone sperimentate e capaci che vogliano aiutare dei loro servigi il Governo intruso, obbliga questo a mandarvi da Torino stranieri ufficiali, i quali, nuovi degli uomini e delle cose, appena fanno altro che arruffare via peggio la matassa, lasciando le popolazioni altamente disgustate ed offese dal vedersi padroneggiate da gente ignota, ed imposta ad esse da uno Stato che non è il loro.
Si aggiunga finalmente che un riguardo, quanto che piccolissimo, alla Religione di un paese eminentemente cattolico è al tutto impossibile ad un Governo, condannato a non avere per sé che il rifiuto della società, in tutti gli atei e gli scredenti che gli si rannodarono attorno, per la speranza ed a patto di sfogarne gli antichi mal compresi rancori contro la Chiesa cattolica ed i suoi ministri, nella quale e nei quali aborrono la condanna viva, che quella e questi sono della loro vita inviziata ed infame.

Tra queste condizioni è naturalissima l’impossibilità, in che vedesi il Ministro sardo, di trovare un uomo che riesca a governare uno Stato, che pure era sì tranquillo e di sì facile contentatura governato dai suoi legittimi Principi. 
I Luogotenenti si succedono senza posa; e tutti dalla più deliziosa dimora d’Italia, da un seggio governativo che in ampiezza non ha l’ugual nel mondo, fuggono esterrefatti come se bruciasse colà sotto i loro piedi la terra, e talora neppur basta loro la pazienza di aspettare il successore; tanto tarda loro di far meno cospicuo il fiasco che pur sentono di aver fatto.
A dir solo dei più nominati e che vi durarono più di un mese, al Principe di Carignano non valse nulla il prestigio del nome regio; nulla al Nigra le attrattive di simpatia, onde diceasi adorno; nulla al Ponza la valentia nell’amministrazione, in cui è predicato maestro: e quand’anche Vittorio Emmanuele, aderendo al consiglio datogli, secondo che si riferisce dai giornali, da Napoleone III, fosse ito a piantare in Napoli la sua dimora, noi teniamo per fermo che la Maestà regale non avrebbe fatto in lui pruova migliore; e presto si saria visto obbligato a fuggire a precipizio una seconda volta dal mezzo di un popolo, che rimembrerebbe con rinnovato desiderio la vita intemerata e la pietà regalmente cristiana dell’esule suo Sovrano.

Che sia per ottenere il Cialdini, il quale in vece del prestigio, della simpatia e dell’astuzia, va a comprimere il Regno sotto la suprema ragione del ferro, non si può prevedere; ma tutti colà sono persuasi che la causa della giustizia trionferà presso assai; anzi se ne mostra persuaso lo stesso Piemonte, il quale, colla furia che reca nel saccheggiare Reggie, Musei ed Arsenali, rappresenta bene il ladro che svaligia la casa incalzato alle spalle dalla famiglia del criminale.
Pure non è impossibile che quel feroce, usando ed abusando le forze di mezza Italia, riesca a spegnere nel sangue le legittime e generose aspirazioni dell’altra metà, alla quale indarno i giornali ufficiali ed ufficiosi regalano il titolo di briganti e di ladri. Ma, oltreché quella prevalenza non potrebb’essere che passeggera, in quanto è impossibile che duri lungamente un dominio poggiato sulla sola forza; è grande acquisto per la causa della verità e della giustizia l’essere stata la fazione piemontese obbligata a rompere in un tanto estremo.
Oh! I protettori dei popoli! I paladini dell’indipendenza! Gli odiatori magnanimi di ogni dominazione imposta colla forza! I declamatori furibondi contro l’eccidio di Perugia ed il bombardamento di Palermo! E quale infamia potea venire loro addosso maggiore di questa, che fare essi davvero ciò che finsero aver fatto Pio IX e Ferdinando Il e la stessa Austria?
Se volete vedere un popolo che odia davvero un Governo e vuol sottrarsene, non lo cercate nelle campagne della Polonia russa, né nel Lombardo Veneto, e molto meno negli Stati della Chiesa; cercatelo e lo troverete nelle Due Sicilie, dove le intere popolazioni si battono coll’entusiasmo della disperazione, e si fan macellare per l’abominio che hanno ai veri Croati della Italia. E quando fu mai che una provincia della Lombardia o della Venezia facesse contro gli Austriaci quello che da sei mesi stan facendo le Puglie e le Calabrie, la Capitanata, la Terra di Lavoro, la Basilicata, il Contado di Molise, i Principati e gli Abruzzi contro il Piemonte?

Ricordiamo le fazioni di Brescia e di Vicenza nel 1848; ma in quelle le popolazioni indigene pigliarono poca o nessuna parte; e l’Austria si trovò innanzi stranieri, quasi altrettanti che a Solferino ed a Magenta. Ricordiamo i conati di Milano, di Bergamo ed eziandio delle Romagne; ma il paragonare questi moti colle immense sollevazioni napolitane e sicule, saria il medesimo che agguagliare gli attraimenti galvanici di una ranocchio cogli sforzi poderosi di un uomo vivo, che si contende di frangere i proprii ceppi.
Torniamo a dire: potrebbe la forza bestiale prevalere; e la vendetta di tanto misfatto potrebb’essere dalla divina Giustizia differita ad altro tempo e forse ancora, ma infallibilmente, all’altro mondo. In ogni caso nondimeno l’Europa, spettatrice indolente di tanto assassinio, avrebbe col fatto rinunziato al nobile titolo di mantenitrice della ragione delle genti; i suoi Sovrani ed i suoi popoli che lasciano impunemente assassinare un Sovrano ed un popolo fratello, non potrebbero lamentarsi se loro incogliesse la stessa sventura; e l’Italia piemontese sarebbe convinta di non avere altra attinenza coi veri popoli della Penisola, che la fratellanza di Caino.

LA GUERRA CIVILE NEL REGNO DELLE DUE SICILIE
di p. Carlo Maria Curci S.J.
…………..La Civiltà Cattolica – Serie IV, vol. XI – 8 Agosto 1864

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