Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

La lingua napoletana (III)

Posted by on Nov 5, 2019

La lingua napoletana (III)

L’unità linguistica delle Due Sicilie

Dopo questo excursus puramente esemplificativo della notevole produzione letteraria in lìngua napolitana nei secoli precedenti l’ottocento, torniamo al discorso iniziale ed osserviamo come proprio a partire dagli anni in cui il nostro Regno perde l’indipendenza, vede saccheggiate le proprie risorse economiche e finanziarie, costretta al’emigrazione una gran parte della popolazione, si assiste alla nascita di una vera e propria poesia napolitana, pienamente autonoma rispetto ad altre correnti letterarie dell’epoca, il cui massimo esponente è Salvatore Di Giacomo (Napoli, 1860 -1934), autore di componimenti poi diventati canzoni, come A Marechiaro, Era de maggio, ‘E spingule francese e di numerosi drammi, il più famoso dei quali è senz’altro Assunta Spina.


Ma accanto a Di Giacomo troviamo numerosi altri poeti, quali Ferdinando Russo, Roberto Bracco, Libero Bovio, Rocco Galdieri, Ernesto Murolo e Giovanni Capurro, autore di ‘O sole mio, musicata da Eduardo Di Capua e conosciuta in tutto il mondo.
Nell’introduzione alla sua Antologia dei poeti napoletani (1973) Alberto Consiglio afferma testualmente: “…la nazione napoletana compie, dopo la sua morte politica, il suo più grande alto di vita: inventa una poesia, determina una letteratura.”.
Già alcuni secoli prima, l’umanista Lorenzo Valla (Roma, 1407-1457) aveva sostenuto l’autonomia della lingua rispetto al potere politico, affermando che lingua e cultura superano la durata delle organizzazioni politiche e statali, la cui nascita e la cui scomparsa sono originate da mutevoli rapporti di forza.
In effetti, questo è lo specchio della situazione determinatasi a seguito della cosiddetta “unità d’Italia”: a fronte di un’unificazione meramente politica, calata dall’alto, senza effettiva partecipazione delle popolazioni conquistate, l’identità della nazione napolitana si esprime attraverso la sua lingua, che genera poesie e canzoni, che – grazie anche ai tanti nostri emigranti – avranno fama in tutto il mondo. Nello stesso periodo inizia a svilupparsi il moderno teatro in lingua napolitana, grazie ad autori-attori del calibro di Antonio Petito, insuperato interprete petta. che porta al successo la maschera di Felice Sciosciammocca. Seguiranno nel tempo i fratelli De Filippo, Raffaele Viviani, Antonio De Curtis, in arte Totò, e negli anni a noi più vicini Annibale Ruccello e Massimo Troisi, questi ultimi, purtroppo, entrambi prematuramente scomparsi.
Non possiamo non ricordare, parallelamente, anche il teatro in lingua siciliana. Lo stesso Luigi Pirandello (Agrigento, 1867 – Roma, 1936), vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1934, non sì sottrae all’esigenza di esprimersi nella sua lingua madre e scrive nel 1916 una commedia per il grande attore Angelo Musco (Catania, 1871- Milano, 1937), suo conterraneo, ‘A birritta cu ‘i cìancianeddi, cui seguirà nel 1918 la versione in italiano, intitolata Il berretto a sonagli, in tempi più recenti trasposta in napolitano e rappresentata anche da Eduardo De Filippo.
La stessa canzone napolitana mantiene tuttora una costante vitalità, che si manifesta sia col recupero delle più aulentiche tradizioni popolari, curato negli ultimi decenni dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare sotto la guida sapiente di Roberto De Simone, ma anche da cantautori come Eugenio Bennato e Teresa De Sio, sia con nuove forme di espressione canora che coniugano la lingua napolitana con ritmi musicali d’importazione: basti pensare a Renato Carosone, a Pino Daniele, a gruppi musicali come gli Almamegretta, i Co’sang, i Fuossera.

La complessità dell’argomento richiederebbe tempi ben più lunghi. Concludo, pertanto, osservando che la difesa dell’identità della nazione napolitana non può prescindere dalia difesa della propria lingua: il napolitano è e deve essere considerato a tutti gli effetti una lingua che, pur nella diversità delle sue sfumature ed inflessioni, è tutt’oggi parlata da circa undici milioni di persone, in un’area che comprende l’Abruzzo, il Molise, il basso Lazio, la Campania, la Lucania, la Puglia e la Calabria settentrionale e che s’identifica sostanzialmente con quella parte continentale del Regno fondato da Ruggero II d’Altavilla nel 1130 e durato per oltre sette secoli, fino al 1861; una lingua ampiamente documentata sia da testi grammaticali che da vocabolari, quali ad esempio quelli curati da Antonio Altamura e da Francesco D’Ascoli.
Lo stesso dicasi per la lingua siciliana e per quelle parlate nel Salente e nella Calabria meridionale (corrispondente alla nostra Provincia della Calabria Ulteriore Prima), che con il siciliano presentano notevoli affinità. Ed è superfluo aggiungere che il napolitano ed il siciliano costituiscono sistemi linguistici strettamente apparentati tra loro dalla comune appartenenza alla Romania orientale. Ma qual è il trattamento che la Repubblica italiana riserva attualmente alla lingua dei nostri padri? Alla lingua che ancora oggi, nonostante tutto, continuano a parlare i nostri figli? Lo stesso di centocinquantuno anni fa, quando il “Piemonte allargato'” pianificò il genocidio culturale, oltre che la sanguinosa repressione, degli abitanti del Regno delle Due Sicilie! In base all’art. 6 della sua Costituzione, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, la Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche. In applicazione di tale norma, solo nel 1999 è stata approvata la Legge n. 482, che introduce la tutela della lingua e della cultura di dodici minoranze definite “storiche” ed ivi elencate: si tratta delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il francoprovenzale, il friulano, il ladino, l’eccitano e il sardo. Nulla si dice dei napolitani, dei siciliani, dei veneti, degli emiliani, dei liguri, le cui lingue restano per il vigente ordinamento confinate nel “ghetto” dei dialetti, come tali escluse da ogni riconoscimento ufficiale. Da notare, in particolare, che la Sicilia è ancora oggi l’unica delle cinque regioni a statuto speciale a non vedere riconosciuta e tutelata la propria lingua.
A fronte di ciò, l’Unesco riconosce al napolitano la dignità di “lingua madre”, seconda solo all’italiano, quanto a diffusione, tra quelle parlate nella penisola. E vi sono, peraltro, delle iniziative in taluni ambiti regionali. Ad esempio, in seno al Consiglio Regionale della Campania, durante l’VIII legislatura, è stato presentato il progetto di legge n. 159/1 sulla ”Tutela e valorizzazione della lingua napoletana”, ma esso è ancora in via di approvazione.
In definitiva, sgombrato il campo da inesistenti questioni linguistiche, il problema è di natura squisitamente politica: lo Stato italiano concede la dignità di lingua agli idiomi di chi dispone di mezzi di pressione sufficienti a farsi riconoscere come comunità etnico-linguìstica distinta da quella maggioritaria. Sta solo a noi, dunque, batterci per la tutela della nostra lingua, forti di una cultura e di una tradizione plurimillenarie che non hanno certo bisogno di dimostrazioni.

Massimo Cimmino

fonte http://www.quicampania.it/tradizioni/lingua-napoletana-03.html

1 Comment

  1. Per difendere la propria lingua ed evitare che quella ufficiale adottata per non dire imposta dalla struttura dello stato e dal mercato editoriale, non c’ e’ altro modo che usarla nell’ambito privato e in tutte le occasioni comunitarie piu’ prossime che dall’uso stesso ne trarranno giovamento in termini di vicinanza, utile per diffondere il senso di partecipazione e anzi stimolarlo… teniamo conto che l’ unione fa la forza ed e’ sempre una buona base di partenza per qualsiasi battaglia… anche della lingua, che comunque e’ identita’ e percio’ un valore da salvare. caterina ossi

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