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La luce solare di Itri avvinse Andersen e altri viaggiator del “Grand Tour” di Alfredo Saccoccio

Posted by on Giu 21, 2019

La luce solare di Itri avvinse Andersen e altri viaggiator del “Grand Tour” di Alfredo Saccoccio

Uno scrittore stregato dall’Italia, luogo di incanto, di poesia, di pace e di romanticismo, fu Hans Christian Andersen.Solo pochi addetti ai lavori conoscono il romanzo L’ Improvvisatore di Hans Christian Andersen, che fu l’inizio della fortuna e della fama dello scrittore di Odense, che riversò in esso le molteplici sensazioni accumulate nel suo viaggio in Italia, tra il 1833 ed il 1834, intrapreso a scopo di formazione culturale, grazie al sussidio assegnatogli dal re Federico VI di Danimarca, c he gli elargì una lunga serie di sussidi con cui Hans Christian si mantenne, spianandogli il cammino sulla via della celebrità.Tale viaggio, dei 29 lunghissimi e a volte tragicomici viaggi per il Vecchio Continente, lasciò una traccia rilevante nella sua opera letteraria e permise al famoso autore di fiabe, il re Mida della favolistica mondiale, di trovare se stesso artisticamente, quale disegnatore, un aspetto quasi ignorato della sua attività culturale, meritevole di recupero per la pregnanza espressiva degli schizzi, che prelude a Van Gogh, dai quali traspare una nostalgia per il mondo incantato, di cui è sostanziato L’Improvvisatore, il più famoso dei cinque romanzi dello scrittore danese, una storia parzialmente autobiografica, corredata da osservazioni sulla plurisecolare vicenda storica, sui monumenti e mondi antichi, sugli usi, sui costumi, sul carattere delle popolazioni, sulle tradizioni e sulle feste nel romantico Ottocento,osservazioni acute, grazie agli estri e alla curiosità del Nostro, a cui si deve, assieme al Goethe, la più eloquente ed ispirata descrizione dell’aura mitica che avvolgeva il Bel Paese e delle particolarità spirituali del popolo italiano.
Questo inesauribile, animatissimo flusso di impressioni italiane è espresso, oltre che con ricca vena creativa, con grande spontaneità, essendosi l’Andersen abbandonato agli impulsi della sua natura e alla poesia della sua anima di eterno fanciullo, piena di slanci. Durante la permanenza nel nostro Paese, fecondo in ogni senso, il fulgore abbagliante del sole italiano, la flagranza della campagna, il paesaggio pittoresco, tutto colori, avvinse lo strano lungagnone venuto dal profondo Nord ; fu conquistato dai cieli italiani, soffusi di quell’aura luminosa che è tipica delle regioni meridionali, e dai paesi ancora schiettamente eredi della classicità, impregnati di una presenza soprattutto simbolica.. Le esaltanti visioni della nostra Penisola, in cui convivono, incontrastate, la storia, la storia, l’arte e la letteratura, gli fecero vibrare profondamente le corde del cuore e scrivere pagine palpitanti: per il letterato danese l’Italia era il forziere di tutti i gioielli del mondo, un lacerto di “paradiso terrestre”, di cui sente l’armonia, la purezza, la misteriosa santità, l’intensa umanità, il valore perenne. che unisce il mondo di ieri e quello del suo tempo. Essa era un fulgido sogno, una favola. Tanto più che egli veniva dalle brume del Nord. dinanzi alla tipica luce celeste degli orizzonti italiani, dinanzi alle infinite, profumate essenze mediterranee, dinanzi a tanta pittorica bellezza, che gli fece scrivere: “tutto è come una pittura”, l’animo di Andersen esultava, credendo di trovarsi nel giardino incantato di Armida, di tassiana memoria.Egli si tuffa nell’affascinante, luminosa, morbida natura della fruttifera Campania, a contatto con la vegetazione meridionale della penisola.
Quella del brutto anatroccolo è un’irresistibile attrazione, una fascinazione, una sorta di voluttuosità sensuale per il cielo luminoso, per le vestigia di un grande passato, per il quale affluì on Italia, per secoli, un pellegrinaggio di artisti, venuti come fedeli dell’Islam alla Mecca, e di giovani uomini benestanti del Nord Europa, che intraprendevano il “Grand Tour”, il viaggio di conoscenza attraverso l’Italia, dopo aver terminato gli studi classici e umanistici, oltre a re, a regine, a principi, a papi, a beati, a cardinali, a vescovi, a generali, a sir, a conti, a musicisti, per vivervi in piena luce. I suoi riflessi li affascinano, il suo sole li quetano. Essi vanno a caccia della felicità sulle spiagge, nei giardini, nei palazzi, nei siti archeologici, nei musei, nelle chiese, nei castelli.
Il poeta beveva quest’atmosfera solare, che pervadeva ogni fibra del suo essere, “a lunghe sorsate”, come scrisse alla sua amica Henriette Wulff, una fanciulla gobba ed inabile: “ posso bere un’aria mai gustata prima, mangiare grandi grappoli d’uva e udire le dolci voci che mi fanno sciogliere il cuore. Non provo nostalgia, semmai tristezza al pensiero di dover lasciare questo paradiso!”. Per Andersen l’Italia aveva avuto in dono una cornucopia di frutta e di fiori, che profumavano l’aria, mentre alla Danimarca era toccato soltanto una zolla d’erba e qualche macchia di rovo.
Di fronte allo splendore del sole mediterraneo e alla luminosa atmosfera del Sud, il celebre favolista (per lui la vita è una fiaba e questa fiaba è condotta dall’inizio alla fine dalla Provvidenza divina) sentiva l’impotenza della sua rappresentazione grafica, incapace di rendere le vivide e variegate immagini che vedeva. Un benessere profondo lo invase nel viaggio verso Napoli, in cui restò avvinto da Itri, cittadina di grande importanza strategica… L’allora ventinovenne romanziere, nel suo dettagliato diario, descrive la cittadina aurunca(lo fa con occhi di artista, con vivida immaginazione). La descrizione è di grande vivacità, che il tempo non ha appannato.
Itri per Andersen è una città interessante, che offre molteplici stimoli. Egli mette in bocca a Federigo parole di giubilo, che fanno di questo uno del luoghi particolarmente pittoreschi ed affascinanti dell’Italia. Al confronto, la Danimarca somiglia alla più scialba cittadina di provincia: “Ecco la mia tetra e fangosa Itri! Esclamò indicandomi la città che si disegnava dinanzi a noi. Forse non mi crederete, Antonio, ma vi assicuro che nelle nostre città del Nord, dove tutte le strade sono tanto pulite, tanto larghe, tanto regolari, ho spesso rimpianto le vostre città italiane, dove abbondano i tratti caratteristici, tanto ricercati dai pittori.
Quelle strade sporche, strette, fangose, quei balconi tanto mal mantenuti, dove si asciugano al sole calze e camicie, quelle finestre irregolari, di cui una è in basso, l’altra in alto, qualcuna piccola, qualcuna grande, quegli scalini in pietra che conducono alla porta d’ingresso su cui la madre di famiglia fila al fuso, quel limone carico di frutti gialli, che tappezza la muraglia, tutto ciò crea la scena! Invece da quelle nostre strade uniformi, dove le case sono allineate come soldatini, dove i gradini esterni e i balconi sono stati soppressi, che cosa un artista può trarne fuori?
Ecco la città natale di Fra Diavolo! Esclamarono i viaggiatori dall’interno della carrozza, come entravano in questa tetra e fangosa Itri, che Federigo trovava tanto pittorescamente bella. Essa è situata su una roccia che costeggia un profondo precipizio. In parecchi tratti, la strada principale è abbastanza larga da permettere il passaggio solo ad una carrozza.
La maggior parte dei pianterreni delle case è sprovvista di finestre che sostituiscono una porta d’ingresso, per mezzo della quale gli sguardi penetrano nell’interno di queste dimore tanto buie quanto le cantine. Fummo assaliti da sciami di donne e di bambini cenciosi, che tendevano, tutti, la mano per chiedere l’elemosina. Le donne ridevano, i bambini gridavano facendoci le smorfie. Nessuno osava mettere la testa fuori dello sportello, per paura che fosse schiacciata dai balconi sporgenti delle case, che si proiettavano così avanti nella strada che sembrava talvolta che noi passassimo sotto delle arcate. Da ogni lato, rasentavamo nere muraglie, poiché il fumo dei focolari, non avendo altra uscita che l’apertura delle porte, le rivestiva di uno strato di fuliggine.

  • E’ una città celebre! Disse Federigo battendo le mani.
  • E’ una città di ladri, aggiunse il vetturino quando ne fummo usciti. La polizia ha costretto la metà degli abitanti di Itri a cercare un rifugio in un’altra città dietro le montagne e li ha rimpiazzati con altri…, ma ciò non è servito a niente. Tutto quello che si pianta qui diviene malerba… Del resto, non occorre che la povera gente viva?
    E’ da notare che tutto sembra favorire il brigantaggio sulla strada maestra (la Via Appia, n. d. r.) che va da Roma a Napoli. I boschi d fitti di ulivi, le caverne nella montagna, le costruzioni in rovina sono altrettanti, sicuri rifugi per i banditi”.
    La strada che conduce da Fondi ad Itri, attraverso la collina di S. Andrea, rapisce un viaggiatore francese. “Si arriva a questa rupe – scriveva nel 1836 Augustin Jal – attraverso una pianura carica di aranci e di limoni che si mescolano gradevolmente agli olivi grandi e forti, ai cipressi piramidali, ai pini arrotondati, ad alcune palme eleganti; e la gola selvaggia per dove si sale è coperta della più bella vegetazione di mirti, di lauri e di cespugli di fiori rossi. Se in questi bei paesaggi vi fossero cittadine un po’ civettuole, questa parte del regno di Napoli sarebbe proprio il paradiso”, mentre sembra essere covo di briganti.
    Per molti viaggiatori passare per campagne tanto deliziose, dalle produzioni sì varie, è uno estremo piacere. Il reverendo statunitense J.E. Edwards, 21 anni dopo, rimase colpito dalla profusione di boschetti di aranci e di limoni. A suo dire, “le arance sono di gran lunga superiori a quelle che io abbia mai assaggiato – grandi, succose e deliziose, la polpa tenera come quella di un’anguria matura, e la buccia si toglie facilmente con le dita come si fa con l’involucro di una pasta semicotta al forno.”
    Dall’ Itinerarium Italiae totius…, datato 1602, riportiamo la descrizione del tratto in salita dell’Appia, dopo Fondi: “Per questa, da entrambe le parti fiancheggiate di mirto, verdeggiante e di lauro, si sale dolcemente ai colli feraci di vino e d’olio dove sta il Castello d’Itri”, paese sepolto in una conca tra i monti, le cui invalicabili torri, che misuravano con la loro altezza la paura dei loro abitanti, sono la testimonianza di truci baluardi di difesa, di tempi feroci, di lotte sanguinose contro i saraceni; paese che resta medioevale con le sue stradine che sfociano su scalinate o su fontane.
    Andrea Scoto in Itinerario , overo Nova Descrittione de’ Viaggi principali d’Italia…, guida del 1629, riporta che “si vede il castello d’Itri situato in alcune colline fertilissime di fichi, olive et altri frutti”.

Alfredo Saccoccio

(continua al prossimo numero)

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