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La Questione Meridionale in Verga e Pirandello

Posted by on Ott 16, 2016

La Questione Meridionale in Verga e Pirandello

ilportaledelsud.org da anni ha creato un centro studi del regno, dalla magna grecia fino ad oggi, che è una vera risorsa culturale per tutti noi identitari e questa volta mi permetto di pubblicare una la Tesi di Maturità, Liceo Classico dell’I.I.S.S. “Francesco Crispi” di Ribera a cura di Antonella Danna che merita di essere diffusa perchè ci fa capire come il problema non sono i giovani ma noi adulti.

 

In Europa sono le grandi trasformazioni socio-economiche della seconda metà dell’Ottocento a determinare quel processo di modernizzazione a cui ciascuno stato interessato – e, nel nostro caso, l’Italia – risponde e la cui espressione culturale è riconducibile al pensiero filosofico del Positivismo, basato sulla piena fiducia nelle scienze oggettive o «positive» e nel progresso economico da esse apportato.

Il dilatarsi degli interessi nel campo scientifico, le varie scoperte, le nuove tecnologie avanzate non sorgono casualmente, ma sono strettamente legati alla struttura della moderna società capitalistica, la quale segue la logica del profitto, le leggi dell’economia e dell’alta finanza, la concretezza oggettiva del reale, tratto peculiare, quest’ultima, di tale fase della cultura europea, l’età del Realismo, in cui viene conferita primaria importanza ai dati oggettivi, alla realtà così com’è.

Il progresso, però, come si è potuto evincere da quanto finora detto, non investe tutti allo stesso modo, per cui, di contro e al contempo, si assiste anche al maturare di atteggiamenti contrastanti e rinneganti l’idea di benessere e di miglioramento economico-sociale.

Alla luce di ciò, sul fronte della produzione letteraria, il Naturalismo francese, diffuso intorno alla metà dell’Ottocento, sembra pienamente rispondere a tale complesso spirito del tempo. Nato, infatti, come espressione ideologica della nuova organizzazione sociale e industriale della borghesia in ascesa e, soprattutto, dello sviluppo della ricerca scientifica, della quale viene assunto il modus operandi nella composizione dei romanzi [1], si fa anche mezzo di denuncia sociale delle condizioni di povertà, miseria e degrado fisico e morale in cui imperversano le fasce basse della società non toccate dal progresso tecnologico-scientifico. Notevole è la lezione del più importante rappresentante, Émile Zola, secondo la quale, posto che leggi fisse e deterministiche regolano non solo la natura ma anche i pensieri e i sentimenti, l’uomo, qualora riesca a possedere le leggi generali del suo agire, potrebbe operare sulla società e sull’ambiente per migliorarne le condizioni.

In Italia i fondamenti teorici e la poetica del Naturalismo francese vengono rielaborati da due intellettuali conservatori meridionali, Capuana e Verga, e convertiti nella corrente del Verismo, la quale riprende sostanzialmente gli stessi concetti promossi dai naturalisti, assumendo però un carattere fortemente regionalistico e una maggiore attenzione al mondo rurale.

Infatti, un diverso contesto storico-sociale distingue l’Italia dalla Francia della metà dell’Ottocento, rendendo la prima contadina e preindustriale, con una borghesia conservatrice e convinta dell’estraneità del mondo agrario al capitalismo moderno, la seconda industrializzata, con una classe capitalista e borghese, attiva e dinamica.

Essenzialmente, dunque, il Verismo interpreta il divario economico, sociale e politico che si è venuto a creare, dopo l’Unità, tra il Nord e il Sud. E’ possibile, poi, rintracciare nelle opere di Verga uno spiccato interesse nei confronti della “questione meridionale”, di un “problema”, come si è detto, non ancora identificato dalle istituzioni come problema nazionale.

Nelle opere verghiane lo sfondo storico ed economico-sociale ritornante è quello della Sicilia della metà dell’Ottocento, con particolare riferimento al mondo di pescatori e contadini del catanese, colto nella varietà dei suoi luoghi e dei suoi paesaggi.

È una Sicilia reale, disegnata dallo scrittore sotto diverse prospettive: la mentalità chiusa e gretta ai limiti della giustificazione della monacazione forzata (Storia di una capinera); la povertà secolare del bracciantato agricolo, relegato a livelli infimi di vita (Nedda); la presenza di rituali arcaici basati su antichi codici d’onore, radicati nei comportamenti e nei modi d’essere (Cavalleria rusticana); la presenza di vari strati sociali (il bracciante agricolo, il pescatore, il contadino, il contadino imborghesito, l’ex muratore imparentato con nobili, l’aristocratico nel pieno del dissesto finanziario), estranei a qualsiasi forma di reciproca cooperazione e chiusi nella cieca guerra di tutti contro tutti; l’ambiguo incrociarsi del tempo mitico, con i sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione (Fantasticheria) e del tempo storico, con la guerra, le malattie, la leva obbligatoria; l’analfabetismo, la piaga dell’usura, la gravosa politica fiscale sui meno abbienti con le reazioni del brigantaggio (I Malavoglia).

Rintracciamo alla base della riflessione di Verga sul degrado dell’ambiente siciliano il rifiuto verso le ideologie progressiste contemporanee, che egli considera fantasie infantili e causa di rivolgimenti sociali. Ciò implica un’accettazione critica della realtà esistente: il pessimismo verghiano si esprime, così, nella visione che la società sia dominata da una lotta disumana per la vita [2], dallo sfrenarsi delle ambizioni, dallo scatenarsi degli antagonismi, dalla brutalità dell’avidità dell’uomo. E di fronte all’egoismo individuale, che è una radice del progresso, e ai soprusi della società moderna Verga si prefigge il compito di studiarli per documentare e far conoscere ciò che accade. Nell’Introduzione de I Malavoglia (1881), infatti, scrive: (…) “Solo l’osservatore, travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravveggenti, i vincitori d’oggi, affrettati anch’essi, avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno sorpassati domani” [3].

A questo obiettivo è legata anche la sua attività presso la rivista «Rassegna Settimanale», di cui è uno degli autori, e grazie alla quale, insieme a Franchetti e a Sonnino, cerca di far conoscere sul piano nazionale le condizioni in cui versa il Meridione. In particolare nell’Inchiesta in Sicilia del 1877, Franchetti e Sonnino affermano: (…) “Il lavoro dei fanciulli consiste nel trasporto sulla schiena del minerale in sacchi o ceste” (…) “La vista dei fanciulli di tenera età, curvi e ansanti sotto i carichi di minerale, muoverebbe a pietà, anzi all’ira, perfino l’animo del più sviscerato adoratore delle armonie economiche” [4]. L’influenza in Verga della loro opera è evidente sia in Rosso Malpelo (1878) sia ne I Malavoglia, relativamente alle tematiche affrontate dello sfruttamento dei bambini nelle miniere, della corruzione, dei danni provocati dalla leva militare alla popolazione, del sistema tassativo che colpisce solo i poveri, ma, soprattutto, della tesi secondo cui l’usura sia il cancro che distrugge l’economia siciliana impedendo lo sviluppo della piccola proprietà [5]. In particolare, è nella novella Rosso Malpelo che emerge la realtà di povertà e sfruttamento delle classi disagiate, in cui i “carusi” sono costretti a lavorare. In più Verga compie una serie di parallelismi tra gli animali da lavoro e le condizioni crudeli e le modalità disumane in cui i bambini e i ragazzi sono costretti a lavorare nelle miniere di zolfo. Al tema dello sfruttamento si associa quello economico, in quanto i lavoratori vengono pagati con quanto basta al loro sostentamento. Parallelamente alle novelle, Verga compone il Ciclo dei Vinti, in cui afferma di voler condurre (…) “lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi, nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere”. E, attraverso i protagonisti dei cinque romanzi componenti il ciclo, presenta al lettore gli aspetti negativi di questa nuova società borghese, presa dalla “lotta pei bisogni materiali”. insistendo sull’avidità, sull’egoismo e su quanto vi è di “meschino negli interessi particolari”.

In particolare, è il romanzo I Malavoglia a farsi portavoce di quella “fiumana del progresso”penetrata nel sistema arcaico siciliano disgregandone la compattezza e rovesciandone gli equilibri. L’azione ha inizio all’indomani dell’Unità e mette in luce come il piccolo villaggio siciliano di Aci Trezza sia investito da una rapida trasformazione della società rurale e arcaica. Tale modernità si presenta con l’introduzione della leva obbligatoria, che sottrae braccia al lavoro, mettendo in crisi la famiglia come unità produttiva. Si pensi alla partenza di ‘Ntoni per il servizio militare, che sarà l’inizio delle difficoltà economiche e delle sventure che rompono l’equilibrio della famiglia Toscano e turbano l’atmosfera tranquilla del villaggio. E’ proprio a causa dei problemi economici che i Malavoglia si inseriscono nel flusso delle trasformazioni socio-economiche, divenendo negozianti di lupini da pescatori che erano sempre stati, e, non potendo controllarlo nel loro piccolo, ne vengono inghiottiti. Il personaggio in cui si incarnano le forze disgregatrici della modernità è lo stesso giovane ‘Ntoni: egli è venuto in contatto con la realtà moderna e capitalista e per questo non riesce più ad accettare l’immobilismo del suo paese. Da qui nasce lo scontro con lo spirito tradizionalista di padron ‘Ntoni, il quale è portatore dei valori antichi della famiglia e dell’attaccamento agli affetti e al focolare, che contraddistinguono la società siciliana dal resto dell’Italia.

Ad una più attenta analisi, poi, comprendiamo che Verga non si propone esclusivamente di criticare l’ottimismo positivistico, ma che dà anche voce all’estraneità e alla diffidenza dei personaggi nei confronti dello Stato, visto come vessatore. Gli abitanti del meridione, infatti, si sentono lontani dal sentimento dell’“essere italiani”, del combattere e lavorare per la patria, a causa del risentimento comune contro la tassazione imposta dopo l’unificazione: (…) “Li dovrebbero abbruciare, tutti quelli delle tasse” [6].

L’irrequietezza di ‘Ntoni, che deriva dalla consapevolezza che si potrebbe star meglio, si esprime nel desiderio struggente di voler “cambiare stato” [7] per poter migliorare le condizioni di vita della sua famiglia. Da tale intenzione viene subito distolto da padron ‘Ntoni, rappresentante, come si è detto, della vecchia generazione, il quale in un dialogo col giovane afferma: (…) “Per me io voglio morire dove son nato” [8]. In più avvisa il nipote dicendo: (…) “guardati dall’andare a morire lontano dai sassi che ti conoscono”, (…) “Chi cambia la vecchia per la nuova, peggio trova” [9].

Ed è questo venire meno della fedeltà alle origini che viene punito implicitamente da Verga. Il rimaner legato alle origini, ai valori della famiglia, del lavoro e delle tradizioni ataviche costituiscono gli elementi di base di quello che Verga definisce l’“Ideale dell’Ostrica”, necessario per evitare che il mondo, cioè il “pesce vorace”, divori l’individuo.

Giovanni Verga

Il conflitto generazionale tra ‘Ntoni e padron ‘Ntoni, che é sorto essenzialmente per le difficili condizioni economiche in cui versa la famiglia, causate da una “mancata” azione politica italiana, trova punti di contatto con I vecchi e i giovani di Pirandello, in cui il conflitto scaturisce tra “i vecchi”, che non hanno saputo tradurre in realtà il progetto di rinnovamento politico, economico e morale della nazione alla base del Risorgimento, ed anzi consegnano ai propri eredi un’Italia corrotta e disgregata, e “i giovani”, oppressi dalla mancanza di prospettive future, desiderosi di cambiamenti, ma velleitari e incapaci di elaborare risposte vincenti, soffocati da una società ormai cristallizzata. Ma il titolo del romanzo, I vecchi e i giovani, non indica un urto risoluto tra le due generazioni, volendo piuttosto alludere alla triste eredità morale e civile che i figli hanno ricevuto dai loro padri. Carlo Salinari, critico letterario italiano, che ha compiuto studi sulle opere di Pirandello, scrive: “Nel romanzo si ha l’acuta consapevolezza di tre fallimenti collettivi: quello del Risorgimento come moto generale di rinnovamento del nostro Paese, quello dell’Unità come strumento di liberazione e di sviluppo delle zone più arretrate e in particolare della Sicilia e dell’Italia meridionale, quello del socialismo che avrebbe potuto essere la ripresa del movimento risorgimentale, e invece si era perduto nelle secche della irresponsabile leggerezza dei dirigenti e della ignoranza e arretratezza delle masse” [10]. Alla base del romanzo, Pirandello pone, infatti, quell’“ideologia sicilianista”- molto vicina alla “sicilitudine” di Sciascia che influenzerà e distinguerà la letteratura dell’isola – come manifestazione dell’accusa allo Stato di ridurre la Sicilia a colonia piemontese, di soffocarla con una “piemontizzazione” forzata.

Pirandello offre un quadro drammatico e realistico del mondo siciliano, dando la parola ad un personaggio del romanzo, donna Caterina, che dice: (…)“Qua c’è la fame, caro signore, nelle campagne e nelle zolfare; i latifondi, la tirannia feudale dei cosìdetti cappelli, le tasse comunali che succhiano l’ultimo sangue a gente che non ha neanche da comperarsi il pane”[11]Il romanzo diviene, quindi, il simbolo di un’economia siciliana ormai crollata a causa della crisi dell’industria mineraria e della miseria delle campagne, di un passato agognato e di un futuro incerto. Dall’opera emerge il pessimismo pirandelliano sulle sorti della sua terra natale, la Sicilia, Agrigento. Una Sicilia capro espiatorio sia della Destra storica, fautrice di“tribunali militari” e di “processi politici ignominiosi”, sia della Sinistra storica, portatrice di“usurpazioni e truffe e concussioni e favori scandalosi e scandaloso sperpero del denaro pubblico” “oppressione dei vinti e dei lavoratori, assistita e protetta dalla legge”.

Oltre alla questione economica siciliana, Pirandello affronta quella che lui definisce la“bancarotta del patriottismo”. Egli si sente offeso non solo nel suo sentimento di patriota italiano, ma anche di patriota siciliano, poiché, identificando il Risorgimento con il moto garibaldino dei Mille e dei “picciotti”, è fortemente consapevole del contributo che la Sicilia ha dato ad un’ Unità che si è rilevata ingrata e deludente.

Verga e Pirandello si ergono a sostenitori della loro terra, delle loro tradizioni, culture e valori e riescono a convergere nelle loro opere tutto il dissenso per una politica che “per la Sicilia” continua a mancare dall’unificazione. L’Italia per i due autori siciliani non è motivo di orgoglio, ma diviene oggetto di analisi, di critica e di sdegno. Grazie alle loro opere il quadro storico, socio-economico e politico viene a essere presentato realmente e drasticamente senza sotterfugi.

Luigi Pirandello

Una Sicilia depredata in Cicerone e una Sicilia idealizzata in Teocrito

Così come Verga e Pirandello evidenziano la realtà di una Sicilia “piemontizzata”, denunciando una mancata azione politica di un governo “straniero”, cosi Cicerone duemila anni prima aveva denunziato ai giudici romani le ruberie di Verre ai danni dei siciliani.

Antica, dunque, risulta essere la cattiva gestione dell’amministrazione da parte di un potere lontano e incurante nei confronti della realtà dell’isola.

Nel 70 a.C. si presenta a Cicerone l’occasione per affermarsi come oratore e per dimostrarsi uomo politico non disposto a coprire gli interessi dei clan nobiliari: la provincia di Sicilia, infatti, dove è stato come questore alcuni anni prima lasciando un buon ricordo di sé, gli affida l’incarico di promuovere l’accusa de repetundis contro il suo ex governatore Gaio Verre, giunto al termine del mandato.

Cicerone, così, si reca in Sicilia per condurre la inquisitio, per raccogliere prove e testimonianze.

Verre che invano aveva cercato di evitare il processo e, attraverso un espediente procedurale, di far sì che l’accusa fosse sostenuta da Q. Cecilio Nigro, suo ex questore e amico, che naturalmente l’avrebbe condotta “morbidamente”, schiera un imponente collegio di difesa, il quale sceglie la tattica di “tirare in lungo” il più possibile in modo da rinviare la conclusione del processo all’anno successivo, quando Ortensio Ortalo, il più grande e famoso avvocato di Roma e suo difensore, avrebbe assunto il consolato, e un altro amico, Gaio Marcello, sarebbe stato pretore.

Ma Cicerone cerca di accelerare i tempi, pronunciando un serrato discorso di appena un’ora e passando immediatamente all’interrogatorio dei testimoni.

Verre, convinto che la partita era stata persa, parte per Marsiglia in volontario esilio e il tribunale pronuncia un verdetto di condanna, infliggendo all’imputato una multa.

Cicerone, dunque, vince trionfalmente la causa e non ha bisogno di pronunciare le cinque circostanziate orazioni d’accusa che avrebbero dovuto costituire il “pezzo forte” del processo (Actio secunda), ma non rinuncia a pubblicarle [12].

Nell’Actio prima della In Verrem, con lo scopo di ottenere il giudizio di colpevolezza sull’imputato, l’oratore cerca di far sentire in colpa i senatori romani che troppo spesso hanno assolto i governatori posti in stato d’accusa dalle province. Ne viene, pertanto, fuori una disanima sull’esercizio del potere anche da parte dei senatori romani che dovranno giudicare Verre.

“Già da un pezzo ha messo radici un’opinione esiziale per la repubblica e pericolosa per voi, un’opinione che si è straordinariamente diffusa per il gran parlare che ne fanno tutti non solo da noi ma pure tra i popoli stranieri: che cioè da tribunali come quelli attuali nessun uomo facoltoso, per quanto colpevole, potrebbe mai uscire condannato. E adesso, proprio in un momento così critico per la vostra classe e per la giustizia che è nelle vostre mani, quando c’è gente pronta ad attizzare con pubblici comizi e proposte di legge l’odio che si nutre contro il senato, ecco portato in tribunale come imputato Gaio Verre, un uomo già condannato dalla pubblica opinione per la sua vita e le sue azioni, ma già assolto, stando alle sue speranze e alle sue affermazioni, per le immense ricchezze che possiede”[13]

Cicerone fa riferimento all’odio e all’ira che non soltanto il popolo romano ma anche i popoli stranieri, come ad esempio quello siciliano, hanno maturato nei confronti dell’ordo senatorius.

La pessima applicabilità delle leggi e il mancato rispetto del loro valore fanno sì che la classe senatoria venga riconosciuta non come garante della giustizia che detiene, ma come colei che, tutelando e sostenendo chi possiede ricchezze, incentiva le diseguaglianze sociali, sia dentro, sia fuori la città di Roma. Il Senato è, dunque, discreditato nell’esercizio del potere e si attira, pertanto, la “vergogna comune”.

Cicerone lo biasima per l’annullamento di “quel sacro rispetto della verità che è proprio dei tribunali” e, così facendo, arriva a rendere evidente che allo stato è mancato un vero tribunale.

I senatori dovranno allora riguadagnare la stima perduta, riconquistando la simpatia del popolo romano e soddisfacendo il popolo straniero con la condanna di Verre, “uomo che ha ridotto la provincia di Sicilia alla totale rovina”.

“Sotto il governo di costui i siciliani non hanno potuto ottenere il rispetto né delle loro leggi né dei decreti del nostro senato né dei diritti comuni a tutte le genti; in Sicilia ognuno possiede solo quel tanto che si è riuscito a sottrarre a questo campione di avidità e di dissolutezza o perché ne ignorava l’esistenza o perché gli pareva superfluo tanto ne era sazio”.[14]

Cicerone identifica Verre con il governante che ha giudicato le cause secondo “capriccio” e che, con la forza dell’“iniqua sentenza”, ha privato delle proprietà il padrone.

Le malefatte riguardanti la cattiva amministrazione della Sicilia sono tante: il nuovo e criminoso sistema di tassazione sulle proprietà agricole; il torturare e giustiziare come schiavi cittadini romani; l’apertura ai pirati e ai predoni di città e porti fortificati e sicuri; il fare morire di fame marinai e soldati siciliani; il perdere con grande disonore del popolo romano ottime e utilissime flotte.

Il pretore ha, inoltre, spogliato l’isola degli antichissimi monumenti: delle statue, delle opere d’arte appartenenti alle comunità che volevano, così, abbellire le loro città, dei santuari più venerati, dei quali ai siciliani non è stata lasciata nessuna immagine sacra di discreto pregio.

Nei ritratti che Cicerone esegue, Verre, così tanto vergognosamente dissoluto, e l’ordo senatorius si fanno, dunque, rappresentativi dell’uso non equilibrato e fortemente egoistico del potere, principale motore delle calamità che affliggono la Sicilia.

Il mal governo dell’isola ci consegna, così, l’immagine di una Sicilia amara, lontana dal tempo degli dèi, dall’infanzia del mondo, dall’età di semplicità e di innocenza che i poeti cantavano.

Il mal governo dell’isola ci consegna, così, l’immagine di una Sicilia amara e depredata che sembra richiamare quella che Verga e Pirandello dopo duemila anni ci hanno dato.

In particolare dall’analisi che Cicerone, Verga e Pirandello hanno compiuto, sul piano di una letteratura più impegnata, come la prosa di stampo realistico o un’orazione, emerge una Sicilia storicamente “avvelenata” da una politica colonizzatrice e non governatrice, ma sul piano abbiamo ben altre immagini della Sicilia, come luogo non da cui evadere, ma come meta dell’evasione. Questa angolo di prospettiva ci viene offerta da Teocrito di Siracusa, nei cui idilli, pur non mancando l’artificio letterario, si possono cogliere immediatezza e spontaneità della campagna siciliana, semplice e ingenua, felicemente colorita e sonora, a cui il poeta alessandrino pensa come sfondo sereno in cui svolgere la sobria naturalezza della vita di ogni giorno.

Emergono gli aspetti più delicati e più semplici della vita della gente, per lo più umile, ma sempre laboriosa e onesta, le cui passioni si acquietano e le cui speranze sono consolatorie, ed è diffuso un sereno e gioioso senso della vita.

Due sono, infatti, gli elementi costitutivi di questi componimenti: la natura e l’uomo.

L’uomo con i suoi canti, le sue preoccupazioni, i suoi amori felici o infelici occupa una posizione dominante; la natura fa da cornice, ma appare spesso così fresca e intatta che sembra permeare tutto di sé e diventare a sua volta protagonista.

Sempre uguale a se stessa, la campagna di Teocrito è quella nel pieno rigoglio dei frutti, dardeggiata dal sole accecante delle ore calde e afose della giornata, da cui l’ombra degli alberi e il fresco mormorio delle fonti offrono un confortevole riparo a mandriani e pastori. Essa è una natura “benigna”, favorevole all’uomo, dalla quale però emerge un forte individualismo per la vita solitaria vissuta dai suoi abitanti con i suoi pregi e difetti.

Pertanto, il paesaggio d’ispirazione siciliana, tra concretezza e atmosfera rarefatta ed evasiva, si staglia in tutta la ricchezza e nello splendore dei suoi elementi caratterizzanti: sole, spighe, cactus, viole, giacinti, rose, crescioni, mele, lenticchie, otri, aceto, rocce durissime, cani che assaggiano salsicce, capre, pecore, lupi, rane. E’ “Demetra, ricca di frutti, ricca di spighe”che rende “questo terreno buono a faticare”, in cui i braccianti stringono i covoni e battono il grano, scansando il sonno e riposandosi nell’ora più calda. Odori, suoni, colori, sensazioni tattili connotano il paesaggio tra realtà e idealizzazione. Infatti, in Teocrito si nota una certa tensione tra idealizzazione e oggettivismo, tra dichiarata aspirazione a descrivere della realtà e irresistibile tendenza a evadere da essa. Questa sovrapposizione di reale e fantastico rende la poesia teocritea un unicum nella letteratura occidentale. Nonostante si parli di “realismo”, in quanto l’analisi della realtà nasce da una precisa osservazione, la poesia di Teocrito non presenta i tratti sociologici dell’opera narrativa di impianto naturalista e verista, ma con ciò essa si dimostra un palliativo di fronte a quei mali che hanno da sempre afflitto la società siciliana e a cui non si mai posto rimedio non solo per una politica “deviata”, come quella di Verre, rispetto a quelli che sono i reali bisogni del popolo siciliano, ma anche come disse Pirandello per un’istintiva paura dei siciliani della vita, per cui si chiudono in sé, appartati, contenti del poco, purché dia loro sicurezza.

Note

[1] Si affidava al romanzo il compito di fungere da ricerca sociale e psicologica – attraverso attente e precise indagini di ordine socio-economico, effettuate direttamente sul campo, e basate sul rigore scientifico, e, quindi, l’apertura ad una varietà di osservazioni relative al costume e alla società – e di porsi come riflesso della storia morale contemporanea.

[2] A tal proposito è doveroso fare riferimento alla diffusione e alla relativa influenza delle teorie evoluzionistiche elaborate da Charles Darwin e avviate in opere come L’origine della specie (1859) e L’origine dell’uomo (1871). Con esse la presenza dell’uomo sulla terra non è altro che il frutto di un lungo e lento processo evolutivo, attraverso varie fasi di dura «selezione naturale».

[3] Prefazione in G. Verga, I Malavoglia

[4] L. Franchetti- S. Sonnino, Inchiesta in Sicilia, Firenze 1974 pp 273-274

[5] Ne “I Malavoglia” è possibile individuare nel personaggio dello zio Crocifisso la personificazione di tale pratica. Cfr. G. Verga, I Malavoglia, cit.

[6] G. Verga, I Malavoglia, cit., cap IV

[7] G. Verga, I Malavoglia, cit., cap XI

[8] G. Verga, I Malavoglia, cit., cap XI

[9] G. Verga, I Malavoglia, cit., cap XI

[10] C. Salinari, Miti e coscienza del decadentismo italiano, Milano 1978

[11] L. Pirandello, I vecchi e i giovani, Milano 1993 cap. III

[12] M.T. Cicerone, In Verrem, in Orazioni, a cura di G. Bellardi, Torino, 1978-1981.

[13] M.T. Cicerone, In Verrem, cit., 1-3.

[14] M.T. Cicerone, In Verrem, cit., 13-15.

Antonella Danna ha ottenuto il voto 100/100 all’esame di maturità. Pubblicazione Internet de Il Portale del Sud, luglio 2013

fonte testo e foto

ilportaledelsud.org

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