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La reggia di Caserta: i discendenti del Re Sole si creano la loro Versailles

Posted by on Feb 19, 2018

La reggia di Caserta: i discendenti del Re Sole si creano la loro Versailles

Caserta è una moderna città posta a 68 metri sul livello del mare, ai margini della ricca pianura del fiume Volturno, ai piedi del monte Tifata . Centro agricolo, dove si produce vino, olio, tabacco, cereali, e industriale (industria chimica, meccanica, tessile, del tabacco, del vetro). Essa è famosa soprattutto per la sua grandiosa Reggia e per il superbo parco.

Carlo III, il quinto figlio di Filippo V di Spagna e dell’ultima dei Farnese, Elisabetta, così pure, conseguentemente, pronipote di Luigi XIV, il “Re Sole”, era il primo dei Borbone di Napoli. Come il suo avolo, egli aveva il gusto della caccia e della costruzione. Caserta, giustamente definita la “Versailles d’Italia”, ben ci dice la sua smisurata ambizione.

Carlo III voleva un palazzo che sarebbe come l’emblema della sua magnificenza, il colpo maestro del suo regno, che si avvaleva dell’opera di illuminati ministri, particolarmente il Tanucci e il Fogliani. Senza essere un astro, il re vedeva in grande. Alcuni si facevano beffa della sua megalomanìa: “Più piccola la monarchia, più grande il palazzo”. Tuttavia, alla maniera dell’artista ed archeologo francese Dominique-Vivant Denon, che passò sette anni (1779-85) all’ambasciata francese a Napoli, molti contemporanei vi riconosceranno “uno dei più nobili edifici del genere in Europa, per l’ampiezza come per l’altezza”, largo 184 metri e alto 36 metri, con quattro immensi cortili interni, divisi da due braccia a croce.

Per soddisfare il suo regale desiderio e forse per imitare il genitore, che aveva creato, sopra il villaggio di Sant’Ildenfonso, nella sierra di Guadarrama, la “Granja”, l’Escuriale, l’ottava meraviglia del mondo, come lo definisce il De Amicis, la Versailles della Spagna, il Borbone fece ricorso ad una delle stars dell’architettura d’allora, Luigi Vanvitelli.Tra Carlo di Borbone, un ottimo sovrano, e Luigi Vanvitelli, un grande architetto, nacque quasi un idillio, che fruttò tante cose belle a Napoli, oltre che a Caserta, a testimonianza di un’epoca fervida e felice.

Nato a Napoli nel 1700, figlio di un pittore d’Utrecht, Caspar Van Wittel, che aveva italianizzato il suo nome, Vanvitelli, quando presenta, nel 1751, i suoi progetti per Caserta, è all’apogeo della sua arte. Un anno più tardi, lo stesso giorno del trentaseiesimo anniversario del sovrano, il 20 gennaio, era posta “la prima pietra”, benedetta dal nunzio apostolico, Mons.Ludovico Galtieri, Arcivescovo di Mira, di questo colosso architettonico che segna una tappa fondamentale nell’evoluzione dell’architettura italiana, una meraviglia architettonica che stupì alquanto i funzionari scesi dal Nord per dare lezioni di civiltà ai meridionali, dipinti come rozzi, primitivi, loro che non conoscevano il bidet, che, in una relazione di un funzionario, fu catalogato come “uno strano oggetto a forma di chitarra”. Quel giorno il corteo reale era composto da dignitari, nobili, ambasciatori, funzionari. Furono sparati numerosi colpi di cannone e furono coniate medaglie d’oro con iscrizioni inneggianti ai sovrani.

La reggia, per la cui costruzione occorsero ventidue anni di intenso lavoro, è appena a una mezz’ora a nord di Napoli. Si è passato tutto un paesaggio costruito a calcestruzzo, di raccordi anulari stradali, di torri e di suburbii, patibolari a piacimento. E’ lontana la “Campania Felix” degli antichi. Poi c’è il palazzo, immenso caseggiato di pianta rettangolare, che richiama alla mente, per la sua austerità solenne, l’Escurial o il convento barocco di S. Antonio, a Mafra, in Portogallo. Con le sue facciate di una monotonìa sovrana, le sue innumerevoli finestre (1.790), le sue mille e duecento stanze (stupendi i saloni neoclassici delle Guardie, degli Alabardieri, di Alessandro il Grande, di Marte, di Astrea, del Trono, del Presepe, delle Stagioni e le camere da letto di Gioacchino Murat e di Francesco II, sontuosamente arredate e decorate), i suoi trentaquattro scalini di collegamento interno e le sue sale di gala, ciascuna delle dimensioni di una hall di stazione, Caserta ispira più la considerazione che l’emozione.

L’opera di Luigi Vanvitelli, nel fastoso interno, è di espressione barocca, mentre frontalmente, per duecentocinquanta metri, sigilla il nuovo gusto classicheggiante.

Il vestibolo poligonale, animato dallo scenografico scalone a terraglia, è un tributo pagato alla fantasia e al preziosismo del Rococò. Questo elefante non è cambiato da quando Algernon Charles Swinburne, poeta inglese, nel 1770, ne stese una maniera d’inventario, che oscilla tra l’elogio (“un edificio così spazioso, così magnifico è degno d’ospitare gli antichi padroni del mondo romano”) e il disappunto. Alcuni anni più tardi, Henry Beyle, meglio conosciuto come Stendhal, a sua volta, dirà la delusione di fronte a questo casamento magniloquente e gelido, ma dove il re Borbone potreva starsene sicuro come in una fortezza.

Allora, perché correre fin qui? Per una decorazione in cui si urtano a profusione il rococò, il Direttorio e il neoclassico?

Piuttosto per gli spettri che l’abitano, o per il loro ricordo. Per la memoria, la

nostalgia di una vita di corte, i trompe-l’oeil deliziosi del teatrino di corte di Ferdinando IV, a ferro di cavallo, bell’esempio di architettura teatrale del Settecento, con cinque ordini di logge, con basamento marmoreo rosso su cui poggiano dodici colonne corinzie, di bellissimo alabastro, provenienti dal tempio di Serapide di Pozzuoli, i resti di un mobilio traslocato dalle Tuileries e il letto di Gioacchino Murat, drappeggiato d’orgoglio e di seta, letto monumentale, che, un tempo, cullerà i sogni folli di questo figlio di contadini del Quercy, sciabolatore e dandy, re di Napoli, effimero, per grazia di suo cognato, Napoleone Bonaparte, l’imperatore dei Francesi.

Forse per la pinacoteca, con dipinti del Mengs, del Conca e del Bonito e con una collezione di nature morte di pittori napoletani, forse per gli egregi lavori in legno, in marmo, in stucco, in cristallo, forse per gli eleganti fabbricati che fanno corona alla reggia, in un’atmosfera tutta luce e profumo, per i giardini e per i campi di cedri e d’aranci tutto intorno.

La fama della reggia di Caserta, che fa da sfondo ad una grande piazza ellittica, è legata anche al suo parco, lungo ben 3 km., che occupa una superficie di 120 ettari, progettato dallo stesso Vanvitelli, la sua prospettiva stravagante, tutta la scenografia di cascate monumentali, di fontane maestose, di aiuole fiorite e di pietre cementate con conchiglie, che costituisce, a nostro parere, il capolavoro di Vanvitelli, che vi elabora tutte le esperienze dell’arte giardinièra europea. Qui l’architetto, approfittando del movimento naturale del terreno, lega in catena cascate (una di esse presenta gli allegorici gruppi scultorei di Diana e di Atteone, eroe e cacciatore troiano, allevato dal centauro Chirone, che aveva osato guardare la dea, mentre, con le sue ninfe, stava per discendere nella fonte Partenia, ai piedi del Citerone, per tergersi le membra dalla polvere di una battuta di caccia, per cui fu dilaniato dai cinquanta suoi cani, che non l’avevano riconosciuto, scambiato per un cervo, poiché la pudica Diana, protettrice dei giovinetti e delle fanciulle incorrotte, gli aveva gettato addosso una pelle di cervo), peschiere (la più lunga misura 475 metri) e fontane entro le masse di vegetazione. Esse, ornate da numerose statue, sono alimentate dall’ “Acquedotto carolino”, quello di Maddaloni, anch’esso progettato dal Vanvitelli, che raccoglie le principali sorgenti dei monti del Taburno con un percorso di 40 chilometri attraverso viadotti (famoso quello denominato “Ponti della valle”) e gallerie scavate nelle montagne. Delizioso il Giardino Inglese, voluto nel 1782 dalla sovrana di Napoli, Maria Carolina d’Asburgo, all’estremità nord del parco, costituito da alberi esotici e molto rari e da un roseto composto da ben 253 varietà di rose ( “ Alba”, “ Galliche”, “Damascene”, “Chinensis”, “Carolinae”, “Centifoliae”), alcune di grandi dimensioni; giardino che, per desiderio della regina,       deve esprimere tutta la potenza della dinastia borbonica e nel contempo sia un luogo di svago per lei e per i pricipi, ben 18, di cui sopravvivono solo 7.

Si incontrano le fontane percorrendo il viale mediano. Sono di ispirazione mitologica, come ci suggeriscono i loro nomi: Eolo, Cerere, Venere e Adone, i Delfini. Una vera e propria meraviglia scenografica è la “Grande Cascata”, alta ben 70 metri, che discende con andamento graduale tra due rive verdeggianti.

Per un bel pezzo i napoletani vi passeggiano in famiglia come i parigini a Versailles o a Saint-Cloud; dei ragazzi lanciano i loro aquiloni verso un cielo ridipinto di fresco, dei calessi vanno al trotto, inzavorrati di giapponesi, le cui Nikon mitragliano a tutto spiano.

A Caserta, nella sala del trono, e quasi ci si distacca un poco il collo, si analizzano quarantaquattro medaglioni, ciascuno con l’effigie di un re di Napoli. Dinastia composita, che va dal normanno Ruggero II all’ultimo Borbone, Francesco II, spossessato della sua corona, nel 1860, dalle camicie rosse di Giuseppe Garibaldi. All’appello manca l’aiutante di campo e cognato di Napoleone, Gioacchino Murat, il bel sciabolatore, marito di Carolina Bonaparte (1800).

Caserta, però, non è solo la maestosa e vasta Reggia, patrimonio Unesco dal 1997,   ma anche il borgo medioevale di Casertavecchia, a 7 km. dalla Caserta moderna, fondato nell’VIII secolo dai Longobardi sul Monte Virgo, posto a 62 metri sul livello del mare, sui resti della città romana di “Saticola”, che sorgeva sulle pendici meridionali del monte Tifata.

La torre circolare di Casertavecchia, che si erge a sentinella sulla pianura, è alta 30 metri, a cui dovrebbe aggiungersi l’altezza delle mura merlate, oggi distrutte, con un diametro esterno di 18 metri. L’altezza dal suolo della porta di accesso alla torre è di 12 metri. La cittadella medioevale, arroccata su un colle, dal 15 ottobre 1960 monumento nazionale, poi acquisito al patrimonio comunale, è diventata la Gradara del Mezzogiorno d’Italia. Da qui si può godere una splendida vista sulla pianura sottostante fino alla costa marina, sul Vesuvio e sulla collina del Vomero. Siamo sui Colli Tifatini.

Il toponimo sembra che derivi da “Casa Hirta”, cioè “Casa Erta”, casa sull’altura. La prima menzione di “Casa Hirta” la si deve al monaco Erchemperto, nell’opera “Storia dei Longobardi di Benevento”. Il riferimento è all’anno 861.

La ferrigna torre, la seconda in Europa per diametro, dopo quella di Costanza, ad Aigues Mortes, in Francia, citata, per la prima volta, nei registri angioini, nel 1271, probabilmente è stata eretta tra il 1240 e il 1250, forse dall’architetto Nicolò di Cicala, ispirata alle due torri federiciane di Capua, prossime per collocazione geografica.

La base poligonale è di travertino bianco.

Dalla terrazza del castello, dal mastio possente e dalle mura nere e terribili, la sveva Sigfrida aveva sognato l’unità d’Italia, desiderio gratuito, illusorio. Qui il re di Sicilia, Manfredi, figlio naturale di Federico II di Svevia, definito da Dante, nel III canto del “Purgatorio”, ”biondo, bello e di gentile aspetto”, nell’ebbrezza di una festa, in assenza del conte di Caserta, ne violentò la sposa. Quando il conte lo seppe, tacque, ma giurò vendetta, che avvenne quando Carlo d’Angiò, fratello di Luigi IX, re di Francia, marciò con le sue soldatesche contro Manfredi. Il conte appoggiò con le sue milizie l’angioino e per Manfredi, il 26 febbraio 1266, fu la rotta di Benevento, dove perse anche la vita, pur combattendo con disperato valore.

Da vedere Casa Uzzi. In una delle sale Pier Paolo Pasolini ha girato la scena del credulone Andreuccio da Perugia e di Bona, del film “Il Decameron”.

Nella facciata della cattedrale di San Michele, di gusto ornamentale arabo, che si manifesta nella policromìa del paramento, nella forma a ferro di cavallo delle finestre sui fianchi, ma soprattutto nel duplice ordine di archi intrecciati su alti piedritti che rivestono esternamente il tiburio della cupola ottagonale, sono raffigurati un toro, leoni, uno dei quali si accinge a divorare un cristiano. Sui tre portali iscrizioni, in caratteri longobardi. Sopra quello centrale, dell’arcangelo Michele, del 1153, figura il vescovo Giovanni.

Le 18 colonne della chiesa, provenienti dal tempio di Giove Tifatino, del periodo romano classico, hanno capitelli ionici e dorici. Notevole, al di sopra dell’altare maggiore, un crocifisso ligneo, del XVI secolo, come pure la tomba cinquecentesca del nobile casertano Ortensio Giaquinto.

Vicino al portale centrale, due leoni marmorei, duecenteschi,reggenti sul dorso una vasca battesimale del IV secolo.

Da ammirare nella cattedrale, a tre navate, risalente al tempo del vescovo di Caserta, Rainulfo, iniziata nel 1113 e consacrata nel 1153, anche il vivace pulpito, del XIII secolo, posto nella navata centrale, con le tesserine dorate e a vivaci colori, formanti un mosaico di stile cosmatesco, la tomba del vescovo Giacomo Martone, che richiama lo stile dello scultore senese Tino da Camaino, e la tomba del conte di Caserta, Francesco della Ratta (de Larath), veramente splendida, che, da sola, giustifica la visita a Casertavecchia. Un occhio di riguardo merita pure l’elegante campanile, eretto nel 1234, dagli evidenti influssi gotici nelle bifore. Esso, alto 32 metri e largo 8 metri, è a pianta quadrata, diviso in cinque ordini, tramite cornicioni divisorii.

Sulla reggia di Caserta Alexandre Dumas padre scrive, nel quarantacinquesimo                   capitolo di “Impressioni di viaggio. Il Corricolo”: “Caserta è la Versaglia napoletana. Ordinato da Carlo III e costruito da Vanvitelli, questo palazzo ha la pretesa di essere il più grande della terra, e ciò fa sì che nello stesso tempo, probabilmente,sia il più triste. Aggiungete che, come quello di Versaglia, è costruito in un luogo dove soltanto a forza di lavori gli si è potuto fornire qualche povero piccolo orizzonte. Si converrà che bisogna essere proprio regalmente capricciosi per venire ad abitare Caserta, avendo, a Napoli, Capodimonte e Resina.

Vero è che Caserta ha magnifiche cacce e che, in ogni tempo, come abbiamo detto, i re di Napoli sono stati grandi cacciatori innanzi a Dio. Uno dei tre parchi, parco boscoso, nero, feudale, è ancor oggi, a quanto si assicura, assai ricco di selvaggina. Questo bel parco, che vedemmo al cader della notte, e che certo non vi perdé niente come poesia e come maestà, è fiancheggiato da un altro parco, ben pettinato, ben curato, ben arricciato, al modo di quello di Versaglia, con una cascata assai bella cadente da un’oscura roccia che sembra esser nata sul posto, il che accade raramente alle rocce dei giardini inglesi, e una quantità di statue rappresentanti Diana, le sue ninfe e lo sventurato Atteone, d’indiscreta memoria, già per metà cangiato in cervo. Questo parco, a sua volta, confina con un giardino inglese, con grotte, ruscelli, ponti cinesi, casolari, serre e magnolie”.

Dumas padre ha saccheggiato, senza alcun scrupolo, il Valéry, “Voyages historiques et littéraires en Italie pendant les années 1826,1827 et 1828”, Bruxelles, Hauman, 1835, l. 13, cap. XIV.

Il grande poeta e scrittore tedesco Johann Wolfgang Goethe in “Viaggio in Italia”, visitando la reggia vanvitelliana, il 14 marzo 1787, ospite del pittore Hackert, scrive: “Il palazzo nuovo, veramente mostruoso, alla maniera dell’Escuriale, con molti cortili, è abbastanza regale. La posizione è straordinariamente bella, sulla più fertile pianura del mondo, eppure i giardini si stendono fino alla montagna. Un acquedotto porta un vero torrente per abbeverare il castello e i dintorni, e questa grande massa d’acqua, gettata su rupi artisticamente disposte, può venire trasformata in magnifica cascata. I giardini sono belli e ben adatti a una contrada che è tutto un giardino.

Il castello, riccamente regale, non mi parve abbastanza animato, e a noialtri non sembrano abbastanza comodi quegli enormi spazi vuoti. Credo che il re abbia la stessa impressione, perché si è provveduto per lui sulla montagna una tenuta, che è più accessibile, e più propria ai piaceri della caccia e della vita”.

Jacob Jonas Bjornstael, studioso famoso aperto alle idee nuove, scrive che “La reggia diventa più bella che Versailles… L’acquedotto è così magnifico che non ne ho veduto in nessun luogo l’uguale”. La presenza in città dello svedese è accertata, risalente al 1771. Tredici anni dopo lo scrittore pubblica “Briefe aus seinem auslaendischen Reisen”, in 8 volumi, Stralsund, 1777-83.

Alfredo Saccoccio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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