Alta Terra di Lavoro

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La Rivoluzione Francese tra l’individuo e lo Stato il nulla. La scomparsa dei «corpi intermedi»

Posted by on Mag 11, 2019

La Rivoluzione Francese tra l’individuo e lo Stato il nulla. La scomparsa dei «corpi intermedi»

La rivoluzione francese 200 anni fa negò ai lavoratori il diritto di associarsi. Pochi «clubbisti bretoni» decidevano di notte la Volontà Generale, quando i più erano andati a dormire. Già nel 1789 erano ostili a sindacati, ordini e confraternite religiose. Gli astratti furori di Rousseau preludio a liberalismo e marxismo.


Il 14 giugno 1791 l’Assemblea nazionale votava in Francia la famigerata legge Le Chapelier che toglieva ai lavoratori ogni diritto di associazione. La parabola rousseauiana che voleva ogni individuo disarmato e solo di fronte alla Volontà Generale era così completa.

Isaac-René-Guy Le Chapelier era un deputato bretone, di Rennes, avvocato, anzi «homme de loi», uomo di legge, secondo il nuovo lessico rivoluzionario che finiva per identificare gli avvocati non più con i difensori degli accusati o degli interessi particolari ma con i funzionari che applicavano una legge uguale per tutti. Leguleio, come la maggior parte dei rappresentanti del Terzo Stato, di quel fortissimo «club bretone» (ben quarantaquattro deputati) formatosi a Versailles alla vigilia degli Stati Generali, che condizionò pesantemente il dibattito nei primi e più decisivi giorni della Rivoluzione.

Provvisti di ferrea determinazione politica, di contro allo smarrimento degli altri delegati, spesso -come riferì un testimone- «come caduti dalle nuvole, in un paese, in un ordine di cose di cui non hanno la minima idea, i bretoni non avevano in realtà un progetto preciso oltre a quello di difendere a ogni costo le autonomie di cui la Bretagna godeva da secoli».


I trucchi del consenso

Ma erano molto bravi a «creare» l’unanimità con l’intimidazione degli avversari, a fabbricare il consenso, a mobilitare le voci con dei metodi che per la loro folgorante efficacia saranno immediatamente ripresi dai giacobini. Le sedute nel loro club si potraevano spesso fino alle due e alle tre del mattino così che i più (cioè quelli estranei al giro ristretto dei bretoni «illuminati» veri e propri) se ne andavano a casa per tempo.

Rimasti i soliti, del gruppo ristretto, ecco che la decisione veniva presa e l’indomani chi non c’era si sentiva comunicare cosa la maggioranza aveva convenuto (generalmente chi non c’era credeva di essere il solo o quasi ad essere andato via, e se ne vergognava un po’, per non essersi mostrato sufficientemente «patriottico»).

In Assemblea poi i clublisti si sparpagliavano, creavano capannelli di quattro o cinque deputati e riferivano loro che «on a établi…», «si è convenuto che…». Nella mente dei più si formava la convinzione che la stragrande maggioranza avesse già le idee chiare sul da farsi e l’adeguamento alla supposta volontà generale era quasi garantito.


Virtuosismi e giacobini

Il sistema, come già si è detto, sarà portato a virtuosismo dai giacobini, di cui Le Chapelier sarà tra i primi fondatori. Il «club» era il gioco di società più in voga. Clubs patriottici, di Amici della Costituzione, comitati di corrispondenza, società popolari e fraterne, di giovani, di militari, di stranieri. Tutti di derivazione massonica, negli uomini e nei rituali. Quarantaquattromila in tutta la Francia. Le Chapelier, con altri, fonderà gli Amici della Costituzione, un club installato nel convento dei giacobini. Avrà subito un migliaio di aderenti, i più estranei all’Assemblea. Ma Le Chapelier si era fatto notare per il suo furore ideologico già dal 2 novembre 1789, quando aveva decisamente appoggiato il testo di Mirabeau (alacremente difeso dal vescovo di Autun, Talleyrand) sulla nazionalizzazione dei beni ecclesiastici. Anzi, si era spinto più in là, insistendo sulla necessità di estirpare «tutte queste idee di corpi e ordini che rinascono senza posa» riferendosi agli ordini e alle confraternite religiose, nonché alle corporazioni di arti e mestieri e alle associazioni operaie, secondo il dogma rousseaniano che voleva il popolo frantumato in cittadini individui e nessun corpo intermedio tra essi e lo Stato. In fondo se lo Stato e i cittadini sono la stessa cosa (perché l’uno, grazie all’artifizio della «volontà generale» è la proiezione giuridica degli altri), qualsiasi organismo che si interponga non può essere altro che inutile e ultimamente nocivo. L’odio di Le Chapelier per i corpi intermedi (frutto di una logica spietata ma incontrovertibile, date le premesse) si spinse fino al punto di chiedere la chiusura di tutti i clubs. Egli stesso si scisse dai giacobini dopo la fuga del re a Varennes perché nella sua concezione di democrazia totale e totalizzante non c’era posto nemmeno per quegli abbozzi di partiti.

Ma dal vizio, quando lo si ha nel sangue, è difficile liberarsi del tutto e la tentazione di stare in una ristretta cerchia dalla quale si tessono incessanti trame per il «bene» della Nazione (maiuscola, come tutte le parole della Rivoluzione) è troppo forte. Così Le Chapelier diede vita al club dei Foglianti, gli ultimi «moderati» della Rivoluzione. Anche qui «era la chiesa che creava il suo vangelo», secondo l’acutissima espressione di Cochin, in uno psicodramma collettivo permanente nel quale l’unico grande assente era il senso del reale. E quando la realtà schiaffeggiava sul viso, semplicemente la si negava: Le Chapelier fu tra quelli che, dopo il fatto di Varennes, costruirono la fola del «rapimento» del re.

Fin da prima degli Stati Generali si era associato al coro che denunciava, sulla stampa, sul pulpito e sulla tribuna, la «feudalità». Sottoposti a propaganda martellante i francesi finirono per considerare l’antico ordine che aveva retto il paese per secoli, -e che era fatto di gerarchie, di privilegi, di autonomie di corpi e di garanzie, di contrappesi al Potere insomma-, come la più grande maledizione che avesse mai colpito il paese, la iattura che aveva diviso anziché unire.


Il denaro e la livella

Invece la nuova proprietà illuministicamente intesa, (in teoria) accessibile a tutti, esaltava gli animi: sarebbe stato il denaro il grande livellatore della vecchia società fondata sugli ordini. I «misfatti» della «feudalità» godettero di una sterminata letteratura; non c’era accidente che non venisse addebitato alla mancanza di una salutare «tabula rasa», fosse anche una moria di bestiame. E «tabula rasa» fu. Il 4 agosto 1789 fu votato il seguente decreto: «L’Assemblea nazionale distrugge interamente il registro feudale» (prima frase del preambolo).

Il mondo del lavoro era tuttavia rimasto fuori dal decreto, perchè i lavoratori non potevano certo essere definiti «parassiti» come i nobili o il clero. Le Chapelier e i rousseaniani «puri» erano stati messi in minoranza. Non era il loro momento, non ancora. L’occasione gliela diedero i Cordiglieri, che nell’inverno 1790-91 avevano cominciato a contare seriamente mettendosi alla guida dei clubs di quartiere (sociétés fraternelles). Questi si erano costituiti, sotto ispirazione di Danton e Marat, per organizzare il popolo minuto e gli artigiani che la costosa quota di iscrizione teneva artatamente lontani dai giacobini.


Tipografi e muratori

E i cordiglieri -dice lo storico Gaxotte- erano tanto più pericolosi in quanto non separavano le rivendicazioni corporative da quelle politiche. Erano stati loro a organizzare, a partire dal maggio 1791, i grandi scioperi di carpentieri, tipografi, cappellai e maniscalchi. Così il 14 giugno Le Chapelier aveva presentato la sua legge e l’Assemblea l’aveva approvata di getto. Da quel momento ogni «coalizione» (leggi associazione corporazione, sciopero organizzato o semplice assembramento) che cercasse di imporre un salario uniforme ai padroni veniva considerata un delitto tout court e come tale severamente repressa (leggi ghigliottina).

La legge era composta di otto articoli e vietava di ricostituire in qualsiasi forma o modo le corporazioni (già abolite il 2 marzo con la legge Allarde), di nominare rappresentanti, di proferire minacce contro i padroni o contro i crumiri, di istigare in qualsiasi forma e tali atti. L’ultimo articolo recitava: «Ogni raggruppamento composto di artigiani, operai (…) o da loro eccitato contro il libero esercizio dell’industria e del lavoro sarà ritenuto sedizioso e come tale trattato». La «libertà» del lavoro sarebbe stata assicurata, se necessario, con la forza. La motivazione della legge: «Non deve essere permesso ai cittadini di certe professioni di radunarsi per loro pretesi interessi comuni. Non ci sono più corporazioni nello Stato, ci sono solo l’interesse particolare di ogni individuo e l’interesse generale»; le teorie di Rousseau non potevano essere espresse in modo più chiaro e sintetico.

Non suscitò opposizioni, né nei giacobini né in Robespierre, e nemmeno sui giornali, tanto la filosofia illuminista aveva lavorato a fondo. I lavoratori ci metteranno un pò a capire che cosa, in base alle teorie sulla rappresentanza popolare, si erano votati contro. E quando capiranno, verranno presi a cannonate come nel caso delle successive insurrezioni di Lione. E come tante altre volte nella storia successiva, in nome del liberalismo prima e del marxismo poi, ambedue figli legittimi della Rivoluzione Francese.

Rino Camilleri

fonte https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=33605

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