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LA STORIA DEL SUD VISTA DAL SUD di Giuseppe Plnelli

Posted by on Lug 18, 2019

LA STORIA DEL SUD VISTA DAL SUD di Giuseppe Plnelli

C’era una volta il Sud, c ‘era una volta un re. E già, perché è impossibile parlare dei meridionali senza dire dei loro re, ed anche delle loro regine. Per grazia di Dio e volontà della nazione, i re del Sud non svegliavano con un bacio le belle addormentate, spesso non eran biondi né belli e sui cavalli bianchi ci stavano a malapena.

Ma, anche se i loro soprannomi non erano sacrali, anzi talvolta alquanto impertinenti, non furono mai simboli ma persone, con tutti i pregi e le debolezze dei loro sudditi e perciò da essi furono molto amati, come gente di famiglia. Anche quando si ebbero contro mezza Europa, seppero stare ai patti fino in fondo.

Calunniati fino ad oggi con pervicace furore come nessun altro di nessun ‘altra dinastia, anche presso chi non ebbe il tempo di conoscerli si sono conservati, dopo poco più d’un secolo dalla morte in esilio dell’ultimo re, così, quasi a dispetto, un ‘istintiva nostalgia.

Un solo popolo, d’uno staterello raccogliticcio e provinciale, dopo settecento anni, mandato senza nemmeno sapere perché, in un paese che il loro sovrano non aveva visto mai, venne, conquistò, devastò e mai si mescolò coi «cafoni» di cui non capiva una parola.

I sudditi del più grande e più antico regno d’Italia, dei sedicenti liberatori che abitavano di là dell’Appennino tosco-emiliano non conobbero che gli editti autoritari dei generali con la erre francese, gli ordini di requisizione, di confisca e di repressione armata, le condanne a morte dei resistenti, i mandati di cattura dei renitenti alla leva e l’ordine di distruzione d’interi paesi sospetti di simpatie per il vecchio Stato. Non conobbero che i decreti di un parlamento che, da Torino, da Firenze o da Roma, decideva un destino che non passava per il Sud se non attraverso le ordinanze dei prefetti e le manette dei carabinieri.

Del più bel regno d’Europa fu maledetta la memoria. Della più bella e vivace capitale del mondo non rimase che il peggior folclore e lo sberleffo. Dalla più bella reggia del mondo FURON PORTATE VIA ANCHE LE PENTOLE DELLA CUCINA

Al cognato Granduca che gli magnificava i progressi del suo stato, Re Ferdinando, un secolo prima, faceva notare che pure, se di toscani se ne trovava in tutt ‘Italia, di napoletani non se n ‘era mai visti cercar la felicità fuori dal Regno.

Nel 1861, dai porti di Napoli e di Palermo, partirono 6000 emigranti, 6800 emigranti nel 1862, 7000 emigranti nel 1863, 9000 emigranti nel 1864, 11.000 emigranti nel 1865, 18.000 emigranti nel 1866, 21.000 emigranti nel 1867, 26.000 emigranti nel 1868, 32.000 emigranti nel 1869, 40.000 emigranti nel 1870. Prima di essere invaso, il Sud aveva 12 milioni di abitanti. Fino ad oggi gli emigrati meridionali nel mondo sono 20 milioni senza contare quelli sparsi nel resto d’Italia.

«Partene ‘e bastimente pe ‘ terre assai luntane, cantene a bordo, sò napulitane»: oggi i meridionali non cantano nemmeno più.

Gli è rimasta solo la malinconia di non conoscere neanche il perché una volta lo facessero tanto volentieri e il sospetto che per un misterioso complotto qualcuno gli abbia taciuto un profondo sopruso.

Eppure, dopo molte generazioni di sradicati, ovunque nel mondo, anche parlando lingue nuove, i meridionali si riconoscono ancora fra di loro. Basta un’inflessione dialettale, un nome, un santo familiare perché si dichiarino «Paisà!»: sono ancora, a scorno della storia, anche in mezzo ad altri italiani, una nazione.

C’era una volta un paese felice e sembra una favola. Gli uomini meridionali, dicevano i viaggiatori, senza capire, son fieri, generosi, cordiali, contenti della loro vita. Le donne avevano vestiti dai colori sgargianti, pendagli d’argento e collanine di corallo. Rancore, diffidenza, omertà sono rimasti nei paesi desolati. Le nostre donne da più d’un secolo non vestono che di nero.

È su queste premesse che vogliamo raccontare, noi, la nostra storia. Una storia che giunge da quell’Italia che tutti conoscono come depressa e clientelare, terremotata e mafiosa, disoccupata e camorrista, abusivista e criminale, superstiziosa e sfaticata, dove civili sono solo i procuratori antimafia venuti dal Nord, e della quale si dice: «È sempre stata così».

Della quale, molti, di là da quell’Appennino, ormai farebbero volentieri a meno, senza neppur sapere che ciò che vantano come progresso, per buona parte, viene dalle casse rapinate del Sud e dalla fatica e dalle lacrime degli emigrati meridionali.
Dice: ma le lacrime non si trovano nei fondi d’archivio, una storia così non è roba scientifica.

È vero, ma nessuno si sogna di invadere il campo dei professori, le cattedre della scienza dove si costruiscono, ognuno con la sua regola, i tasselli del grande mosaico della vita. Ci mancherebbe altro. Noi, senza credenziali, proprio perché ci ritroviamo qui ad essere analfabeti come i nostri antenati, ci limiteremo solo a metterci nella giusta prospettiva, alla distanza giusta, non così vicini, per guardare tutto questo quadro che effetto fa.

E per capirne il senso ci allontaneremo ancora perché, se siamo convinti che quelle piccole, splendenti, raffinatissime, pur sempre utili ma sempre piccole, tessere di vetro da sole non rappresentano nulla, siamo altrettanto convinti che la nostra storia ha un significato solo se la si guarda con tutto il panorama.

Questa storia non è quindi per gli “addetti ai lavori ” ma è dedicata ai meridionali, soprattutto a quelli giovani, che forse non hanno mai pianto ma che talvolta sono stati costretti a nascondere i loro nomi così sfacciatamente paesani e a correggere la loro cadenza dialettale per far finta di non essere del Sud.

Ma anche a quegli adulti che sono abbastanza giovani da stare a sentire una storia senza pretese di scientificità, soprattutto a quelli che son stufi di considerare la loro dignità di meridionali quasi un abuso. Ed anche qui non parlo solo dei meridionali nati né di quelli che dal Sud se ne sono andati ma di tutti coloro, di qualsiasi parte del mondo, che per qualche ragione, poveri come loro, non si vergognano di considerarsi nonostante tutto, e proprio per questo, dei beati.

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