Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Lago Patria o Literno di Alfredo Saccoccio

Posted by on Apr 2, 2018

Lago Patria o Literno di Alfredo Saccoccio

   Il 6 gennaio 1804 lo scrittore, politico e diplomatico   francese François-Auguste-René de Chateaubriand (Saint-Malo 1768-Parigi 1848), uscito da Napoli per la grotta di Posillipo, scarrozzò nella campagna. Egli scese dalla vettura per cercare, a piedi, Patria, la vetusta “Liternum”. Riportiamo il brano di “Viaggio in Italia”, in cui il fondatore del Romanticismo letterario transalpino, dalla potente bellezza dello stile, dimostra una straordinaria erudizione: “Ed ecco subito un boschetto di pioppi, poi vigneti, poi campi di grano. La natura era bella, ma triste. A Napoli, come nello Stato Pontificio, i contadini non si occupano della campagna che al tempo delle semine e della mietitura; per il resto dell’anno si ritirano nei villaggi o nei sobborghi della città. Perciò le campagne son prive di casali, di greggi, d’abitanti e non presentano l’affaccendamento rustico della Toscana, del Milanese e delle regioni transalpine. Tuttavia ho veduto nei dintorni di Patria alcune fattorie decentemente costruite; ognuna aveva nel suo cortile un pozzo ornato di fiori con due pilastri cinti da piante di aloe. In questo paese è innato il gusto dell’architettura, che rivela l’antica patria della civiltà e delle arti.

   Certi pezzi di terra umida seminati di felci, vicino a campi boscosi, m’han ricordato la Bretagna. Da quanto tempo non rivedo le mie paludi native! Da poco si è abbattuto un vecchio bosco di quercie e d’olmi, fra i quali sono cresciuto, ed ecco mi vien voglia di piangere, come gli esseri viventi negli alberi della foresta incantata di Torquato Tasso.

   Ho scorto lungi, sulla riva del mare, la torre che si chiama di Scipione. All’estremità d’un casamento, formato da una cappella e da una specie d’albergo, mi son trovato in un campo di pescatori intenti a rappezzare le reti presso una vasca. Due fra essi m’hanno posto in barca e condotto ad un ponte sul luogo della Torre. Ho passato dune su cui crescono lauri, mirti e piccoli olivi. Salito con fatica in cima alla torre (punto di riconoscimento pei bastimenti), ho contemplato il mare sul quale si affisò tante volte Scipione: non sono sfuggiti alla mia religiosa ricerca alcuni avanzi di vòlte detti le “Grotte di Scipione”; pieno di rispetto, premevo il suolo onde eran coperte le ossa di chi cercò la solitudine alla sua gloria. Io avrò di comune col grande cittadino solo quest’ultimo esilio da cui niuno è richiamato”.

    Il nobile francese non raggiunse lo scopo di vedere la tomba di Scipione l’Africano, il solo a cui “la massima porta del cielo è aperta”, come scrive Quinto Ennio, il campione dei letterati filelleni, nel carme “Scipio”. Gli avevano detto che il suo mausoleo ancora ci fosse e su di esso c’era scritto la parola “patria”, unico avanzo dell’epigrafe famosa: “ingrata patria, non avrai le mie ossa”. Il visconte fu a Patria, l’antica Literno, ma non potè vedere la tomba. Egli vagò sulle rovine della casa, “cui abitò in esilio il più grande e il più geniale degli uomini”, a detta dello Chateaubriand. A lui “sembrava veder lui, vincitore di Annibale, a diporto lungo la riva del mare opposta a Cartagine, consolandosi dell’ingiustizia di Roma nelle dolcezze dell’amicizia e nel ricordo dei suoi meriti”.

   “Liternum”, l’odierna Villa Literno, conserva i resti di un tempio, italico, con un elevato e massiccio podio, di forma quadrata, di una basilica e di un teatro. Nei pressi del  Lago Patria, si ritirò, sdegnato, in volontario esilio, Scipione “l’Africano”, nel 183 a. C., piantando olivi e mirti nel suo podere liternino. Il grande generale, non secondo a nessuno fuorché ad Annibale, trascorse qui l’ultimo periodo della sua vita  in un campicello (“Epistola” 86), alla Cincinnato, dopo aver abbandonato gli affari pubblici per essere stato accusato di peculato da Marco Porcio Catone,  “il Censore”, conservatore fanatico, di una severità rimasta proverbiale. Secondo l’accusa, Publio Cornelio Scipione, comandante, assieme al fratello Lucio Cornelio Scipione, dell’esercito romano in Siria, si sarebbe appropriato di 500 talenti che il sovrano Antioco III aveva sborsato, di caparra, sul tributo da pagare a Roma, come riparazioni di guerra, dove non arrivarono mai. Citato dinanzi al popolo, egli si salvò solo rammentando ad esso la vittoria di Zama.

    Presso la città scorre l’omonimo fiume.

    La torre di Patria, sita sul litorale domiziano, nel Comune di Castelvolturno, è una torre di avvistamento, fatta costruire nel 1421 e donata, nel 1467, da Ferrante d’Aragona alla città di Aversa, fornita di caditoie, da cui gli assediati buttavano sui nemici olio bollente, fuoco e pietre.

   Il robusto torrione, dei 43 costruiti, in quell’epoca, in Terra di Lavoro, è, tra quelli rimasti, il meglio conservato, nonostante le numerose trasformazioni.

   La torre di Patria, in cui ha abitato, per alcuni anni, la duchessa d’Aosta con la sua servitù ed i suoi cavalli, perché, a parere del suo medico personale, è la zona più iodata del Tirreno, è un posto eccellente di vedetta e di segnalazione, grazie a segnali ottici, per difendere il territorio da eventuali sbarchi di corsari. Il servizio di guardia, gravoso e continuativo, la cui spesa era ripartita tra le “università” interessate, era disimpegnato da caporali e da soldati “torrieri”, i quali dovevano essere forestieri e non paesani. I caporali erano quasi tutti spagnoli e venivano nominati dal viceré di Napoli.

   Per frenare la smisurata audacia dei pirati che infestavano i mari e le terre delle nostre marine, apportando dovunque rovina e morte, il governo spagnolo escogitò un rimedio abbastanza efficace: in tutte le riviere del reame edificò, di passo in passo, alte torri. Questo sistema completo e permanente di difesa lungo il litorale serviva ad avvisare dello sbarco dei predoni turchi, per la salvezza delle popolazioni limitrofe.

   La torre poggia su base quadrata, m. 11,40 di lato, ha la forma di una piramide tronca, alta 15 metri, impostata, anch’essa, su un grande basamento quadrato, di m. 14,50 di lato, e si articola in tre piani coperti con volte a botte, destinati, in età vicereale, a magazzino, ad alloggiamenti e a  batterie, con cannoncini lunghi), in una villa padronale annessa al torrione tramite un passaggio aereo e in altre tre unità immobiliari, di cui fa parte una scuderia. Il tutto è recintato da un alto muro di tufo. Il territorio circostante, a macchia mediterranea, ha una superficie di circa 23.000 metri quadrati. La proprietà è al confine del demanio marittimo e della relativa spiaggia tirrenica, una volta “Literna palus”.

   La torre offre un vasto e splendido panorama naturale: oltre al Vesuvio e al Monte Faito, dal torrione costiero sono visibili il promontorio di Cuma, Monte di Procida, l’isolotto di S. Martino, Procida, Vivara, riserva faunistica, l’isola d’Ischia.

   Rammentiamo che sulla torre di Patria hanno scritto, tra gli altri, Vittorio Gleijeses (“La Provincia di Napoli”), l’umanista napoletano Pietro  Summonte, che chiamava la suddetta fortificazione “Castello di Annibale” e Raimondo Annecchino in “Storia di Pozzuoli e della zona flegrea”.

   Circa l’origine dell’etimo del sito, tutti concordano che esso sia derivato dalla celebre frase pronunciata da Scipione “l’’Africano”, riferita da Valerio Massimo, storico latino vissuto sotto l’imperatore Tiberio. Lo stesso Valerio Massimo riferisce che approdò al lido di “Liternum” una nave di pirati, che vennero ad omaggiare il grande esule.

    Publio Cornelio Scipione, detto “l’Africano”, vincitore di Annibale a Zama, nel 202 a. C., fu accusato dal tribuno Petilio di essersi lasciato corrompere dal re di Siria, Antioco III, “il Grande”, sconfitto a Magnesia dai Romani, nel 190 a. C.. Amareggiato per le ingiuste accuse mossegli dai suoi nemici, egli si allontanò dalla vita politica ritirandosi nella sua villa di Literno, in volontario esilio, dove morì nel 183 a. C., pronunziando le famose parole, riportate poi sulla epigrafe del suo mausoleo.

    Un altro autore che si sofferma  su Publio Cornelio Scipione fu Gustavo Strafforello, nell’opera  “La Patria – Geografia dell’Italia – Provincia di Napoli”, che  riferisce che la torre di Patria “fu edificata coi materiali della villa di Scipione e sul luogo preciso della sua tomba e sotto la torre fu trovato il celebre busto di Scipione in età senile che mostrava sulla testa calva una delle 27 ferite da lui riportate al Ticino”, contro Annibale. La statua, in basalto verdescuro, fu abbattuta dai fulmini e dai venti. Testimone oculare fu lo storico Tito Livio.

     

 Alfredo Saccoccio

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