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L’altra guerra: storie di briganti e di sangue

Posted by on Mar 24, 2018

L’altra guerra: storie di briganti e di sangue

«Cosa avrebbero fatto le SS di Himmler se qualche villaggio si fosse proclamato antitedesco e antifascista? Be’, i piemontesi fecero nel 1860 e negli anni successivi la medesima cosa, ma ci misero più impegno».

 

 

Molti anni prima dei suoi epigoni, nel 1972 fu lo scrittore Carlo Alianello a paragonare per primo i soldati piemontesi alle SS. Bersaglio delle sue parole a tinte forti, la feroce repressione che insanguinò il Mezzogiorno all’alba dell’unità nella guerra civile del brigantaggio. Di quegli anni e delle sue migliaia di morti, furono gli eccidi e le distruzioni nei villaggi meridionali le pagine più vergognose. Le truppe regolari, diventate ormai italiane ma che al Sud si continuò a chiamare «piemontesi», si comportarono come in un territorio conquistato. Furono 80 i villaggi distrutti, secondo le cifre che il deputato milanese Giuseppe Ferrari, federalista convinto, citò in Parlamento nel 1861. Un elenco con molte località campane e lucane, come Venosa patria di Orazio, Basile, Monteverde, San Marco, Rignano, Spinelli, Carbonara, Montefalcione, Auletta. I bersaglieri entravano nei centri abitati che ritenevano conniventi con le bande dei briganti e facevano terra bruciata. Al loro fianco, si distinse la Legione ungherese, che era stata con Garibaldi nella spedizione al Sud ed in quei mesi veniva utilizzata per la repressione della rivolta contadina del brigantaggio. Negli scritti dei comandanti militari, le violente motivazioni alla repressione. Il generale Giuseppe Gabriele Galateri ad esempio annunciò nel giugno 1861 che «chiunque non collabori con la forza pubblica per scoprire la posizione e i movimenti dei briganti vedrà la casa saccheggiata e bruciata». Gli «indifferenti» in quella guerra spietata venivano considerati complici, come teorizzò il maggiore Pietro Fumel. Sul giornale «Il commercio», si elencarono 16 paesi saccheggiati e incendiati dall’estate del 1861 all’autunno del 1862. Erano i comandi militari i veri padroni della vita e della morte di chi viveva nelle zone del brigantaggio. Poteri illimitati, poi giustificati dalla legge speciale del 1863: la famosa legge Pica. Nel luglio del 1861, la Legione ungherese, acquartierata nelle caserme di Nocera e Pagani e riconosciuta corpo militare autonomo alle dipendenze del ministero della Guerra, ebbe l’incarico di riconquistare Montefalcione in Irpinia dove la gente cominciava ad inneggiare a Francesco II di Borbone, re in esilio a Roma. Gli ungheresi arrivarono a Montefalcione il 9 luglio del 1861. Si suonarono le campane per lanciare l’allarme, la gente fuggiva, terrorizzata dalla fama spietata di quelle truppe. Qualcuno decise di resistere e furono decine i morti massacrati dai soldati. Il giornale «Il Nazionale» scrisse che «fu fatto orribile macello per le vie e le campagne». Il periodico liberale «La bandiera italiana» aggiunse impietoso: «La strage dei briganti ha espiato queste nostre dolorose perdite con immane ecatombe. Non è dato quartiere a nessuno e bene sta. È ora di liberare i paesi da questi irochesi». A Montefalcione, i morti accertati nella repressione furono 44. Nei giorni successivi gli ungheresi proseguirono a Lavello, poi a San Fele. Una circolare del VI dipartimento militare diffusa il 22 aprile 1863 dava indicazioni precise: «Si fucilino entro 24 ore i briganti armati che resistono». Fucilazioni a più non posso senza andare tanto per il sottile. A Montecilfone, nel Sannio, furono bruciate le case e uccise 60 persone. Stessa sorte per il paese di Pescolamazza in provincia di Avellino. Nel suo famoso e prezioso diario, il generale Enrico Cialdini annotò: «Nell’incendio di Auletta, più di 100 uomini tra i briganti uccisi». Nei soli primi nove mesi di unità, furono 6 i paesi incendiati e 918 le case distrutte. Ma è l’eccidio di Pontelandolfo quello più conosciuto. «Il generale Cialdini non ordina, ma desidera che di Pontelandolfo e Casalduni non rimanga più pietra sopra pietra», spiegò il generale Carlo Piola Caselli, capo di Stato maggiore del VI gran comando al maggiore Carlo Melegari. Il Matese e il Sannio erano in fiamme: 88 bande con l’assalto di 32 paesi, 49 scontri a fuoco con 63 militari e 36 civili uccisi. La rivolta aveva interessato un territorio ampio. Dominava la banda di Cosimo Giordano, che arrivò a Pontelandolfo nei giorni della festa di San Donato agli inizi dell’agosto 1861. I liberali erano fuggiti, la situazione degenerò con quattro morti vittime di vecchi conti da saldare e vendette personali. L’11 agosto, da Campobasso partì l’undicesima compagnia del 36esimo fanteria guidata dal tenente livornese Cesare Augusto Bracci. Era una ricognizione, ma i soldati si addentrarono nei paesi con leggerezza e tra Pontelandolfo e Casalduni ne vennero uccisi 41. Solo in tre riuscirono a scampare. Una commissione d’inchiesta successiva bollò come «inspiegabile» il comportamento di Bracci, che si era fidato troppo dei paesani. La rappresaglia scattò subito. Fu affidata al colonnello vicentino Pier Eleonoro Negri Il colonnello Gustavo Mazé de la Roche scrisse: «Stante la severa lezione che si ebbe a Pontelandolfo e qualche arresto fatto, lo spirito si è qui rialzato e tutto è rientrato nello stato normale». Il generale Raffaele Cadorna vi aggiunse la sua «più sentita soddisfazione». Solo tredici i nomi conosciuti delle vittime, che furono non meno di 164 secondo i giornali dell’epoca. Il 2 dicembre 1861, dell’eccidio parlò in Parlamento Giuseppe Ferrari, raccontando che solo tre case si erano salvate dalla distruzione. Oggi, Pontelandolfo si è proclamato «Comune martire d’Italia». Il giovane tenente Gaetano Negri, futuro sindaco di Milano, scrisse a casa: «Gli abitanti di Pontelandolfo commisero atti di barbarie, ma la punizione loro inflitta, seppure meritata, non fu meno barbara».

fonte

sudindipendente.superweb

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