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L’attacco fallace di Sam Harris al libero arbitrio

Posted by on Mar 10, 2018

L’attacco fallace di Sam Harris al libero arbitrio

Il nuovo pamphlet di Sam Harris, il noto filosofo rappresentante dei New Atheists, porta un titolo semplice e diretto: “Free will”. Memori dell’ultimo episodio che aveva visto Harris protagonista – di cui abbiamo dato conto nel nostro sito, ci aspettavamo una disamina sufficientemente equilibrata sul tema del libero arbitrio. In questo senso, siamo rimasti un po’ delusi: il filosofo statunitense pare essere riapprodato alle posizioni più radicali della corrente ideologica cui professa appartenenza. Il ritorno all’ovile appare totale, tanto più che le pagine del blog in cui pare avesse manifestato opinioni non del tutto allineate con quelle ufficiali sono state oscurate, e sostituite dalla pubblicità del suo ultimo libro (si tratta degli articoli intitolati “Morality without free will”, “Free will: why you still don’t have it” e “You do not choose what you choose”). Della diatriba interna al New Atheism non rimarrebbe alcuna traccia, se non fosse per qualche fuggevole cenno in un thread di discussione sfuggito alle forbici dell’ipotetico censore.

Sebbene non ci interessi giudicare la coerenza delle opinioni altrui, ci sembra tuttavia che questa “ritirata” sia indicativa di un fatto: il tema del libero arbitrio costituisce ancora e sempre un nervo scoperto di ogni sistema di credenze ateo. Detto in altri termini, così come per un credente è dogma di fede l’idea che ognuno sia responsabile delle proprie azioni – fintantoché esse si possano considerare liberamente scelte – allo stesso modo per un New Atheist deve essere dogmatico che nessuno possa essere ritenuto, in ultima analisi, responsabile delle proprie azioni. Lascerei da parte, per il momento, ogni (pur doveroso) distinguo di carattere giuridico ed etico: del resto, lo stesso Harris fa notare che una concezione “minimale” di libero arbitrio deve obbligatoriamente permanere in ogni sistema legale moderno e futuro, al fine di consentire una civile convivenza tra i membri della società.

Tuttavia, mi sembra interessante chiedersi il motivo di tale categorica inflessibilità. La risposta è, secondo me, piuttosto semplice: anche una pur minima incrinatura nella concezione meccanicistica delle azioni umane mette a repentaglio i capisaldi della propaganda ateista. Questo è un passaggio logico di cui lo stesso Harris è evidentemente ben consapevole, ed è presto spiegato. Come è noto, una delle strategie di attacco alle religioni da parte dei New Atheists è il problema del male (“Perché il Creatore, che è infinitamente buono e tutto regge e governa, permette che ci sia tanto male nel mondo?”). A quanto pare, questo argomento risulta per molti un facile ed efficace confutatore della credenza in Dio. D’altro canto, basta un poco di riflessione – magari alla luce delle parole dei Padri della Chiesa – per individuare un contro‑confutatore, altrettanto efficace, nell’idea del libero arbitrio (“Dio ha creato il mondo libero in una certa misura, e l’Uomo in misura massima, in grado liberamente di scegliere tra bene e male”, qui un approfondimento). È logico, dunque, che ogni annuncio di “morte del libero arbitrio” – magari apocrifamente accreditato dalle ricerche neuroscientifiche – possa rappresentare una potente arma retorica a favore della causa ateista; ed è analogamente evidente che la confutazione (o perfino la ragionevole messa in dubbio) di tale annuncio tenderebbe a spuntare l’arma. Chiarito questo punto, possiamo passare ad analizzare il testo di Harris.

A mio parere, “Free will” vuole essere un’arma dialettica proprio del genere di cui ho appena detto, e la cosa salta subito all’occhio. Il filosofo, infatti, decide di affrontare il problema del libero arbitrio partendo dall’analisi di un delitto particolarmente efferato. Non ho alcuna intenzione di ammorbarvi con i dettagli della storia, che è piuttosto violenta; per proseguire la nostra discussione, basterà solo notare che a un certo punto Harris (a commento delle gesta di uno dei malviventi) afferma: «Se fossi stato davvero nei panni di Komisarjevsky il 23 luglio 2007 – cioè, se avessi avuto i suoi geni e la sua esperienza di vita e un identico cervello (o un’anima) in uno stato identico – avrei agito esattamente come ha fatto lui. Non c’è, semplicemente, alcuna posizione intellettualmente rispettabile in base alla quale si possa negare ciò. […] Come possiamo dare un senso alla nostra vita, e ritenere le persone responsabili delle proprie scelte, data l’origine inconscia delle nostre menti consce? Il libero arbitrio è un’illusione». Ohibò. Appena ho letto questa dichiarazione mi sono detto: possibile che questo sia tutto l’armamentario argomentativo che Harris riesce mettere in campo? Francamente, mi sembra un po’ poco, e anche scarsamente fondato, sia dal punto di vista logico che da quello più strettamente scientifico.

Per esempio: che cosa intende esattamente Harris quando dice «Se fossi stato in lui, avrei fatto lo stesso»? Secondo me, l’unica posizione intellettualmente rispettabile in base alla quale egli può fare tale affermazione è la seguente: «Se gli fosse possibile tornare indietro nel tempo, Komisarjevsky [non Harris!] agirebbe nello stesso modo». Qualsiasi altra interpretazione implicherebbe una specie di incubo meta-cognitivo, secondo il quale qualcosa come l’”essenza vitale” di Harris sarebbe in grado di fare un viaggio di andata e ritorno nel corpo di Komisarjevsky, e di osservarne le azioni pur non determinandole direttamente – perché esse dipenderebbero, in ultima analisi, solo dallo stato fisico del cervello-ospite… bah! Onestamente, non potrei accusare nessuno di credere sul serio a un garbuglio del genere. In realtà, dunque, penso che Harris stia banalmente dicendo che accetta il determinismo ontologico, e che fonderà la sua analisi successiva su questa assunzione fondamentale. Il fatto è che sarebbe stato più onesto – a mio parere – se avesse dichiarato subito la sua personale adesione a questa particolare concezione filosofica, piuttosto che cercare di spacciarla per l’unica intellettualmente rispettabile.

Infatti, il determinismo ontologico non è affatto il solo schema teorico in grado di spiegare il funzionamento della realtà fisica: tutt’altro. Non starò qui a ridire i motivi di questa affermazione: ne ho parlato ampiamente in un precedente articolo. Basti osservare che la meccanica quantistica tende fortemente a escludere tale punto di vista (i tentativi di far rientrare il determinismo nella fisica moderna – le cosiddette teorie “a variabili nascoste” – non risultano a tutt’oggi particolarmente soddisfacenti). Ancora, Harris dà per scontato che non vi sia alcuna azione causale della mente sul cervello, ed esprime ciò mediante la lapidaria affermazione:”Il libero arbitrio è un’illusione”. Posizione filosofica, questa, che coincide con il riduzionismo materialista, e che è del tutto lecita: ma che, di nuovo, non è l’unica intellettualmente rispettabile. Anche di questo ho diffusamente parlato altrove (qui e qui), quindi non mi ci dilungherò oltre. Ricorderò solo che i risultati scientifici riportati da Harris non sono affatto univocamente interpretabili nel senso suggerito dal suddetto enunciato (e per la verità, si tratta sempre delle solite ricerche neuroscientifiche, vale a dire quelle di cui riferivo negli articoli appena citati).

Da questo punto in poi, l’esposizione del filosofo americano non è altro che lo sviluppo dialogico della tesi di fondo: la presunta illusorietà del libero arbitrio. Si tratta di una dissertazione piuttosto prevedibile, che non porta contributi conclusivi sul piano scientifico – e neppure convincenti argomentazioni filosofiche – e che pertanto non aggiunge niente di nuovo alla discussione sul libero arbitrio. In definitiva, dunque, nulla su cui valga la pena di soffermarsi.

Michele Forastiere

fonte

uccronline.it

 

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