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Le disavventure di Antonio Jerocades a Sora

Posted by on Dic 13, 2019

Le disavventure di Antonio Jerocades a Sora

Antonio Jerocades nacque nel 1738 a Parghelia, piccolo centro vicino Tropea, in quella che allora era chiamata Calabria Ulteriore. Il suo processo educativo lo portò quindicenne al Seminario di Tropea dove, sotto la guida di padre Leone Luca Rolli e Giovanni Andrea Serrao, ebbe la possibilità di accostare agli studi di autori antichi, letture su autori moderni d’oltralpe soprattutto D’Alembert, Montesquieu, Voltaire, Rousseau. Sotto l’egida del maestro Francesco Ungaro fece rapidi progressi. Come scrive il Martuscelli: «Ancor giovanetto scrisse varj panegirici, e componimenti in verso latino ed italiano, i quali fecero l’ammirazione di Monsignor lo vescovo; e la fama ne giunse fino in Napoli al chiarissimo abate Genovesi, con cui ebbe letteraria corrispondenza».

Non a caso, Benedetto Croce ricordava la sua precoce abilità nel comporre versi ispirati alle opere del Metastasio. Nel 1759, ordinato sacerdote, aprì una sua piccola scuola privata, dove propose metodi e contenuti di sapere alternativi e fortemente oppositivi rispetto a quelli tradizionali, legati anche alle esigenze locali di insegnamento ai figli di commercianti, dei pescatori e della borghesia in generale. Insegnò, oltre il latino e l’italiano, anche il francese, il greco e l’ebreo, ed il più metodico corso di filosofia e di matematiche. Coevamente, scrisse un Saggio dell’umano sapere, che vide la luce a Napoli, anni più tardi. Nella capitale meridionale si era recato nel 1765, dopo aver preso i voti sacerdotali. Intanto, a Messina, aveva dato alle stampe un componimento drammatico, intitolato La partenza delle Muse.

Il valore intellettuale del giovane Jerocades fu riconosciuto dai dotti di Napoli, tanto che l’abate Genovesi lo ospitò e lo trattò con tutti i riguardi. Inoltre, una volta saggiatene le qualità, gli propose una cattedra nel Collegio Tuziano di Sora. Così, il Nostro si recò nel ducato sorano per insegnare filosofia e belle lettere. Nei ritagli di tempo che gli lasciava il suo lavoro scolastico, compose un dramma intitolato Sofronia ed Olindo, che fece rappresentare dagli stessi suoi discepoli, per loro divertimento, durante le festività di Carnevale del 1769. Questo dramma venne poi pubblicato a Messina nel 1777, insieme con la cantata Il consiglio dei numi. Nel gennaio 1770, Jerocades, incoraggiato forse dai buoni risultati scenici ottenuti dai suoi allievi con il Sofronia e Olindo, compose un altro dramma, Il ritorno di Ulisse, affinché venisse recitato dai convittori durante il carnevale di quell’anno. Era d’uso infatti, che i frequentatori di questi collegi religiosi si dilettassero durante le festività carnevalesche nella messinscena di testi teatrali. Scrive il Brouwer: «Il manoscritto andò in giro per la città: alcuni lo lodavano come utile ed onesto, altri lo trovavano invece troppo serio. Allora l’autore, che non voleva privare i suoi scolari del divertimento, pel quale aveva già chiesto ed ottenuto dall’autorità locale il permesso necessario, scrisse due intermezzi comici; di questi, uno fu causa troppo meschina d’un incredibile diavoletto».

L’intermezzo in questione si intitolava Pulcinella da Quacquero. Secondo Martuscelli, aveva avuto una prima redazione, mai apparsa in pubblico, intitolata Pulcinella fatto principe, con palese sarcastico riferimento a Ferdinando IV che nel suo Regno aveva – sosteneva il quacquero – meno autorità di un semplice prete.

Dopo la prova generale si sparse la voce in Sora sul contenuto dell’intermezzo, e vi fu chi – un tale Nicola Lisi – arrivò a carpire l’originale dallo scrittoio dell’autore e a consegnarlo nelle mani del vescovo, monsignor Sisto. Questi, in considerazione che Il Pulcinella da Quacquero conteneva «sentimenti che dalle fondamenta distruggono le più sacrosante massime della Religione» e «proposizioni erronee, ereticali ed offensive delle pie orecchie dei fedeli», ne proibì la recita, sotto pena di incorrere nella sospensione a divinis per il rettore del seminario, D. Gennaro Partitario.

Tuttavia, la prova generale dello spettacolo si tenne il 14 febbraio; il Partitario sforbiciò in più punti il dialogo, mentre l’Jerocades voleva mantenere integro il suo testo. Il rettore, che aveva patito anni prima non poche noie per un certo D. Giovanni Grugar, un tristo soggetto già licenziato dall’istituto, maestro ancor lui e compagno dell’Jerocades, finì col cedere in parte. Da ciò apparirebbe ch’egli non condividesse fino in fondo le idee del suo dipendente. Sennonché, quando il vescovo fece affiggere alla porta del Collegio l’atto proibitivo, il Partitario, ritenendo questo passo lesivo al Collegio ch’era esente dalla giurisdizione ecclesiastica e dipendeva esclusivamente dall’autorità civile, con atto pubblico redatto da un notaio, procedette alla rimozione dell’editto vescovile, pronto ad accettare le disposizioni che avrebbe dato il Commissario di Campagna D. Biagio Sanseverino. Voleva tuttavia, per non mostrarsi troppo irriverente e ribelle, rimandare la recita o almeno sopprimere quell’intermezzo. L’Jerocades invece si ostinava, dicendo che bisognava rappresentarli o tutti e due o nessuno; e allora il Rettore acconsentì, a patto che il testo fosse mitigato e il titolo cambiato in Il servo napolitano. Fu quindi messo in scena insieme col dramma Il ritorno di Ulisse e l’altra farsa D. Inquintilla.

Irritato per la trasgressione del divieto, il vescovo mandò un primo reclamo a Sua Maestà, contemporaneamente alla relazione del governatore D. Felice Orlando, in cui fra l’altro pare si riferisse che in quella commedia «si insultava tutto il pubblico di Sora». Dal complesso di quanto è detto nella memoria, sembrerebbe che questa bufera, scatenatasi contro l’Jerocades e gli altri coimputati, fosse l’effetto delle controversie che agitavano la congregazione dei Gesuiti. Questi, cacciati dal regno e quindi anche dal Collegio Tuziano che era già stato nelle loro mani, avrebbero avuto interesse a mostrare che, dopo la loro dipartita, vi si era introdotta l’eresia e lo scandalo. Pare, altresì, che il vescovo iniziasse addirittura tutto un processo, nonostante mancasse il consenso del governo.

Intanto, il cavalier D. Francesco Vargas Macciucca, incaricato dal Re di esaminare la cosa e dire la sua opinione in proposito, riconobbe che le parole ingiuriose per la religione cattolica vi son dette in modo che «tutta vi si vede snervata la verità Cattolica a fronte delle assertive, e derisioni del Quakero». Mentre il protagonista della farsa avrebbe dovuto essere Pulcinella, «questi vi fa una ben fredda, e magra figura» e non serve all’ultimo che a mettere in ridicolo «il sesto precetto del decalogo, che vieta la Venere vaga, e la forma dalla Chiesa prescitta per lo Sacramento del matrimonio». La fabula di questo «mostruoso componimento è tessuta in modo che bisogna essere affatto stupido per non accorgersi, come il Quakerismo vi si fa trionfare della Cattolica Religione». Vi si offendono, inoltre, «con ingiuriose espressioni intere colte Nazioni, e tra l’Italiane specialmente la Napoletana». Concludeva infine, esponendo il suo parere e decisione: «Stimo poter la Maestà Vostra degnarsi di rescrivere a quel Prelato [Monsignor Sisto], che la sua Curia colla sua ordinaria facoltà a nome degli Ordini Regali del 1746 proceda in tale occorrenza, ma non venga né a citazione, né a carcerazione di coloro, che ne risulteranno inquisiti, se non esibisca prima a V. M. il Processo informativo, e non ottenga quindi il Regal Permesso di poter eseguire la citazione, o la carcerazione, e di poter procedere avanti nella causa». Consigliava poi per prudenza di allontanare dall’insegnamento e dal posto i due preti, «ben sapendosi per esperienza, quanto sia più facile il pervertire con una Comedia un giovane costumato, che convertire con tutto un Quaresimale un giovane scostumato».

Altresì, dietro ordine intanto della segreteria della Casa Reale, era stato invitato il Sanseverino a recarsi in Sora per aprire un’inchiesta. Egli vi andò, interrogò il Partitario e l’Jerocades e li reputò innocenti. Ma, poichè per ragioni di ufficio fu costretto a recarsi a Sessa Aurunca per un certo tempo, non potè inviare subito il suo rapporto; il quale fu poi allegato al processo, ripreso di nuovo dal vescovo dopo l’autorizzazione reale. Perciò, si può concludere che, se il Macciucca dispone che il processo fosse fatto dal vescovo, e da costui ne fossero a lui rimessi gli atti, fu perchè egli nulla sapeva della missione affidata al Senseverino, nulla del furto dell’originale, nè delle correzioni fatte nelle prove.

Comunque, è certo che del primo processo non si parlò più, e nel maggio fu, dietro l’autorizzazione, ricominciato da capo. In questo nuovo processo, il Rev.do Promotor Fiscale Canonico D. Gerardo Branca chiamò sul banco degli imputati altri due chierici, Carrara e Marzani (e questa inclusione è stata provvidenziale per il ritrovamento del testo, come vedremo tra poco), nella qualità di amici del Partitario e dell’Jerocades, quali «rei di illecite conventicule in pregiudizio della pubblica e privata tranquillità» e di «approvatori dell’intermezzo». Lo stesso Branca, in data 21 maggio 1770, scriveva nell’istanza che l’Jerocades «nei suoi discorsi e nelle sue proposizioni, in tempo che faceva permanenza in Sora, aveva fatto conoscere che fusse pervaso ed erudito in ogni sorta de’ libri, inteso delle dottrine delle diverse sette degli Eretici e capace di qualsivoglia composizione sì in materia d’Istoria e di Erudizioni, sì in materie Teologiche, Dogmatiche e Morali, sopra delle quali era solito raggionare con essersi alle volte avanzato a sostener proposizioni dannate ed ereticali, non già per difetto d’ignoranza ma per errore d’intelletto e perninacia di volontà rea».

A giudicar l’intermezzo furon chiamati i due frati P. Mastro Gioacchino Tuzii, guardiano dei minori conventuali, e il Rev.do Diego da Napoli, guardiano e lettore cappuccino; e il giudizio fu, com’era da aspettarsi, contrario. Seguì poi la sfilata dei testimoni, i quali, suppergiù, salvo lievi differenze, fecero, sia ingenuamente, sia perchè all’uopo istruiti, la medesima deposizione, contraria agli accusati. Il 22 maggio furono uditi il sacerdote D. Domenico Abbate Sangermano e il diacono D. Ermenelgildo Belmonte. Il giorno seguente furono ascoltati altri nove testi: i signori Matteo Marra e Angelo Perigli, il sacerdote Ferdinando Jasipaoli, il già nominato Nicola Lisi che negò il furto e accusò il Partitario e l’Jerocades d’aver seguitato a celebrar messa dopo la sospensione, i sacerdoti Amedeo e Saverio Carnevale che furon presenti alla prova e ricordavano esser stato corretto l’intermezzo e aver fatto da suggeritore con loro grande sorpresa il canonico Marzani, Pasquale Pisani che assistette dalla platea e il prete D. Gennaro Saccone. Uno dei Carnevale affermò d’altra parte esser stato impedito l’Jerocades di recarsi dal vescovo proprio dal Partitario e dal Carrara.

Durante il processo furono esibite alcune dichiarazioni di confessori, in cui si diceva che l’Jerocades non praticava il sacramento della penitenza; un attestato, a carico, di Carlo Lauri e Emidio Peruzza; un altro del notar Ludovico Lucarelli; e la relazione di cui abbiamo detto del vescovo di Tropea. La conclusione di tutto il gran lavorio non fu molto diversa dal consiglio che il Vargas Macciucca aveva dato. Questi aveva proposto che il Partitario e l’Jerocades venissero allontanati dal loro ufficio: il Nostro, conscio della sorte che gli sarebbe toccata, spontaneamente si allontanò, recandosi a Napoli, senza attendere l’esito della causa. Con un reale dispaccio, dopo circa quattro mesi dalla recita, egli e il rettore vennero ufficialmente e per sempre destituiti.

Cosa conteneva di tanto scandaloso il testo di quest’intermezzo? Da un carteggio conservato a Napoli il testo del Pulcinella è stato sottratto, e con ogni probabilità, distrutto. Tuttavia, chi compì una simile azione, dovette agire in maniera frettolosa e superficiale. Vediamo perché. Nel suo scritto, il vescovo di Sora si lagnava anche di altri personaggi. È probabile che si trattasse del «chierico beneficiato» D. Francesco Maria Carrara e del sacerdote D. Domenico Marzani, canonico della collegiale chiesa di S. Restituta, secondo quanto si può desumere da un altro manoscritto della Nazionale di Napoli. Si tratta dell’abbozzo di una anonima memoria defensionale assai scorretta, in favore dei suddetti chierici, ingiustamente rubricati nella causa del Pulcinella da Quacquero. Molte notizie, più o meno esatte, se ne ricavano, quantunque si tratti di uno scritto avvocatesco parziale negli aprrezzamenti; e a carte 17-23 è riportato l’intermezzo.

A leggere le parole della difesa, l’Jerocades non avea voluto che «mettere in mostra tre delle principali nazioni d’Europa: Italiana, Francese ed Inglese» e a ciò era stato spinto, perchè «in quel tempo appunto ai suoi scolari spiegava quella porzione d’Europa, che sta sotto il dominio Inglese». L’autore, con l’aver posto sulla scena il fondatore Giorgio Fox, avea appunto inteso di porre in derisione «tutta la setta» dei Quacqueri; e ricordavano che così s’era già praticato nella stessa Inghilterra. Gli avea poi dato quel titolo, perchè Pulcinella «con suo ridicolo affettava il costume Quacquero», indottovi anche «da una consimile commedia, che fu fatta in Roma, denominata Pulcinella fatto Ebreo».

Scrive ancora il Browuer: «Chi conosce le abitudini dei piccoli centri, i pettegolezzi che per delle inezie nascono e diventan talora una vera guerra, specialmente quando vi si mescola il sentimento religioso, si spiegherà presto tutto il fracasso, tutto questo strepito cagionato da una cosa indubbiamente di esiguo e ristretto interesse, che non potea produrre gravi conseguenze […]. L’intermezzo, letterariamente, non val proprio nulla: appena si legge, si vede che abbonda di spropositi di lingua e di stile […], e manca d’ogni più elementare logica ed arte drammatica, sconclusionato nell’insieme e nei particolari, che sono qualche volta delle insulse stupidaggini […]. Ora, se pure non si ammette che lo facesse con intendimento di scherno, in realtà le parole, così come son messe in bocca a Giorgio Fox, se non destano il riso, ripugnano però talmente che i fedeli non potean temere un serio pericolo».

Del resto, che il vescovo non avesse torto nell’osteggiare l’Jerocades, può ben essere; ma egli non capì che, col perseguitarlo in quel modo, gli avrebbe fatto assumere la comoda apparenza di vittima. Avrebbe fatto assai meglio, se con provvedimenti assennati, senza rumore, si fosse limitato a condannar l’intermezzo e ad ammonire l’autore. Una repressione violenta ed inopportuna fa spesso più male che bene: allora, come forse anche in altri casi, quel pastore di anime non fu nè sereno nè accorto. Tuttavia, nemmeno è vero che Jerocades fosse «vero e perfetto cattolico». Nella generale ignoranza del clero di Sora, e non di Sora soltanto, l’Jerocades, che non era sprovvisto d’ingegno e di cultura, seppe ben passare per vittima. Insomma, colpendo il Pulcinella da quacquero, le gerarchie ecclesiastiche vollero colpire un personaggio scomodo, che si era fatto conoscere con il Saggio sull’umano sapere, nel quale Jerocades aveva professato (e consigliato dunque ai giovani) il suo amore per la ricerca e la conoscenza, senza ipocrisia e senza timore di contraddire alle «leggi degli uomini», i quali possono sbagliare.

Nel Saggio c’era già tutto il “nuovo” di una mentalità che affermava il diritto alla felicità, la supremazia dei “fatti” sulle “parole”, l’odio per la pedanteria «fondamento del fanatismo», l’uso della ragione che, unitamente al sentimento, deve essere guidata dalla logica, ma soprattutto la supremazia della coscienza individuale. Si intuisce subito che l’intento di Jerocades è quello di provocare nei giovani la volontà del pensiero individuale, e di farne delle persone che ragionano, che decidono, magari che hanno dei dubbi. Su quella falsariga anche un’operetta come il Pulcinella, volutamente banale e “facile” (secondo la convinzione dello stesso autore che al popolo e ai giovani si debba parlare per “parabole”, per “favole”, per “rappresentazioni”), sia ricca di suggestioni e di provocazioni intorno al “nuovo mondo” che Jerocades intendeva tratteggiare. La favola rappresentata è semplice: Pulcinella e il suo padrone francese Monsù sono ospiti a Londra di Milard Thul, inglese, padrone di due schiavi che risulteranno essere figli di Giorgio (Fox). Pulcinella per poter sposare la fanciulla decide, pur con tentennamenti, di farsi quacquero. Questa è l’esile trama e in verità anche esili e superficiali sono le considerazioni fatte ora su un argomento ora su un altro, però sono interessanti. Indicativa è la citazione, aggiunta, quasi distrattamente, all’elenco dei nomi: «Dum nihil habemus majus, calamo ludimus», che ricorda quanto già Jerocades ha affermato nel Saggio: «I Regnanti ci han tolto dalle mani la spada, e per nostro passatempo, e sfogo ci han lasciato la penna».

In ogni caso, il processo a Jerocades non ne spegne assolutamente la voce. Anzi, in nome di quel “nuovo” da cui Pulcinella si sentiva irrimediabilmente attratto, egli diverrà nel volgere di poco tra i più convinti alfieri del “nuovo” credo massonico, alla cui diffusione dedicherà tutte le sue energie, fino alla morte, avvenuta nel 1805. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.

Vincenzo Ruggiero Perrino

fonte https://www.diocesisora.it/pdigitale/le-disavventure-di-antonio-jerocades-a-sora/

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