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L’ETA DELL’ORO DI FERDINANDO IV

Posted by on Mag 24, 2017

L’ETA DELL’ORO DI FERDINANDO IV

La prima cosa che si sente dire di Ferdinando IV, successore di Carlo VIII al Regno di Napoli, è che fu incolto e grossolano. Infatti, cominciano col dire i suoi biografi, ebbe come precettore il Principe di San Nicandro, grande cavalcatore, grande schermitore, grande bevitore ma affatto versato nelle buone maniere, nelle lettere e nelle arti. Nulla si dice di Padre Francesco Cardel, dotto e pio gesuita tedesco che ne curò la formazione spirituale e intellettuale né peraltro si ricorda che l’educazione alla politica e agli affari di Stato glie la diede il toscano Bernardo Tanucci, nientepopodimeno.

È un modo di far storia, questo, non nuovo nel mondo (per la morale si chiama calunnia o diffamazione) ma che la storiografia moderna ha assunto come metodo scientifico. «Calunniate, calunniate, qualcosa resterà» diceva Voltaire: di questa scuola ha fatto le spese, fra gli altri, l’intera dinastia dei Borbone delle due Sicilie, fino al punto che “borbonico”, anche sui vocabolari, vale ormai per oscurantista, retrivo, reazionario.

Ferdinando non fu né incolto né grossolano. Di lui, per esempio, ci restano tutti i diari privati che egli, puntualmente, secondo quanto gli raccomandava Padre Cardel, scriveva senza perdere un giorno, dietro ai più piccoli avvenimenti. Senza farne un fine letterato, queste migliaia di fogli rivelano una buona cultura e soprattutto una grande sensibilità d’animo e una solerte scrupolosità per i suoi doveri.

È notorio che Ferdinando, ancora giovane, sotto la reggenza del Tanucci, si interessasse di tutti gli affari di Stato e che, anche più tardi, volle sempre metter bocca in tutte le questioni, anche le più minute.

Ma tant’è, essendo Ferdinando vissuto a cavallo di grandi avvenimenti storici, ed essendo fra i pochi sovrani che li superarono ed anzi ne mostrarono la spavalda e meschina inconsistenza, essendo, come tutti gli altri re borboni, perfetta rappresentazione di tutto quel che significava il mondo meridionale e degli umori e delle speranze che lo animavano, essendo (anche se ciò non è notato da alcuno) l’unico monarca di grande statura sopravvissuto in pieno, col suo lunghissimo regno (17591825), alla prima grande bufera rivoluzionaria d’Europa, essendo infine il rappresentante di un popolo che, unico in Italia, era riuscito, con le sue sole forze, a non farsi travolgere dall’ubriacatura giacobina e ad umiliare i francesi, beh, non gliela si può proprio perdonare.

Ferdinando, fra tanti “monarchi assoluti”, fu l’unico a scavalcare il Settecento salvando, oltre la testa, la corona, lo Stato, e la devozione del suo popolo.

Ferdinando IV, “figlio di famiglia”

Ferdinando dunque, aveva otto anni. Un sollucchero per i napoletani quando passava, accompagnato dal fido Tanucci coi suoi austeri abiti neri e coi capelli raccolti a codino, nella carrozza reale per via Toledo, splendente di tutte le vaghezze con cui le dame di corte s’eran studiate di coccolarlo: parrucchino di boccoli incipriato, vestiti di seta bianca con galloni ed alamari di celeste (i colori nazionali), spadino rilucente.

I dragoni a cavallo della guardia del corpo avevano un bel daffare perché le donne, dame e popolane, a cui mandava baci con le mani, non lo prendessero e se lo mangiassero vivo e perché gli scugnizzi non si arrampicassero fin sul predellino per arraffare le monete che il reuccio, divertendosi un mondo, lanciava loro prendendoli dal borsellino dell’avaro tutore. Il matrimonio dell’allampanato padre (tanto buono ma tanto pallido e meschinello nell’aspetto) con la paffuta e rosea Maria Amalia aveva rinsanguato la razza dei Borbone: Ferdinando, a parte il naso di famiglia, cresceva bello, robusto e sempre più alto, quasi un gigante che, già nell’adolescenza, quando li guidava nelle manovre e nelle parate militari, si distingueva emergendo fra gli alti elmi dei suoi cavalleggeri.

Se il patto garantito dalla fede era il grande legame della Cristianità, la famiglia, cellula originaria, era il modello della società. Una grande famiglia era dunque l’Europa che alla ribellione dei figli protestanti rispose stringendosi ancor più nei patti coniugali. Se, tanto per cominciare a dar l’esempio, i regnanti s’erano sposati sempre senza far distinzione di nazionalità, i restanti re cattolici, viste come andavano le cose, cominciarono a premettere ad ogni altra dote della sposa, il fatto che fosse “di buona famiglia” ovvero che non avesse grilli per la testa. Prima di tutto doveva essere fedele. E quale garanzia era migliore che fosse stata educata nella vera religione?

Maria Amalia, allevata in Polonia, sentinella ad oriente della cattolicità, aveva dato buona prova di moglie pia e devota: lo stesso popolo napoletano la chiamava, senza ironia, “la santarella”. Da notare che i re cattolici, spagnoli e napoletani per primi, non badarono alle ricchezze o alla potenza nazionale delle loro spose ma solo alle loro virtù, andandole a pescare, per precauzione, soprattutto nelle più piccole e povere corti d’Europa. Così fu di Filippo V per Elisabetta dalla padana corte dei Farnese, così per Carlo con Maria Amalia, e così in seguito, per esempio, dei successori Ferdinando II che si prese Cristina di Savoia (“santa” anche lei, e quanto: ancora venerata), figlia di una piissima famiglia che nei secoli, però, s’era dovuta sempre accontentare di un territorio grande come una delle più piccole provincie del Napoletano e che, per cingere una corona di re, s’era accollata l’amministrazione di un’isola selvatica che quasi non sapeva dove fosse. Così fu infine per l’ultimo Francesco che, l’indomabile Sofia, nella cattolicissima Baviera, l’aveva scelta in una famiglia, nobile sì ma campagnola.

Ferdinando la moglie se la scelse nella corte imperiale, a Vienna. Maria Carolina era figlia di una gigantessa, Maria Teresa che, oltre ad esser «madre di tutte le sue terre» come imperatrice, di figli ne aveva fatti sedici: di figlie glie ne restarono quattro, tutte educate par far le regine. Il Sacro Romano Impero, quando mezza Europa divenne protestante, con la casa d’Asburgo s’era spostato verso l’Oriente, a dominare su popoli d’ogni razza e religione. Stretta fra i bellicosi prussiani e gli altri principi tedeschi da una parte, e dallo sterminato impero russo e dai turchi dall’altra, Maria Teresa, donna virtuosa e intransigente, seppe tenere insieme tutta quella pletora di gente e mise la basi per un impero che anche se poi dovette rinunciare, con Napoleone, ad esser più “Sacro e romano”, riuscì tuttavia a restare unito fino al 1918. Fra guerre coi vicini e ribellioni di frontiera, l’Austria s’era mezza dissanguata ma la corte, alla guida di tanta matriarca, nascondeva dignitosamente le sue strettezze con molto decoro, un’impeccabile etichetta e una saggia amministrazione.

Il matrimonio con Maria Carolina, nel 1768, un anno dopo che Ferdinando, diventato maggiorenne, avrebbe assunto in pieno i suoi poteri, era la buona occasione per mettere da parte, una volta per tutte, i dissidi fra austriaci e spagnoli, ultimi grandi cattolici rimasti, e soprattutto per riconciliarsi dell’ultimo affronto che proprio su quel Regno di Napoli s’era consumato. Del resto, tanto Carlo che Maria Teresa erano ormai ben convinti che le poche potenze rimaste cattoliche dovessero rinsaldare, e in fretta, i patti di famiglia.

“Patto di famiglia” difatti, chiama la storia, con sufficienza, quasi a dire che si trattava di qualcosa di mafioso, quello che legava Ferdinando a Napoli con i suoi genitori madrileni. Il che era anche naturale, tanto più che, in Italia, Carlo ci aveva lasciato un bambino. Il reggente Tanucci, in stretto contatto con la corte spagnola, non eseguì che gli ordini del padre e il padre, a sua volta, non smise di sovvenzionare le casse di uno Stato che aveva voluto prospero e felice.

Fino al 1767 quindi, i napoletani continuarono a vivere come se Carlo non fosse mai andato via.

Completata la reggia più leggiadra d’Europa, costruiti ministeri, tribunali, accademie, musei, conservatori, teatri (compreso il San Carlo, il più grande del mondo), ospizi, fortezze, caserme, arsenali, cantieri navali, accorsi a costruirsi palazzi vicino alla corte i nobili di provincia, abbellita la capitale, ormai tanto popolosa da esser terza città dopo Londra e Parigi, in tutto il Regno germogliò la più smagliante fioritura culturale.

Dopo la sua bellezza da sempre decantata, Napoli crebbe ancora di fama per i suoi abitanti, per fama di leggi, di scienza, di lettere ed arti, di musica, e di vivaio della più vasta, cosmopolita e rinomata classe intellettuale del Settecento italiano, la più oculata e snella burocrazia statale, la più intraprendente e internazionale borghesia del Mediterraneo, la più “rampante” e vasta corporazione di professioni liberali e (quel che coronava di vera gloria i Borbone e il popolo meridionale) il più satollo, allegro ed umano popolo del mondo.

FONTE

LA STORIA CHE NON SI RACCONTA

segnalato da

Gianni Ciunfrini

ferdinando-iv

 

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