Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

LETTERE DI PROTESTA DEL BARONE WINSPEARE

Posted by on Mar 1, 2017

LETTERE DI PROTESTA DEL BARONE WINSPEARE

Ricevuto codesto singolare documento del cinismo, con cui procede la rivoluzione italiana, il signor Winspeare dovea pur rispondere qualche cosa, e partire.

Così egli fece sotto la data del 7 Ottobre, con la cortesissima lettera seguente

«Eccellenza. L’occupazione del regno delle Due Sicilie per parte delle truppe piemontesi, della quale io ebbi notizia mediante la comunicazione di Vostra Eccellenza, in data di ieri, è un fatto tanto apertamente contrario alle basi di ogni legge e di ogni diritto, che sembrerebbe quasi inutile che io mi dilungassi a dimostrarne la illegalità; i fatti che hanno preceduto questa invasione ed i vincoli di amicizia e di parentela, tanto intimi quanto antichi che esistevano tra le due corone, la rendono tanto straordinaria e tanto nuova nella storia delle nazioni moderne, che lo spirito generoso del re, mio augusto padrone, non sapeva risolversi a crederla possibile; ed infatti, nella protesta che il generale Casella, suo ministro degli affari esteri, indirizzava il 16 Settembre scorso da Gaeta a tutti i rappresentanti delle potenze amiche, era chiaramente dimostrato che S. M. aveva la fiducia che S. M. sarda non avrebbe mai potuto dare la sua sanzione agli atti di usurpazione compiuti sotto ali’ egida del reale suo nome, nel seno della capitale delle Due Sicilie.

È parimente cosa superflua per me il cercare di dimostrare a Vostra Eccellenza che questa protesta solenne, unita a vari proclami del mio augusto sovrano ed agli eroici sforzi fatti sotto le mura di Capua e di Gaeta, rispondono in modo incontestabile alla strana argomentazione dell’abdicazione di fatto di S. M. che io fui sorpreso di leggere nella comunicazione summenzionata di Vostra Eccellenza.

L’anarchia ha trionfato negli stati di S. M. Siciliana in conseguenza di una rivoluzione invaditrice (debordante) della quale, fino dal primo momento, tutti presentivano manifestamente i disordini futuri, ed alla quale il re, mio padrone, proponeva già da gran tempo, ma invano, a S. M. il Re di Sardegna, di opporre, con un comune accordo, una diga affinché essa non potesse traripare, e non potesse mettere in pericolo, coi suoi eccessi, la vera libertà e l’indipendenza d’Italia.

In quest’ora fatale, in cui uno Stato, che conia 10 milioni di anime, difende colle armi alla mano gli ultimi avanzi della isterica sua autonomia, sarebbe cosa vana il ricercare da chi questa rivoluzione sia stata sorretta, tanto da diventare un colosso, ed in qual maniera essa abbia potuto arrivare a tanto da effettuare tutti quegli sconvolgimenti che essa aveva progettato.

Quella Provvidenza divina della quale Vostra Eccellenza ha invocato il santissimo nome pronuncierà, prima che scorra gran tempo, le Sue decisioni all’ora del combattimento supremo; ma, qualunque sia per essere questa suprema decisione, la benedizione del ciclo non discenderà sicuramente sopra coloro che si apprestano a violare i grandi principii dell’ordine sociale e morale, facendosi credere gli esecutori di un mandato di Dio.

La coscienza pubblica, dal canto suo, quando. sovra di essa non peserà più il giogo tirannico delle passioni politiche, saprà determinare la vera indole di una impresa usurpatrice, cominciata coll’astuzia e terminata colla violenza.

La cortese accoglienza fattami da questa popolazione generosa e leale, accoglienza della quale sarà sempre viva nel mio cuore la rimembranza, mi vieta di addentrarmi più ancora nella critica severa degli atti del governo di S. M. Sarda; ma Vostra Eccellenza vorrà bene intendere le ragioni per cui un più lungo soggiorno a Torino del rappresentante di S. M. Siciliana sarebbe incompatibile colla dignità di S. M. , come pure colle usanze internazionali.

E per questi motivi, protestando solennemente contro l’occupazione militare sopraindicata e contro qualunque usurpazione dei sacri diritti di S. M. il Re del regno delle Due Sicilie, già intrapresa e che sia per essere tentata, per opera del governo di S. M. il Re di Sardegna; riservando, inoltre, nello stesso tempo al Re Francesco II, mio augusto padrone, il libero esercizio del potere sovrano che a lui spetta, di opporsi con tutti quei mezzi che egli stimerà più opportuni, a queste aggressioni ed usurpazioni ingiuste; come pure di fare gli atti pubblici e solenni che egli stimerà esser più utili alla difesa della real sua corona; per questo, io dico, io mi appresto ad abbandonare questa residenza, appena avrò terminato di porre in ordine alcuni affari particolari di S. M., relativi alla successione dell’augusta sua madre, di santa memoria.

Prima di partire, io avrò l’onore di presentare a V. E. il signor De Martini, il quale sarà semplicemente incaricato di trasmetterle le comunicazioni che il governo del Re, mio padrone, trovasse più tardi conveniente di indirizzare ancora al governo di S. M. Sarda. Mi permetta, signor Conte, di prendere congedo da V. E. ringraziandola degli atti cortesi che ella ha ben voluto usare con me nelle nostre relazioni personali, ed aggradisca ecc.»

IL TERMINE DELLA COMMEDIA è VICINO; BANDO DEL RE SARDO

.La commedia oggimai toccava il suo termine, ed era giunto il momento, in cui dovea svelarsi l’intrigo e gittare al tutto la maschera. Il Garibaldi avea bastevoli argomenti per essere persuaso che da sé solo non verrebbe a capo di espugnare Capua e Gaeta; e per altra parte il Cavour ed il Farini intendevano a meraviglia che l’indugiare ancora per pochi giorni avrebbe potuto recare un colpo fatale all’impresa comune.

Imperocché i regii fatti animosi dalle ottenute vittorie ed rincuorati dalla presenza del Re, ben poteano da un momento ali’ altro fare uno sforzo supremo, sperdere le masnade che loro attraversavano la via, spingersi a Napoli e tornarla alla dovuta soggezione del legittimo Principe.

Quindi è che il Garibaldi accettò di gran cuore le offerte fraterne del Cialdini, che gli si esibiva pronto a varcare le frontiere dello Stato Napolitano con un 25 mila uomini; e il Cavour, lambiccatosi indarno il cervello per trovare qualche pretesto di ordinare manifestamente l’impresa, e non trovandone alcuno altro meno irragionevole ed iniquo, si gittò, come vedemmo, a quello del far così perché se ne avea la forza in mano; e si fece firmare dal Re Vittorio Emmauele il seguente Manifesto indirizzato ai popoli dell’Italia meridionale:

«In un momento solenne della storia nazionale dei destini italiani, rivolgo la mia parola a voi, popoli dell’Italia Meridionale, che mutato lo Stato nel nome mio, mi avete mandato oratori d’ogni ordine di cittadini, magistrati e deputati de’ municipii, chiedendo di essere restituiti nell’ordine, confortati di libertà, ed uniti al mio Regno, lo voglio dirvi quale pensiero mi guidi, e quale sia in me la coscienza dei doveri che deve adempiere chi dalla Provvidenza fu posto sopra un trono italiano.

Io salii al trono dopo una grande sventura nazionale. Mio padre mi diede un alto esempio, rinunziando la corona per salvare la propria dignità, e la libertà de’ suoi popoli.

Carlo Alberto cadde coll’arma in pugno, e morì nell’esiglio: la sua morte accomunò sempre più le sorti della mia famiglia a quelle del popolo italiano che da tanti secoli ha dato a tutte le terre straniere le ossa dei suoi esuli, volendo rivendicare il retaggio di ogni gente che Dio ha posta fra gli stessi contini, e stretta insieme col simbolo d’una sola favella.

Io mi educai a quello esempio, e la memoria di mio Padre fu la mia stella tutelare. Fra la Corona e la parola data, non poteva per me essere dubbia la scelta mai. Raffermai la libertà, e volli che esplicandosi, essa gittasse radici nel costume dei popoli, non potendo io avere a sospetto ciò che a’ miei popoli era caro.

Nella libertà del Piemonte fu religiosamente rispettata la eredità, che l’animo presago del mio Augusto Genitore aveva lasciato a tutti gli italiani. Colle franchigie rappresentative, colla popolare istruzione, colle grandi opere pubbliche, colla libertà dell’industria e dei traffichi, cercai di accrescere il benessere del mio popolo, e volendo sì rispettata la Religione cattolica, ma libero ognuno nel santuario della propria coscienza, e ferma la civile autorità, resistetti apertamente a quella ostinata e procacciante fazione, che si vanta la sola amica e tutrice dei troni, ma che intende a comandare in nome dei Re ed a frapporre fra il Principe ed il popolo la barriera delle sue intolleranti passioni.

Questi modi di Governo non potevano essere senza effetto per la rimanente Italia. La concordia del Principe col popolo nel proponimento dell’indipendenza nazionale, e della libertà civile e politica, la tribuna e la stampa libera, l’ esercito che aveva salvata la tradizione militare italiana sotto la bandiera tricolore, fecero del Piemonte il vessillifero, e il braccio d’Italia.

La forza del mio principato non derivò dalle arti di un’ occulta politica, ma dallo aperto influsso delle idee e della pubblica opinione. Così potei mantenere nella parte di popolo italiano riunita sotto il mio scettro il concetto di una egemonia nazionale, onde nascer doveva la concorde armonia delle divise province di una sola nazione. L’Italia fu fatta capace del mio pensiero, quando vide mandare i miei soldati sui campi della Crimea accanto ai soldati delle due grandi potenze occidentali.

Io volli far entrare il diritto d’Italia nella realtà dei fatti e degli interessi europei. Al congresso di Parigi i miei legati poterono parlare per la prima volta all’Europa dei vostri dolori. E fu a tutti manifesto, come la preponderanza dell’Austria in Italia fosse infesta all’equilibrio europeo, e quanti pericoli corressero la indipendenza e la libertà del Piemonte, se la rimanente Penisola non fosse francata dagl’influssi stranieri.

Il mio magnanimo alleato, l’Imperatore Napoleone III senti che la causa italiana era degna della grande nazione sulla quale impera. I nuovi destini della nostra patria furono inaugurati da una giusta guerra. I soldati italiani combatterono degnamente accanto alle invitte legioni della Francia. I volontarii accorsi da tutte le province e da tutte le famiglie italiane sotto la bandiera della Croce Sabauda addimostrarono, come tutta l’Italia mi avesse investito del diritto di parlare e di combattere in nome suo.

La ragione di Stato pose fine alla guerra, ma non a’ suoi effetti; i quali si andarono esplicando per la inflessibile logica degli avvenimenti e dei popoli. Se io avessi avuto quella ambizione che è imputata alla mia famiglia da chi non si fa addentro nella ragione dei tempi, io avrei potuto essere soddisfatto dallo acquisto della Lombardia.

Ma io aveva speso il sangue prezioso dei miei soldati non per me, per l’Italia. Io aveva chiamato gl’italiani alle armi; alcune provincie avevano subitamente mutato gli ordini interni per concorrere alla guerra d’indipendenza, dalla quale i loro principi abbonivano.

Dopo la pace di Villafranca, quelle provincie dimandarono la mia protezione contro il minacciato ristauro degli antichi governi. Se i fatti dell’Italia centrale erano la conseguenza della guerra alla quale noi avevamo invitati i popoli, se il sistema delle intervenzioni straniere doveva essere per sempre sbandito dall’Italia, io dovevo conoscere e difendere in quei popoli il diritto di legalmente e liberamente manifestare i voti loro.

Ritirai il mio Governo; essi fecero un Governo ordinato; ritirai le mie truppe; essi ordinarono forze regolari, ed a gara di civili virtù vennero la tanta riputazione e forza, che solo per violenza d’armi straniere avrebbero potuto essere vinti. Grazie al senno dei popoli dell’Italia centrale l’idea Monarchica fa in modo costante affermata, e la Monarchia moderò moralmente quel pacifico moto popolare. Così l’Italia crebbe nella estimazione delle genti civili, e fu manifesto all’Europa come gl’italiani sieno acconci a governare se stessi. Accettando la annessione, io sapeva a quali difficoltà europee andassi incontro.

Ma io non poteva mancare alla parola data agli italiani nei proclami della guerra. Chi in Europa mi taccia d’imprudenza giudichi con anima riposato, che cosa sarebbe diventata, che cosa diventerebbe l’Italia il giorno, nel quale la Monarchia apparisse impotente a soddisfare il bisogno della ricostituzione nazionale!

Per le annessioni, il moto nazionale, se non mutò nella sostanza, pigliò forme nuove: accettando dal diritto popolare quelle belle e nobili province, io doveva lealmente riconoscere l’applicazione di quel principio, né mi era lecito il misurarla colla norma de miei affetti ed interessi particolari. là suffragio di quel principio io feci, per utilità dell’Italia, il sacrificio che più costava al mio cuore, rinunziando due nobilissime province del Regno avito.

Ai Principi italiani che han voluto essere miei nemici, ho sempre dati schietti consigli, risoluto, se vani fossero, ad incontrare il pericolo che l’acciecamento loro avrebbe fatto correre ai troni, e ad accettare la volontà dell’Italia. Al Granduca io aveva indarno offerta l’alleanza prima della guerra. Al Sommo Pontefice, nel quale venero il Capo della Religione de’ miei avi, e dei miei popoli, fatta la pace, indarno scrissi offerendo di assumere il Vicariato per l’Umbria e per le Marche.

Era manifesto che queste province contenute soltanto dalle armi di mercenarii stranieri, se non ottenessero la guarentigia di Governo civile che io proponeva, sarebbero tosto o tardi venute in termine di rivoluzione.

Non ricorderò i consigli dati per molti anni dalle potenze al Re Ferdinando di Napoli. I giudizii che nel congresso dì Parigi furono proferiti sul suo Governo preparavano naturalmente i popoli a mutarlo, se vane fossero le querele della pubblica opinione e le pratiche della diplomazia.

Al giovane suo successore io mandai offerendo alleanza per la guerra dell’indipendenza. Là pure trovai chiusi gli animi ad ogni all’etio italiano e gli intelletti abbuiati dalla passione.

Era cosa naturale che i fatti succeduti nella Italia settentrionale e centrale sollevassero più e più gli animi della meridionale. In Sicilia questa inclinazione degli animi ruppe in aperta rivolta.

Si combatteva per la libertà in Sicilia, quando un prode guerriero devoto all’Italia ed a me, il generale Garibaldi, salpava in suo aiuto.

Erano italiani, io non poteva, non doveva rattenerli!

La caduta del Governo di Napoli raffermò quello che il mio cuore sapeva, cioè quanto sia necessario al Re l’amore, ai governi la stima dei popoli! Nelle Due Sicilie il nuovo reggimento s’inaugurò col mio nome. Ma alcuni atti diedero a temere che non bene interpretasse per ogni rispetto quella politica che è dal mio nome rappresentata.

Tutta l’Italia ha temuto che all’ombra di una gloriosa popolarità e di una probità antica tentasse di riannodarsi una fazione pronta a sacrificare il vicino trionfo nazionale alle chimere del suo ambizioso fanatismo. Tutti gli italiani si sono rivolti a me perché scongiurassi questo pericolo. Era mio obbligo il farlo perché nell’attuale condizione di cose non sarebbe moderazione, non sarebbe senno, ma fiacchezza ed imprudenza il non assumere con mano ferma la direzione del moto nazionale, del quale sono responsabile dinanzi all’Europa.

Ho fatto entrare i miei soldati nelle Marche e nell’Umbria disperdendo quell’accozzaglia di gente di ogni paese e di ogni lingua, che qui si era raccolta, nuova e strana forma d’intervento straniero, e la peggiore di tutte. Io ho proclamato l’Italia degli italiani, e non permetterò mai che l’Italia diventi il nido di sette cosmopolite che vi si raccolgano a tramare i disegni o della reazione o della demagogia universale.

Popoli dell’Italia Meridionale! Le mie truppe si avanzano fra voi per raffermare l’ordine. Io non vengo ad imporvi la mia volontà, ma a far rispettare la vostra. Voi potrete liberamente manifestarla: la Provvidenza che protegge le cause giuste, ispirerà il voto che deporrete nell’urna.

Qualunque sia la gravità degli eventi, io attendo tranquillo il giudizio dell’Europa civile e quello della storia, perché ho la coscienza di compiere miei doveri di Re e di italiano! in Europa la mia politica non sarà forse inutile a riconciliare il progresso dei popoli colla stabilità delle monarchie. In Italia so che io chiudo l’era delle rivoluzioni

C Dat. da Ancona addì 9 Ottobre 1860. — Vittorio Emmanuele. — Farini.»

Gianni Ciunfrini

 

 

1 Comment

  1. Cosa dire o aggiungere a quanto purtroppo non ci hanno MAI voluto far sapere mistificandone addirittura la sacrosanta verità.
    Spero e mi auguro che quanto disse S.M. Francesco II di Borbone delle Due Sicilie lasciando la Sua terra natia si avvveri e che Colui che dall’alto ci governa abbia tempi e modi per modificare tutto quanto si è dovuto subire in tempi di pace, serenità e prosperità del mio popolo.
    Agostino Catuogno

Leave a Reply to AGOSTINO CATUOGNO

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.