Alta Terra di Lavoro

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Liberiamoci dal meridionalismo e dal sicilianismo

Posted by on Set 28, 2018

Liberiamoci dal meridionalismo e dal sicilianismo

Quando calarono i “figli della nebbia[1]”… potrebbe iniziare così l’adagio, sulla scia degli innumerevoli lamenti che ci hanno visto protagonisti ieri, oggi e – probabilmente – anche domani, noi meridionali[2].

   Un adagio sommamente consolatorio che scarica sui “cattivi” venuti dal nord che ci hanno invaso, conquistato, colonizzato, spogliato dei nostri averi, tutti i mali presenti e futuri del Sud-Italia. Poi si potrebbe aggiungere noi che fummo e ci sentiamo magnogreci fino al midollo e, ancora, la famosa frase del gattopardo siciliano sulle “magnifiche civiltà[3].

La dobbiamo smettere!

Noi li invitammo quei figli della nebbia, aprimmo loro le porte[4] delle nostre città, delle nostre dimore, dei nostri salotti buoni, delle nostre banche stracolme di liquidità[5].

Tutto in nome di una fregola forestiera: “la modernità”.

Stavamo avviandoci – e in gran parte ci eravamo già riusciti – verso la modernità col nostro passo, un passo da meridionali quali eravamo e quali siamo, con una dinastia – la borbonica – che si era napoletanizzata, al punto da parlare finanche la nostra lingua. Invece no, bisognava fare in fretta, e farlo con quei ‘fratelli’ italiani che forestieri si sarebbero dimostrati per davvero occupandoci con truppe guidate da ufficiali che parlavano francese[6].

Il primo assaggio, noi meridionali, lo avevamo avuto nel non lontanissimo 1799. Uno scontro fratricida tra sciammerghe[7] e occupanti francesi da un lato, lazzari e filoborbonici dall’altro con decine di migliaia di morti. Alla storia gli uni sono stati consegnati come martiri della libertà, gli altri come i sanfedisti sanguinari[8] che annientarono il fior fiore della borghesia meridionale!

I francesi coi loro eserciti insanguinarono tutta l’Europa e anche le nostre contrade meridionali, ma non è politicamente corretto dirlo, scriverlo o dimostrarlo, fonti alla mano.

Chi vince decide chi è patriota. Lo furono veri patrioti i martiri napoletani del 1799. E così sia.

La storia si ripeté nel 1860 e i morti furono centinaia di migliaia, praticamente non se ne conosce il numero e né lo si vuol conoscere. Molti documenti furono distrutti nel cosiddetto “forno della carta[9]” e altri sono stati per decenni e sono ancora non facilmente accessibili.

I contadini siciliani prima e i contadini meridionali del continente poi furono utilizzati dai vari comitati liberali antiborbonici come forza d’urto contro l’esercito meridionale facendolo sciogliere come neve al sole. Nel giro di pochi mesi – passata l’illusione garibaldina – furono quegli stessi contadini a reimbracciare i fucili[10] e ad insorgere contro il nuovo regime che si stava rivelando peggiore del vecchio.

Una guerra civile decennale – 1860-1870 – che terminò con la sconfitta degli insorti meridionali e la consacrazione manu militari del nuovo stato.

Da questa guerra e dagli avvenimenti di questi primi dieci anni di unità, discende tutto: questione meridionale, meridionalismo e sicilianismo[11] .

Durante questi anni o si era unitaristi o traditori della patria con tutto ciò che ne conseguiva sul piano lavorativo e personale. Anni in cui il potere militare determinava scelte e comportamenti e contro il quale si poteva reagire solo con le armi. Tanto è vero che i giornali che provarono a criticare il nuovo regime furono tutti chiusi, uno dopo l’altro[12] e spesso i responsabili imprigionati. La stessa parola “borbonico” era divenuta pericolosa da pronunciare o – nel migliore dei casi – sinonimo di “reazionario”. E lo resterà fino ai giorni nostri. Per i più lo è ancora, per noi che scriviamo è termine consegnato alla storia del paese meridionale: non ne facciamo un mito e non ce ne vergogniamo, anzi per noi ha un suono familiare, di qualcosa che ci appartiene e ci fa stare meglio.

I liberali che avevano lottato per la caduta dei borbone si trovarono stretti tra il rinnegare se stessi e la propria opera[13] e magari rimetterci di persona – schierandosi apertamente contro il nuovo regime – oppure fare buon viso a cattivo sangue, guadagnandoci pure qualche incarico e un buon stipendio.

La relazione della commissione Massari (meridionale, pugliese) e la legge Pica (meridionale, abruzzese) furono le antesignane di tutte le successive commissioni, inchieste, relazioni, provvedimenti sul mezzogiorno fino ad oggi.

Un paese – quello meridionale – la cui economia veniva messa in ginocchio da una guerra civile diventava un luogo da studiare, capire, aiutare!

Ci aiutarono. Prima a suon di schioppettate e campi di concentramento[14], poi con qualche provvedimento legislativo per tenerci buoni. E continuano a farlo pure oggi, con la nostra complicità ovvero di quelli che ancora credono nella storiella dell’atavica questione meridionale.

Noi non ci crediamo più e da anni, ormai.

Per noi la questione meridionale così come fu posta in quegli anni di guerra fratricida e come viene ancora posta dagli epigoni di quei liberali meridionali che aiutarono i piemontesi a precipitarci nel baratro, non esiste e non è mai esistita.

Per questo è ora che buttiamo alle ortiche tutto ciò che ne consegue e cioè quell’armamentario culturale pseudo-scientifico detto meridionalismo (e sicilianismo) che non è servito altro a trovare pezze giustificative al “disastro meridionale[15].

Concludiamo queste righe citando pochi ma interessanti casi di studiosi o politici – chiamateli meridionalisti o come vi pare – che hanno espresso pareri forti e che però tali pareri sono pressoché sconosciuti e non solo al grande pubblico.

Elea di Zenone

fonte

https://www.eleaml.org/sud/den_spada/liberiamoci_meridionalismo.html

 

GRAMSCI


“Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti”.

Ordine Nuovo” 1920

 

SALVEMINI


[ … ] Ogni giorno che passa diventa sempre più vivo in me il dubbio, se non sia il caso di solennizzare il cinquantennio [dell’Unità] lanciando nel Mezzogiorno la formula della separazione politica. A che scopo continuare con questa unità in cui siamo destinati a funzionare da colonia d’America per le industrie del Nord, e a fornire collegi elettorali ai Chiaraviglio del Nord; e in cui non possiamo attenderci nessun aiuto serio né dai partiti conservatori, né dalla democrazia del Nord, nel nostro penoso lavoro di resurrezione, anzi tutti lavorano a deprimerci più e a render più difficile il nostro lavoro? Perché non facciamo due stati distinti? Una buona barriera doganale al Tronto e al Carigliano. Voi si consumate le vostre cotonate sul luogo. Noi vendiamo i nostri prodotti agricoli agli inglesi, e comperiamo i loro prodotti industriali a metà prezzo. In cinquant’anni, abbandonati a noi, diventiamo un altro popolo. E se non siamo capaci di governarci da noi, ci daremo in colonia agli inglesi, i quali è sperabile ci amministrino almeno come amministrano l’Egitto, e certo ci tratteranno meglio che non ci abbiano trattato nei cinquant’anni passati i partiti conservatori, che non si dispongano a trattarci nei prossimi cinquant’anni i cosiddetti democratici». Cfr. Lettera di G. Salvemini ad A. Schiavi, Pisa 16 marzo 1911, in C. Salvemini, Carteggi, I. 1895-1911, cit., pp. 478-81.

Lucchese, Salvatore, Federalismo, socialismo e questione meridionale in Gaetano Salvemini. Manduria-Bari-Roma, Piero Lacaita, 2004

 

STURZO


“Che le regioni italiane abbiano finanza propria e propria amministrazione secondo le diverse esigenze di ciascuna, e che la loro attività corrisponda alle loro forze… è razionale e giusto… Io sono unitario, ma federalista impenitente.

Lasciate che noi del Meridione possiamo amministrarci da noi, da noi disporre il nostro indirizzo finanziario, distribuire i nostri tributi, assumere la responsabilità delle nostre opere; non siamo pupilli, non abbiamo bisogno della tutela interessata del Nord”

La Regione, 1901

 

[1] La ‘felice’ espressione è stata coniata durante una conversazione privata da un amico dell’agro nocerino-sarnese (“del Principato Citeriore, prego”, direbbe lui!).

[2] In questo siamo compresi anche noi che scriviamo, ovviamente.

[3] “In Sicilia non importa far male o far bene : il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà, eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il ‘la’; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemilacinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi; è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso.” (p. 121) – Il Gattopardo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Feltrinelli, Milano, 1957

[4] A Marsala la porta che vide passare i Mille ora si chiama Porta Garibaldi.: https://www.grifasi-sicilia.com/paginamarsala_1.html

[5] Cominciò Garibaldi effettuando un generoso prelievo per la rivoluzione al “Banco dei Regi Dominii al di là del Faro”  altrimenti detto Banco di Sicilia in quel di Palermo.

[6] Ogni riferimento alle truppe sabaude o italiane che dir si voglia è puramente voluto.

[7] La sciammerga,, giubba lunga con falde, marsina, era il simbolo di quella borghesia che impadronendosi del demanio pose fine agli usi civici. L’opposizione alla classe giacobina delle sciammerghe – immortalata nel famoso canto “sanfedista” la Carnmagnola [Carmagnola, in francese la carmagnole, veste-divisa dei giacobini, canzone e danza che il popolo ballava durante la Rivoluzione intorno agli alberi della libertà.] nei versi “chi tene pane e vvino/ add’a essere giacubbino”), proseguì in diverse aree del mezzogiorno. Un episodio interessante è citato nell’opera di Saccomanno: “Noi qui dalla lontana America speriamo a essere solidali onde fare rispettare dai famosi sciammergari che prima ci tenevano schiavi ed io griderò sempre abbasso la sciammerga e viva la Società Operaia“. STORIA SOCIALE DEL COMUNE DI GRIMALDI (1905-1925), Raffaele Paolo Saccomanno, https://www.raffaelesaccomanno.net/

[8] Quanti cattedratici o giornalisti durante il loro iter formativo – scuola dell’obbligo, superiori , università – hanno avuto occasione di leggere che le condanne a morte furono decretate non dal “mostro” [il cardinale Ruffo] ma dal Nelson? E che, anzi, vi era stato un accordo fra le parti ovvero tra Ruffo e i liberali napoletani?

Scrive Scarfoglio: “[…] quando Ruffo ebbe firmato con i repubblicani l’armistizio che garantiva loro la vita salva e l’uscita con le armi e lo fece firmare dal rappresentante dell’Inghilterra, della Russia, della Turchia e della Francia, accadde un avvenimento singolare. Giunsero da Palermo i messi della Corte Borbonica, che rifiutò di riconoscere l’armistizio; giunse soprattutto Nelson, che a sua volta rifiutò di riconoscerlo, sebbene portasse la firma del capitano Foote. Allora il generale dell’Esercito cristiano della Santa Fede, che aveva guidato i briganti meridionali alla riconquista del Mezzogiorno e della capitale, si rivoltò in nome dell’onore militare e rifiutò di prender parte alla violazione dell’armistizio. […] ma anche i loro avversari, i repubblicani, sapevano che non erano briganti senza un perchè, e li rispettavano, come le poche parole della Fonseca Pimentel a proposito della fermezza di carattere e del coraggio mostrati dal popolo napoletano nella prima difesa di Napoli contro Championnet, ampiamente dimostrano. […] E come il brigantaggio nasce dalla presupposizione di un diritto violato, giusta o falsa che sia, così esso è capace di produrre diritto, che, per abnorme e singolare che sia, è pur sempre diritto. Tale è il significato della straordinaria lezione che Fabrizio Ruffo e i suoi briganti diedero nell’occasione ai rappresentanti delle Potenze europee, quando rifiutarono di violare la propria firma che quei figli di superiori civiltà violarono così sfacciatamente in cospetto al mondo.” [IL MEZZOGIORNO E L’UNITA’ D’ITALIA -di Carlo Scarfoglio, Parenti Editore, Firenze 1953 – pag. 159-160]

[9] Cfr. Lorenzo Del Boca, Indietro Savoia., Piemme, 2003

[10] Crocco ne è uno degli esempi più noti, ma furono in tanti, anche in Sicilia nella rivolta dei “cutrara” insorsero quelli che prima si erano battiti col Garibaldi. La guerra civile nel meridione continentale è passato alla storia come “brigantaggio”, cancellata per decenni dai documenti ufficiali – un mirabile esempio ne è “IL RISORGIMENTO NARRATO DAI PRINCIPI DI CASA SAVOIA E DAL PARLAMENTO 1848/1878”,  che si può trovare gratuitamente in rete nella edizione del 1888 in formato pdf  – e  dai libri di scuola.

[11] Il sicilianismo meriterebbe una trattazione a parte, perchè le illusioni autonomistiche di taluni che speravano di scrollarsi di dosso il giogo napoletano appoggiando Garibaldi, naufragarono ben presto, vi furono varie rivolte, tra cui quella meno nota dei “cutrara” di Castellammare del Golfo e Alcamo nel 1862 e quella più nota del “sette e mezzo”di Palermo del 1866, sedate entrambe nel sangue dai piemontesi. Scrive Camilleri sulla rivolta del setteemezzo: “Una tinta matinata del settembre 1866, i nobili, i benestanti, i borgisi, i commercianti all’ingrosso e al minuto, i signori tanto di coppola quanto di cappello, le guarnigioni e i loro comandanti, gli impiegati di uffici, sottuffici e ufficiuzzi governativi che dopo l’Unità avevano invaso la Sicilia pejo che le cavallette, vennero arrisbigliati di colpo e malamente da uno spaventoso tirribìlio di vociate, sparatine, rumorate di carri, nitriti di vestie, passi di corsa, invocazioni di aiuto.

Tre o quattromila viddrani, contadini delle campagne vicino a Palermo, armati e comandati per gran parte da ex capisquadra dell’impresa garibaldina, stavano assalendo la città. In un vìdiri e svìdiri, Palermo capitolò, quasi senza resistenza: ai viddrani si era aggiunto il popolino, scatenando una rivolta che sulle prime parse addirittura indomabile.

Non tutti però a Palermo furono pigliati di sorpresa. Tutta la notte erano restati in piedi e viglianti quelli che aspettavano che capitasse quello che doveva capitare: i parrini nelle sagrestie, i monaci e i frati nei conventi, alcuni nobili nostalgici e reazionari nei loro ricchi palazzi di città. Erano stati loro a scatenare quella rivolta che definivano “repubblicana”, ma che i siciliani, con l’ironia con la quale spesso salano le loro storie più tragiche, chiamarono la rivolta del “sette e mezzo”, ché tanti giorni durò quella sollevazione. E si ricordi che il “sette e mezzo” è macari un gioco di carte ingenuo e bonario accessibile pure ai picciliddri nelle familiari giocatine di Natale.

Il generale Raffaele Cadorna, sparato di corsa nell’Isola a palla allazzata, scrive ai suoi superiori che la rivolta nasce, tra l’altro, “dal quasi inaridimento delle risorse della ricchezza pubblica”, dove quel “quasi” è un pannicello caldo, tanticchia di vaselina per far meglio penetrare il sostanziale e sottinteso concetto che se le risorse si sono inaridite non è stato certamente per colpa degli aborigeni, ma per una politica economica dissennata nei riguardi del Mezzogiorno d’Italia.

Invece per il marchese Torrearsa, uomo della destra moderata, le cause sono da ricercarsi “nella profonda demoralizzazione delle masse“. Biografia del figlio cambiato, Andrea Camilleri – Edizioni Rizzoli

[12]De’ Sivo, fedele alla dinastia legittima, è destituito dalla carica di consigliere d’Intendenza e imprigionato. Scarcerato alcune settimane dopo, è nuovamente arrestato il 1° gennaio 1861; finalmente liberato due mesi dopo, vuole sperimentare la “vantata libertà della parola” e inizia la pubblicazione di un giornale legittimista, La Tragicommedia. Il vessillo del giornale è il “prepotente amore” alla patria, che non è la “Patria” astratta e letteraria dei rivoluzionari, bensì “idea semplice cui ciascuno intende senza dimostrazione; è il suolo ove siam nati, ove stan l’ossa degli avi, la terra de’ padri”. La Tragicommedia, che nasce anche con l’intento di “[…] ricordar le ricchezze dileguate, l’armi perdute, fra’ rimbombi de’ cannoni, e i gemiti de’ fucilati, e i lagni de’ carcerati”, viene soppresso dalle nuove autorità dopo i primi tre numeri. Imprigionato per la terza volta, lo storico napoletano sceglie la via dell’esilio e il 14 settembre 1861 parte per Roma, da dove non farà più ritorno.” Giacinto de’ Sivo (1814-1867) di Francesco Pappalardo

[13] leggetevi prima le Lettere Meridionali poco note di Villari del 1861 e poi le più conosciute del 1875 per farvene una idea. Una interessante lettura l’articolo di Ressa sugli esuli napoletani.

[14] Forte di fenestrelle ed altri.

[15] Cfr. L’unità truffaldinaL’origine politica del capitalismo padano e del disastro meridionale (Nicola Zitara)

 

 

 

 

 

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