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L’IMBROGLIO NAZIONALE di Aldo Servidio (prima parte)

Posted by on Gen 17, 2018

L’IMBROGLIO NAZIONALE di Aldo Servidio (prima parte)

Tutto venne “usato”.

La stimolazione, ben oltre i desideri naturali, delle ambizioni di una dinastia (i Savoia) che aveva fatto degli appetiti territoriali la sua stessa ragione di essere, ma che -se fosse stato possibile fare solo quel che desiderava -si sarebbe espansa, oltre che in Lombardia, solo in sinistra Po.

Le convenienze strategiche delle due potenze occidentali del momento (Inghilterra e Francia). Convenienze che consistevano nello spingere ad oriente la terza (impero asburgico) “cacciandola definitivamente dall’Italia” per sviluppare al meglio le proprie mire sullo scacchiere mediterraneo, e nel bloccare nell’occidente del territorio europeo le ambizioni di Vienna attraverso un soggetto politico (la nuova Italia) tanto fragile da non costituire problema né sul mare né sulla sponda africana ma sufficientemente forte per stoppare le ambizioni italiane degli Asburgo. Meglio un ostacolo forte in apparenza ­l’Italia unita -ma con lo scheletro d’argilla -pensava Londra -che un regno murattiano a sud (che sarebbe stata logica conseguenza di una delle possibili diverse soluzioni per l’unità d’Italia una volta che, per i motivi ricordati di politica interna inglese, si fossero eliminati i Borbone) con cui fare i conti al centro del Mediterraneo. Meglio una struttura unita e teoricamente ambiziosa ­pensava Parigi -che una Sicilia trasformata in piazzaforte “politica” inglese.

La faziosità di chi da tre secoli almeno vedeva nella Chiesa di Roma un fastidioso ostacolo ad una nuova morale sociale ed un residuato storico di oscurantismo superstizioso e parassitario.

La callidità di chi vedeva sorgere “soli dell’avvenire” o risorgere miti imperiali” tramontati da oltre millecinquecento anni.

L’onesto desiderio di chi sentiva possibile “rompere” una struttura sociale cristallizzata in forme di cartapecora.

Tutto venne usato, perché tutto venne opportunamente “piegato”, con la blandizie o con qualunque gratificazione adeguata, a quel tanto che poteva essere utile a realizzare un disegno preciso e previo di cui si era disposti anche a cedere i diritti d’immagine (anche e soprattutto agli attori “in scena”) purché i diritti di sfruttamento fondamentale da parte del ristretto ambito del gruppo costituente il “blocco storico” non fossero incisi.

Non è un gioco di parole, un escamotage dialettico per confermare un’interpretazione”: è proprio quel che emerge dai fatti.

Ed i fatti sono rappresentati dai pesanti auto-condizionamenti che -chi per un verso e chi per l’altro -subirono i comportamenti concreti persino dei principali protagonisti e tutori istituzionali della vicenda dell’Unità, specie se raffrontati con alcune loro sintomatiche espressioni che (se nulla aggiungono al peso “oggettivo” della parte recitata in commedia dagli stessi protagonisti) pur sempre rendono conto dei loro “desideri” più personali ed intimi: desideri che tali restarono riguardo alle vicende da loro stessi co/gestite con gli altri componenti del blocco.

Che cosa pensare -solo per limitarsi ai “monumenti nazionali” -del fatto che quello che tutti ritengono (ed a ragione) il supremo facitore dell’Unità, ancora il giorno prima di morire avesse detto a V. Emanuele II parlando del sud: “li governerò con la libertà e mostrerò ciò che dieci anni di libertà possono fare di quelle belle regioni. Tra vent’anni saranno le provincie più ricche d’Italia. No, basta con gli stati d’assedio, vi raccomando.”‘?

Vero è che Cavour non mancava del realismo necessario anche a passare sopra le proprie convinzioni più intime, ma come non pensare che sul letto di morte non dicesse il vero, ossia quel che intimamente avrebbe voluto veramente? Ma è anche vero che non un atto del governo “unitario” di Cavour andò nel senso dei suoi “intimi” desideri e che la linea ufficiale dei suo governo fu quella ricordata dal suo segretario Artom all’on. Massari già nel gennaio 1861.

Come non pensare che a Cavour potesse essere impossibile realizzare un intimo obiettivo solo se costrettovi dal realismo politico? E che cosa poteva condizionare la linea del desiderio di Cavour fino a produrre programmi ed effetti diametralmente opposti?

Non certo le opposizioni, se Garibaldi per quel poco che riusciva a parlare non mancava di denunciare -a modo suo, ma in maniera inequivoca -che tutto era stato tradito, e Mazzini si adattò a vivere sotto falso nome a Pisa fino alla morte (e ben sorvegliato dalla polizia) nella più totale impotenza e mancanza di volontà a muovere un dito che fosse un dito. Chi avrebbe impedito al Triumviro della Repubblica Romana, o al conquistatore o liberatore (poco importa qui) delle Due Sicilie di intaccare non un disegno “venuto male” ma il suo stravolgimento (rispetto alle loro volontà, se non altro)? La delusione provata da Mazzini dopo l’Unità (quando paragonò il popolo “immaginato” ad un cadavere) non spiega nulla: tutta la vita e l’esperienza di Mazzini era stata una sequela di “delusioni” da cui era sempre uscito più convinto di prima a continuare la lotta per coinvolgere ed educare il popolo.

Solo la consapevolezza che quel disegno cui avevano prestato, comunque, il braccio ‘ fosse, almeno, “congruente” con qualcosa d’altro, di cui a loro fosse solo “concesso” di condividere i profili!

Persino V. Emanuele II venendo nel 1870 al Quirinale non disse, come riporta l’agiografia risorgimentale: “Ci siamo e ci resteremo!” ma, molto più banalmente una frase dialettale piemontese che, concretamente, significava: e facciamo anche questo! Un’espressione chiara di tutta la sua rassegnazione a secondare un ingrandimento del suo regno che, per i suoi personali “desideri” risultava un po’ scomodo; una scomodità che, proprio considerando i suoi gusti personali, doveva evidentemente subire come parte essenziale di un disegno in cui, per altri versi, trovava posto “anche” la sua convenienza personale e dinastica.

Se questi erano i desideri e le posizioni dei “padri della patria”, è un fatto che tutto andò in senso diametralmente opposto alle loro intime volontà. Fin qui, però, ci si potrebbe ancora accontentare della spiegazione fornita dalla teoria dell’eterogenesi dei fini.

E vero, però, che le “nuove istituzioni” provvidero immediatamente ad organizzare un sistema di glorificazione e mitizzazione di “padri” tanto prevaricati nei loro desideri più intimi, che risultò cosi pervasivo e studiato a tavolino da raggiungere risultati che, oggi, più che falsi appaiono ridicolmente inventati. Ed è proprio davanti a questo sistema tanto pacchiano quanto “voluto” (evidentemente da chi vi aveva interessi un po’ diversi dalla stessa vanagloria dei protagonisti “di scena”) che anche la teoria dell’eterogenesi dei fini deve cedere le armi e dichiararsi impotente a negare una realtà fattuale frutto essenziale di un disegno preciso quanto, a suo tempo, oculatamente camuffato.

Per comprendere compiutamente, e spiegarsi, le vicende della prima Unità non resta, allora, altra possibilità che quella di “riformulare” la posizione di tutti quelli che “pensarono” di concorrere a definire il disegno dell’Italia unita”, nel senso di prendere atto che non furono altro che strumenti adoperati da chi, per l’Italia unita, aveva già un disegno ben preciso e concreto nel quale ciascuno aveva una puntuale funzione realizzativa pensata, sostenuta e sviluppata in funzione delle sue peculiari caratteristiche; una funzione che, comunque, doveva avere sempre il preciso limite di essere pensata e circoscritta in modo che non debordasse dai profili dei disegno complessivo.

Quegli strumenti dovevano essere mitizzati perché i bisogni della nuova Nazione fossero sistematicamente equivocati con quelli che potevano credibilmente essere attribuiti a ciascuno di loro; e quando la realtà andava in senso troppo diverso anche da quello attribuibile a più di qualcuno di loro, ecco la panacea: la spiegazione che i fatti derivassero dall’inattesa repentinità della nuova realtà e dall’ignoranza della situazione. Quando neppure questo bastò più, bisognava che l’ostacolo fosse fatto risalire a cause tanto oggettive da coinvolgere le tare razziali e di sangue del 40% della popolazione della nuova Italia.

. Una strategia fondante dell’Unità cosi ardita, ma anche tanto chiara, necessitava di una metodologia di mantenimento che fosse idonea a contenere e compattare sempre anche eventuali cedimenti della stessa piattaforma fondante.

La metodologia prescelta a questo fine fu quella centrata sulla “demonizzazione” di tutto quel che potesse intaccare la “sacralità assoluta ed intangibile” di quella Unità realizzata; soprattutto se quel qualcosa avesse potuto evidenziare che quell’Unità non si era realizzata, magari male ma come unica possibilità consentita dalle circostanze, ma era stata realizzata sulla base di un disegno funzionale a servire precisi interessi di gruppi tanto ristretti quanto determinati nel centrare gli obiettivi mirati.

E giacché il pericolo maggiore della percezione di questa caratteristica veniva dai due connotati sociali più refrattari a digerire lo “schema” di quel disegno funzionale (ossia, la struttura sociale delle Due Sicilie, che in quel disegno assumeva il ruolo passivo, ma indispensabile, della massa critica necessaria solo a raggiungere la consistenza quantitativa desiderata quanto a popolazione, territorio e gettito fiscale; e la cultura “cattolica” della stragrande maggioranza della popolazione, che rappresentava l’antitesi stessa di una logica di potenza e di controllo totale delle coscienze “per i superiori interessi della Stato/Nazione”) la metodologia della demonizzazione venne rivolta sia verso la popolazione meridionale che, più in generale, verso la “mentalità cattolica” dell’intero Paese.

Quest’ultima, in particolare, doveva essere demonizzata perché avrebbe privato i popoli italiani -sia con la presenza nella penisola della sede della Chiesa cattolica che con l’imposizione di una pedagogia pervertitrice e strumentale al mantenimento della popolazione in soggezione del potere e degli interessi clericali -del sano influsso protestante che aveva generato la teoria (ritenuta dalla Chiesa “strana” alla luce del Nuovo Testamento, ma ricorrente nell’interpretazione “politica” del Vecchio, fin dai tempi di una certa parte, ben nota, dell’interpretazione rabbinica) secondo cui il successo individuale e di gruppi sociali (come le Nazioni), anche in termini strettamente economici, dovesse essere inteso come effetto della benevolenza divina. Dunque, la Chiesa cattolica, negando che il successo materiale fosse, di per sé, segno della benevolenza divina, anche per questo motivo costituiva un ostacolo serio all’introduzione di nuovi valori sociali fondati sull’individualismo spinto fino alla relativizzazione di ogni altro diverso valore.

Naturalmente, l’attacco alla “cultura (mentalità) cattolica” doveva essere più sottile ed articolato; e, soprattutto, richiedeva tempi più lunghi e, comunque, ancora confondibili -al 1860 -con la semplice questione “politica” del persistente Stato pontificio, che, pur se già ridotto a dimensione “quasi simbolica”, comportava ancora troppe implicazioni internazionali che non avrebbero reso agevoli operazioni massicce e, soprattutto, immediate di demonizzazione.

Pericolo che, invece, non presentava la immediata demonizzazione di tutto quel che fosse borbonico perché era il modo più efficace per demonizzare “immediatamente” tutto quel che, della realtà delle Due Sicilie, potesse intaccare la “sacralità a prescindere” dell’Unità; e che rapidamente si mutò nel metodo della demonizzazione del “meridionale” (ovvero, e fin dal 1865, del “sudicio”, come ricorda N. Colajanni nel suo “Settentrionali e meridionali”).

Per scegliere la struttura operativa di tale metodologia demonizzante dei “borbonico” gli unitari dei blocco risorgimentale non dovettero lavorare di fantasia, perché già da tempo avevano imparato l’efficacia dei sistemi migliori per il suo sviluppo dall’esperienza fatta dalla diplomazia inglese proprio sullo scacchiere italiano negli anni precedenti il 1860.

Aldo Servidio

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